La visione d’insieme della parte corporea e di quella animica mediante la perfetta conoscenza dell’uomo

O.O. 310 – Importanza della Conoscenza dell’Uomo per la Pedagogia e della Pedagogia per la Cultura – 24.07.1924


 

Si è visto quanta importanza viene attribuita, nella pedagogia antroposofica, a quello che vi è nella coscienza del maestro: cioè che in essa realmente viva una conoscenza dell’uomo completa in se stessa. Ora, l’attuale concezione del mondo – come si è visto da vari esempi – non è invero adatta a penetrare a fondo nell’entità umana. Si comprenderà quello che intendo dire se lo spiegherò ancora nel modo seguente.

 

Dobbiamo distinguere nell’uomo anzitutto il suo corpo fisico, la sua organizzazione fisica; in seguito quella più sottile del suo corpo eterico o vitale che contiene le forze formative, quelle forze, viventi nella crescita e nei rapporti della nutrizione, che poi, durante i primi anni della vita, si affinano e diventano forze della memoria. Dobbiamo inoltre distinguere tutto quello che manca alla pianta – che pure ha le sue funzioni di crescita e nutrizione e, in un certo senso, vive persino nella memoria, in quanto mantiene sempre la sua « forma » – cioè quello che nell’uomo e nell’animale è il corpo senziente, il corpo astrale, il portatore delle sensazioni. Abbiamo inoltre l’organizzazione dell’io. Noi dobbiamo distinguere l’una dall’altra queste quattro parti dell’uomo. Per il fatto di distinguerle, noi otterremo una visione reale dell’entità umana, nella sua essenza e nel suo sviluppo.

 

Se così posso esprimermi, l’uomo riceve il suo « primo corpo fisico » per ereditarietà. Esso gli viene preparato da padre e madre. Questo primo corpo fisico, nel corso dei primi sette anni di vita, viene eliminato, ma serve di modello al corpo eterico per costruire il secondo corpo fisico. Oggi la gente è così tremendamente semplicistica nell’immaginare le cose quali sono realmente! Se un bambino di dieci anni ha il naso che assomiglia a quello del padre si dice che lo ha ereditato. Le cose però non sono così semplici, perché il naso è ereditato soltanto fino alla seconda dentizione. Infatti, se il corpo eterico è abbastanza forte da ribellarsi contro il modello del naso ereditato, allora la sua forma cambia nel corso dei primi sette anni. Se invece il corpo eterico è debole, esso mantiene servilmente la forma del naso, e al decimo anno esso avrà ancor sempre la medesima forma. Considerato esteriormente, sembra che il concetto dell’ereditarietà abbia sempre il medesimo significato nel secondo settennio di vita, come nel primo; oggi alla gente piace dire, in questi casi, che la verità deve essere semplice. In realtà le cose sono molto complicate. Le concezioni che oggi si costruiscono, il più delle volte sono frutto di una certa pigrizia e non dell’anelito verso la verità.

 

Si tratta quindi veramente di imparare a guardare nel corpo delle forze plasmatrici, in quel corpo eterico che via via, nei primi sette anni di vita, elabora il secondo corpo fisico il quale, a sua volta, rimarrà per altri sette anni. Il corpo eterico lavora quindi plasticamente, è imo scultore. Come un vero scultore, esso non abbisogna del modello, ma lavora in modo indipendente, mentre uno scultore mediocre fa tutto secondo il modello; così nel primo periodo della vita, e verso il secondo, il corpo eterico, o corpo delle forze plasmatrici, lavora al secondo corpo fisico dell’uomo. La nostra attuale conoscenza intellettuale arriva al corpo fisico e ci permette di comprenderlo a meraviglia. Chi non avesse facoltà intellettuali, non lo capirebbe. Ma qui si fermano i nostri studi superiori, perché il corpo eterico non lo si comprende intellettualmente, ma per osservazione immaginativa. Sarebbe straordinariamente necessario per l’insegnante imparare a comprendere il corpo eterico.

 

— Né vale dire: Noi non possiamo educare i nostri insegnanti in modo che essi divengano chiaroveggenti e descrivano il corpo eterico. Facciamo piuttosto in modo che, in luogo delle tante cose che imparano nella scuola preparatoria, gli insegnanti possano modellare, facciamoli esercitare nell’arte della scultura: in quest’arte l’uomo, se egli si dedica davvero alla scultura, attingendo alla natura formatrice, vive nell’intima connessione delle forme, proprio in quelle forme con le quali lavora il corpo eterico dell’uomo. Chi sente sanamente l’arte plastica sente, come plasmabili in scultura, soltanto il mondo animale e quello umano, non il mondo vegetale. Immaginiamoci uno scultore che nelle sue sculture rappresenti delle piante! Gliele si vorrebbero fracassare dalla rabbia! La pianta è completa con corpo fisico e corpo eterico; realmente essa è tutta lì. L’animale invece oltrepassa il corpo eterico col corpo astrale; e l’uomo ancor di più. Perciò nell’uomo noi possiamo comprendere il corpo eterico se, per mezzo della scultura, ci sforziamo di penetrare nell’intima struttura di forme della natura. Il modellare dovrebbe perciò essere soprattutto materia di insegnamento per maestri, perché così si comincerebbe a comprendere il corpo delle forze plasmatrici.

 

— Si dovrebbe anzi enunciare la massima: Un maestro che non abbia mai imparato a modellare, in verità nulla capisce dello sviluppo del fanciullo. L’arte pedagogica che voglia basarsi sulla conoscenza dell’uomo deve essere così draconiana da farci notare queste cose, così draconiana perché esige simili cose, ma anche così draconiana perché apparentemente si diventa critici e si rifiuta in modo radicale tutto ciò che si fa oggi.

 

Come il corpo eterico lavora per liberarsi e rendersi autonomo alla seconda dentizione, così lavora a sua volta il corpo astrale che diventa poi autonomo con la pubertà. E se il corpo eterico è uno scultore, il corpo astrale è un musicista. Esso incorpora in sé tutto quello che è musicale, è totalmente formato di struttura musicale. E quanto nell’uomo viene immesso nella forma, partendo dal corpo astrale, è assolutamente formato in modo musicale. Chi giunge a capire questo sa che l’ulteriore formazione degli insegnanti deve arrivare a fair loro assimilare l’intima concezione musicale del mondo per poter comprendere l’uomo. Infatti chi non è musicale nulla comprende di quanto nell’uomo si forma per mezzo del corpo astrale; poiché questo è conformato musicalmente. Se perciò osserviamo le antiche civiltà che sono ancora costituite su di ima base musicale, le civiltà orientali, che persino nella lingua hanno ancora qualcosa di musicale, noi troviamo, fin nell’architettura, le forme costruttive conformate secondo una concezione musicale dell’universo. Già in Grecia era diverso, ma specialmente nei paesi occidentali tutto è andato diversamente perché quivi ci si è inoltrati nell’elemento meccanico e matematico. Nel Goetheanum di Dornach si cercò di ritornare ad una concezione musicale, ed infatti dei musicisti lo sentirono assolutamente come « musicale ». Ma oggi, in generale, non si ha molta comprensione per queste cose.

 

Si tratta dunque di imparare ad afferrare concretamente l’entità umana e di essere in condizioni di comprenderne musicalmente il lato anatomico fisiologico in quanto esso ha origine dal corpo astrale. Si pensi per esempio come l’elemento musicale è in intimo rapporto col processo respiratorio e circolatorio. L’uomo è tutto uno strumento musicale, in quanto respira e in quanto ha un processo circolatorio. Considerando il rapporto fra respirazione e circolazione, di 18 respirazioni e 72 pulsazioni al minuto, ne risulta un rapporto di quattro a imo — esso si modifica nei modi più svariati a seconda degli individui — e si scopre allora che l’uomo possiede un’intima struttura musicale. Il rapporto quattro a uno esprime infatti il ritmo di un rapporto interiore, ma che si esplica nell’intera organizzazione umana, qualcosa in cui l’uomo vuol vivere attraverso il suo proprio essere. Quando in tempi antichi si scandiva, il verso era ordinato secondo il respiro, e il singolo piede secondo la circolazione: dattilo, dattilo, cesura, dattilo, dattilo: quattro in uno. L’uomo esprimeva allora se stesso.

Ma quello che l’uomo esprime poi nel linguaggio, egli lo rende già prima nella sua forma. Chi comprende l’uomo musicalmente sa che in lui opera il suono. Quello che nell’uomo ha sede nel dorso, là dove s’incontrano le scapole, e che iniziando da lì agisce per formare l’uomo tutto, sta all’origine di quelle forme umane che si costituirono sulla base dell’intervallo di prima. Continuando verso l’omero, la forma trapassa nella seconda. Scendendo all’avambraccio veniamo alla terza. E poiché esiste una terza maggiore e una terza minore – e non una seconda maggiore e ima seconda minore – abbiamo un solo osso dell’omero mentre ne abbiamo due nell’avambraccio: l’ulna e il radio; appunto perché ci sono la terza maggiore e quella minore. In tutto questo è insita la scala musicale; noi siamo costruiti a sua norma. Chi studia l’uomo soltanto esteriormente, non sa che egli, nella sua forma, è costruito secondo i suoni musicali. Se poi arriviamo alla mano, giungiamo alla quarta e poi alla quinta. Nel movimento libero usciamo del tutto da noi stessi e afferriamo la rimanente natura. Da ciò deriva la sensazione peculiare che si ha nelle seste e nelle settime, segnatamente quando, con l’euritmia, ci si addentra in queste cose. Si pensi a come diventa lo stile musicale con la terza, apparsa relativamente tardi nell’evoluzione della musica: esso assume quel carattere che porta l’uomo ad entrare nella propria interiorità, vivente appunto nella terza; quando invece l’uomo vive nella settima, lo stile diventa tale da far meglio sperimentare l’abbandonarsi al mondo esterno. Il sacrificio di se stesso è specialmente insito nella settima.

 

Allo stesso modo come l’uomo sperimenta l’elemento musicale, così è egli stesso, nelle sue forme, costruito sulla base dell’elemento musicale. Perciò, se il maestro vuol essere un buon insegnante di musica, se soprattutto — come deve accadere fin dall’inizio della scuola elementare — egli vuole insegnare il canto al fanciullo, come ha da essere, allora egli deve effettivamente comprendere che il canto si emancipa; in precedenza il corpo astrale ha infatti « cantato » ed ha così elaborato le forme dell’uomo. Ora, tra la seconda dentizione e la pubertà, il corpo astrale si emancipa. E quanto sboccia dall’elemento musicale è ciò che forma l’uomo in modo indipendente. Nessuna meraviglia quindi se quanto permea così l’uomo, da un maestro di musica che comprenda le cose in questo modo, venga poi naturalmente portato nell’insegnamento del canto e, di conseguenza, nella musica strumentale. Perciò noi incominciamo il più presto possibile, in rapporto alla disposizione musicale dei fanciulli, ad insegnar loro non soltanto il canto, ma direttamente a servirsi di uno strumento musicale qualsiasi, affinché essi abbiano la possibilità di afferrare realmente, nel momento in cui si emancipa, l’elemento musicale che vive nelle loro stesse forme.

 

Tutte queste cose si svolgeranno felicemente se nel maestro vive per esse un modo di pensare giusto. Si deve chiaramente comprendere che, in verità, ogni preparazione di insegnanti dovrebbe svolgersi parallelamente alle facoltà di medicina, che a loro volta dovrebbero condurre in un primo tempo alla comprensione intellettuale risultante dall’esame del cadavere; si dovrebbe in seguito passare alla comprensione plastica delle forme, non però conseguibile se oltre allo studio fisico anatomico non ci si eserciti pure nel modellare; infine tale preparazione dovrebbe portare alla comprensione musicale. Non si consegue infatti una vera conoscenza dell’uomo se, al precedente studio medico, non si aggiunge la comprensione musicale, quale è attiva nel mondo; non solo esteriormente, ma interiormente, bisognerebbe, anche nella preparazione degli insegnanti, giungere alla comprensione della musica ed applicarla per vedere musica ovunque. Essa in realtà è dappertutto nel mondo, se soltanto la si vuol trovare. Se poi desideriamo capire l’organizzazione dell’io bisogna assolutamente portare in sé l’intima struttura di una lingua qualsiasi.

 

Noi afferriamo dunque il corpo fisico con l’intelletto, il corpo eterico mediante la comprensione plastica, il corpo astrale mediante la comprensione musicale; ed infine l’organizzazione dell’io mediante la comprensione approfondita del linguaggio. Per quest’ultima, oggi noi stiamo particolarmente male. Molte cose si ignorano. Si pensi per esempio come viene indicato in una qualsiasi lingua – in tedesco per esempio – quella cosa che è tranquillamente appoggiata al di sopra del nostro corpo, quella cosa rotonda che sul davanti ha occhi e naso. In tedesco la si indica con « Kopf », in italiano con « testa ». Dal vocabolario sappiamo che la traduzione di « Kopf » è appunto « testa ». Ma è soltanto un’esteriorità, una superficialità, poiché in verità così non è. Al riguardo è invece vero che sulla base del sentimento suscitato da vocali e consonanti, io sperimento in un dato modo, quasi disegnato, la « o » nella parola Kopf : come sanno gli euritmisti, si tratta della rotondità che sul davanti si manifesta nel naso e nella bocca. Nel susseguirsi dei suoni è contenuto, quando lo si voglia sperimentare, quanto si trova nella forma del capo. Se dunque si vuol esprimere la forma del capo, si dice su per giù, secondo l’organizzazione della propria laringe e dei polmoni: Kopf. Ma noi possiamo anche dire: Nel capo ha la sua sede quanto mette in rapporto un uomo con un altro, mediante cui un uomo comunica qualcosa ad un altro, trasmette all’altro l’intimo di ima cosa – quello che, per esempio, si trasmette ad altri con un testamento, che si comunica, che si esprime, che si stabilisce. Volendo denominare non quell’oggetto rotondo indicato con la parola Kopf, bensì quanto stabilisce, comunica, quella parte da cui sgorga la favella, allora diremo testa. Dicendo testa indichiamo qualcosa che comunica, dicendo Kopf indichiamo la forma rotonda. Se l’Italiano volesse indicare la rotondità, egli pure direbbe Kopf; e se il Tedesco volesse dire colui che comunica o stabilisce, direbbe egli pure testa. Entrambi si sono abituati ad indicare, nelle rispettive lingue, qualcosa d’altro, poiché non esiste possibilità alcuna di esprimere la stessa cosa in modo diverso. Quindi, dicendo testa o Kopf, si dice cosa differente. Le lingue sono diverse perché, con le loro parole, indicano cose diverse.

 

Ci si immedesimi ora completamente nel modo in cui un uomo, sulla base della sua individualità di popolo, vive nel linguaggio, nel modo in cui per esempio un Tedesco vive interamente nella lingua, mentre egli forma plasticamente la lingua stessa. Il tedesco è senz’altro la lingua adatta per una raffigurazione plastica. Quest’ultima è giunta ad espressione nella lingua tedesca per il fatto che, nello sviluppo degli idiomi, quello tedesco si è venuto sviluppando, attraverso quello greco, verso l’Europa centrale. Considerando l’italiano, si vede che esso tende a svilupparsi dall’anima, dal movimento, come in genere le lingue romanze. Esse non guardano, non contemplano. La lingua tedesca, invece, è formata sulla base di quel che si vede, si osserva; l’italiano si è formato dal danzare interiore, dal cantare interiore, dall’esprimersi nell’organizzazione. Da questo si vede in che modo l’io viva nella sostanza del popolo, e così, dalla conformazione della lingua, si conosce come l’io propriamente agisca.

 

È quindi veramente necessario che l’insegnante acquisti non soltanto il senso musicale, ma anche un intimo senso del linguaggio, partendo però dal fatto che nelle lingue moderne abbiamo esperienze di sentimento e d’anima ancora soltanto nelle interiezioni. Se per esempio in tedesco diciamo « Etsch! » è come se qualcuno scivolasse, cadesse, e noi ce ne facessimo beffe. Nelle interiezioni c’è ancora qualcosa di quanto viene sentito nel linguaggio. Per il rimanente, la lingua è diventata astratta, aleggia vagamente al di sopra delle cose, non vive più in esse. Bisogna invece nuovamente penetrare in esse col linguaggio; bisogna imparare a lottare col linguaggio; bisogna sentire un io permeare i suoni. Allora sentiremo come altro sia dire Kopf – e già sentendo il vocabolo siamo tentati subito di disegnarlo – e altro sia dire testa, con il che, sentendolo, si vorrebbe subito danzare. Questo è appunto quell’immedesimarsi col sentimento nelle attività della vita, quel- l’immedesimarsi che si deve verificare specialmente nell’insegnante.

 

Se dunque il maestro riesce gradatamente sempre più ad acquistare questa veduta unitaria della parte corporea e di quella spirituale animica – le quali, come ho sempre ripetuto, sono una cosa sola – allora, senza esser tentato di passare ad astrazioni ed intellettualismi, egli impartirà ai ragazzi che sono tra la seconda dentizione e la pubertà ima istruzione e un’educazione per immagini. Quando si è abituati a pensare le realtà in immagini, nulla ci urta tanto, infatti, quanto qualcuno che venga a parlare intellettualisticamente. Si sente allora ciò proprio come terribilmente sgradevole. Se per esempio siamo abituati a vedere un fatto della vita come esso si svolge, presi soltanto dall’impulso di metterci a raccontarlo, ben restando in quell’immagine, e viene un tale, col quale se ne vorrebbe parlare; ma egli giudica soltanto col raziocinio e incomincia a dire: « È stato bello », oppure : « È stato brutto », o « grandioso », o « magnifico », o che so io, allora, animicamente, si sente come se ci venissero strappati i capelli. È poi specialmente sgradevole quando si vorrebbe sapere che cosa l’altro ha vissuto, ma egli non ci descrive come l’avvenimento si è svolto – « Ho conosciuto un uomo che quando cammina solleva molto il ginocchio » – ma racconta invece: « Quell’uomo ha un bell’incedere », oppure « cammina bene ».

 

In tal modo egli non ci dice nulla su quell’altro, bensì soltanto qualcosa sul suo proprio io. Ma non si voleva sapere questo, si voleva la descrizione del fatto accaduto. Oggi gli uomini stentano a uscire da loro stessi per arrivare ai fatti. Quindi non espongono le cose, ma quanto essi hanno sentito come bello o brutto. Perfino nel linguaggio si forma via via qualcosa di simile, e le cose si definiscono di conseguenza. In luogo di descrivere la fisionomia di un volto, si dice: « Eh sì, quella donna mi guardò crudelmente », o altre espressioni analoghe.

 

Le cose che dovrebbero entrare nell’intima struttura della preparazione dei maestri sono le seguenti: liberarsi dal proprio sé, e attenersi alle cose. Se ci atteniamo alle cose ci avviciniamo anche al fanciullo. Perché, ripeto, il fanciullo sente come se gli strappassimo i capelli quando non gli parliamo delle cose, ma dei nostri sentimenti personali; mentre invece a tutto acconsente quando gli esponiamo soltanto le cose. Importa perciò moltissimo che il maestro non « pensi » troppo. Io sento sempre come una grande difficoltà quando i maestri della Scuola Waldorf « pensano » troppo, mentre mi dà un senso di benessere quando essi sviluppano la facoltà di osservare, di vedere anche le minime cose, di scoprirne le caratteristiche. Se qualcuno mi dice: « Stamane ho veduto una signora che indossava un abito viola, scollato fino ad un certo punto, e che portava scarpe con tacchi alti », e così via, io lo preferisco al sentirmi dire : « L’uomo consiste di corpo fisico, corpo eterico, corpo astrale e io ». Il primo discorso prova infatti che quel tale è ben impostato nella vita, che egli ha ben conformato in sé il corpo eterico, mentre il secondo prova che l’altro sa, con l’intelletto, dell’esistenza di un corpo eterico. Ma con questo non si è fatto molto.

 

Debbo esprimermi in questo modo drastico, affinché noi impariamo a riconoscere che l’importanza massima nella formazione degli insegnanti non consiste nell’escogitare molte cose, ma nel saper osservare la vita. Viene poi da sé applicare l’osservazione nella vita. Riflettendo sul come si debbano applicare le osservazioni fatte, già le si guastano. Chi vuol descrivere le cose, attingendo alla scienza dello spirito, si guarda quindi specialmente dal valersi di concetti astratti, poiché in tal modo egli devierebbe da quanto propriamente vorrebbe dire. Questo si manifesta specialmente in una singolare tendenza ad arrotondare le cose, a non dirle in modo angoloso. Ne cito un esempio tipico. Per esempio, a me spiace dire, in determinate circostanze: «Là c’è un uomo pallido ». Questo fa male. Si incomincia invece a respirare la realtà se dico: « C’è lì un uomo che è pallido », quando dunque non si caratterizza la cosa in un semplice concetto rigido, ma lo si fa con un concetto che la abbracci. Scopriremo che i fanciulli, intimamente, hanno una comprensione molto maggiore per la frase relativa piuttosto che per relazioni espresse soltanto mediante sostantivi e aggettivi. I fanciulli vogliono afferrare le cose con mitezza. Se dico loro: « Là c’è un uomo pallido » è come se io battessi con un martello; se invece dico: « C’è lì un uomo che è pallido », io accarezzo con la mano. I fanciulli hanno molto maggior possibilità di aderire, di adeguarsi al mondo, se noi presentiamo loro le cose nella seconda maniera; se dunque non marchiamo le cose, ma sviluppiamo la finezza di diventare, con il nostro linguaggio, degli scultori per l’arte dell’educazione. Allo stesso modo, l’arte dell’educazione sta nel dominare il linguaggio in iscuola a un punto tale da saperlo articolare al fine dell’insegnamento, di dar rilievo alle cose importanti e di far cadere quelle trascurabili.

 

Proprio a cose come queste va data molta importanza ed infatti, nelle nostre riunioni degli insegnanti, vengono sempre indicati i valori imponderabili che giocano nell’insegnamento. Poiché se si studia realmente una classe, si notano tante cose diverse che possono essere di valido aiuto nell’insegnamento. Supponiamo per esempio di avere ima classe di 28 alunni, fra maschi e femmine, e di volere che tutti gli alunni imparino qualcosa di spirituale animico, per esempio una poesia breve o anche lunga. Cerchiamo dunque che gli scolari la imparino. Si può osservare che, facendo recitare la poesia in coro da tutto i ventotto allievi, oppure anche da un terzo o dalla metà, ognuno di essi recita e sa la poesia; se poi si sceglie un alunno qualsiasi e gliela si vuol far recitare singolarmente, egli non la sa. Non che sia sfuggito che quell’uno tacesse durante la recitazione corale; in coro egli la sa e la recita bene. Il fatto è che la classe ha un suo spirito di gruppo che opera e del quale possiamo valerci. Se dunque si lavora sul serio con tutta la classe considerandola un coro, avviene anzitutto di riuscire a destare una più rapida capacità di apprendere. Un giorno però io dovetti anche indicare l’aspetto negativo della cosa — voglio infatti confidare il segreto che nella Scuola Waldorf ci sono anche aspetti negativi. Quando man mano si penetra nella cosa, si trova che va bene trattare la classe come un coro, in un’attività collettiva, ma che se ne abusiamo, noi lavoriamo con la classe anziché con il singolo; e allora, alla fine, il singolo non sa più nulla.

 

Tutte queste cose sono invero tali che bisogna tener conto dei loro aspetti negativi ed aver chiaro fin dove si può arrivare, per esempio, nel far lavorare una classe in coro e fino a che punto ci si può dedicare al singolo alunno. Qui i « principii » non servono proprio a nulla. Il dire: « E’ bene lavorare in coro con una classe » o il dare altri simili principii, di fare cioè una cosa in un modo piuttosto che in un altro, non è di alcun aiuto poiché, nella vita complicata, quanto si può fare in un modo, variando le condizioni, potrà esser fatto anche in un altro. Di conseguenza nella pedagogia — che non è affatto scienza, ma arte — le peggiori cose sono appunto le definizioni, le indicazioni di carattere astratto. Le indicazioni pedagogiche dovrebbero consistere soltanto nell’indirizzare il maestro nello sviluppo individuale di questo o di quell’uomo specifico, nel portarlo dunque, mediante esempi della massima evidenza, alla conoscenza dell’uomo.

 

Da questo risulta poi spontaneamente il metodo. Consideriamo per esempio il metodo di insegnamento della storia. È impresa folle voler insegnare la storia ad un fanciullo, prima del suo nono o decimo anno di vita; egli non ha infatti alcuna comprensione per il divenire storico. Lo si osservi pure: soltanto verso i nove o i dieci anni egli incomincia ad interessarsi a singole personalità. Se allora gli presentiamo un Cesare, un Achille, un Ettore, un Agamennone o un Alcibiade, come personalità a sé, lasciando il resto della storia come sfondo, se così gli dipingiamo il tutto, il fanciullo avrà il massimo interesse per quanto gli diciamo. Anzi, si desterà in lui il desiderio di conoscere sempre di più in questo modo. Così esponendo, si sveglierà in lui lo stimolo ad immedesimarsi nella biografia delle personalità storiche. Presentiamo al fanciullo figure in sé concluse di date personalità, quadri di come si svolgeva un banchetto in un dato secolo e come in un altro ; dipingiamo plasticamente come mangiava la gente quando ancora non c’erano forchette, come si mangiava nella Roma antica, come camminava un Greco, consapevole ad ogni passo della forma delle gambe che egli sentiva; descriviamo come camminavano gli uomini dell’Antico Testamento, gli Ebrei antichi, privi di qualsiasi senso per la forma, che quindi facevano ciondolare braccia e gambe; suscitiamo dei sentimenti per quei particolari che possono venir presentati in immagini. Avremo così l’insegnamento della storia adatto ai ragazzi tra i dieci e i dodici anni.

 

Si passa poi alle connessioni storiche, poiché solo ora il fanciullo può afferrare il concetto di causa ed effetto. Ora soltanto gli si può presentare la storia nelle sue connessioni. Ma tutto quanto vive nella storia dobbiamo elaborarlo sulla base del suo divenire. Bisogna arrivare al divenire! Facciamo un esempio: ora noi viviamo nell’anno 1924; Carlo Magno visse dal 760 all’814; se dunque diciamo intorno all’800, egli visse circa 1120 anni prima di noi. Un bambino è inserito nel mondo, in esso si sviluppa e può quindi calcolare che in un secolo si hanno: figlio o figlia, padre o madre, nonni, forse anche bisnonni, cioè tre o quattro generazioni susseguentisi in un secolo. Possiamo ora rappresentarci queste tre o quattro generazioni in una fila: il figlio o la figlia, il padre o la madre che pongono loro le braccia sulle spalle, il nonno a sua volta su quelle del padre, e così il bisnonno sulle spalle del nonno. Così siamo già retrocessi di un secolo. Se poi immaginiamo di mettere in fila figlio, padre e nonno, cioè gli uomini del presente, e dietro a questi, nella sequela delle loro generazioni, gli uomini di altri dieci secoli, risulteranno in complesso undici volte tre o quattro generazioni, diciamo dunque 44 generazioni. Schierando ima dopo l’altra 44 persone, ognuna delle quali ponga le mani sulle spalle di chi la precede, il primo può essere un uomo del presente, e l’ultimo Carlo Magno. In tal modo, mediante tale schieramento di persone, si ha una immagine del tempo trascorso e si potrà dire che tale immagine raffigura undici secoli. Volendo risalire di soli tre secoli, basterà schierare non già quarantaquattro, ma soltanto dieci o undici persone. Si possono così trasformare le relazioni di tempo, tanto difficili da afferrare nella storia, in relazioni di spazio. Allo stesso modo ci si può figurare un uomo che parla con un altro; questo si volta per parlare con chi lo segue, quest’ultimo altrettanto col seguente, finché si giunge al punto in cui Pietro parla col Cristo; risulta cioè l’intero sviluppo della Chiesa cristiana dalla conversazione tra le persone immaginate in fila; risulta tutta la successione apostolica, resa visibile.

 

Importa dunque di avvalersi di ogni mezzo per arrivare ad un’immagine, ad una visione. Questo è necessario perché con questo mezzo si impara a penetrare nella realtà ed anche a conformare tutto secondo realtà. Poiché in fondo è abbastanza arbitrario porre tre fagioli sotto gli occhi del bambino, poi altri tre, poi altri tre o magari quattro, e insegnargli l’addizione: 3 + 3 + 4 = 10. È abbastanza arbitrario. È invece tutt’altra cosa se io ho davanti un mucchietto di fagioli, senza sapere quanti essi siano (e nel mondo, le cose si presentano appunto in questo modo). Ora divido il mucchietto: e questo il bambino lo capisce subito. Do ima parte ad un bambino, un’altra ad un altro, e la terza parte ad un terzo. Divido dunque il mucchietto, ma faccio capire al bambino quanti fagioli conta il mucchio come tale: prima il tutto e poi le parti. Posso poi far contare al bambino, perché questo avviene in una successione: uno, due, tre, eccetera, fino a dodici. I fagioli mi risultano dunque divisi in quattro, quattro e ancora quattro; il bambino afferra facilmente se prima ha la somma e poi gli addendi. Così si è aderenti alla realtà. L’altra maniera è astratta, riassuntiva, intellettualistica. Allo stesso modo ci atteniamo di più alla realtà se portiamo il bambino a rispondere alla domanda: Se ho dodici mele e un tale le prende, ma ne perde qualcuna lungo la via e ne riporta a casa soltanto sette; quante ne avrà perdute? Cinque. Così dal minuendo, attraverso il resto, si arriva al sottraendo; non si sottrae, ma si parte dal resto, cioè da quanto in realtà è rimasto, per arrivare a quanto fu sottratto.

 

In questa guisa, in ogni cosa, tendiamo non già all’astrazione, bensì a penetrare nella realtà, ci riallacciamo alla vita, cerchiamo di accostarci alla vita. Questo rende pure vivo e vivace il fanciullo, mentre di solito, specie nella lezione di aritmetica, egli rimane inattivo. I fanciulli restano passivi, e questo ha portato la necessità del pallottoliere. Che il pallottoliere esista, già dimostra come sia arduo rendere evidente l’insegnamento dell’aritmetica. Né basta renderlo soltanto in immagini, bisogna trarlo dalla vita stessa.