Un nuovo, diverso rapporto del mondo spirituale col mondo fisico schiude la via a una conoscenza cosciente dello spirito

O.O. 326 – Nascita e sviluppo storico della scienza – 03.01.1923


 

Sommario: Un nuovo, diverso rapporto del mondo spirituale col mondo fisico schiude la via a una conoscenza cosciente dello spirito. Scoto Eriugena. Aristotele. Dottrina umorale di Galeno; concezioni dei filosofi presocratici: Talete; Eraclito. La fisica e la chimica eliminano l’uomo; la psicologia e la pneumatologia il mondo. Bacone; Locke. Esperienza animica del respiro nello yoga; esperienza del calore e dell’io nell’antica pneumatologia. Trasformazione del rapporto dell’uomo con se stesso legata allo sviluppo della scienza moderna. Paracelso, van Helmont, Jakob Böhme. Nascita della chimica: dottrina della fermentazione; jatrochimica; jatromeccanica. La forza vitale secondo Stahl. De La Mettrie: l’uomo macchina. Hobbes.

 

Ho cercato di mostrare in qual modo si siano venuti sviluppando nell’epoca moderna alcuni campi del pensiero scientifico. Vorrei ora inserire una considerazione destinata a chiarire che cosa sia realmente avvenuto con la formazione delle principali concezioni scientifiche; si può infatti comprenderne meglio il significato, nel quadro della evoluzione complessiva dell’umanità, se questi problemi vengono lumeggiati da un certo punto di vista. Occorre rendersi ben conto che a fondamento di ciò che si manifesta esteriormente nella civiltà sta qualcosa che proviene da conoscenze più profonde, qualcosa che pulsa nel profondo; si tratta di conoscenze che non vengono di necessità insegnate come tali, pur trovandosi esse effettivamente alla base dell’evoluzione, in un modo sul quale tornerò a parlare più avanti. Per il momento mi limito a dire che si possono comprendere meglio i problemi in questione, ricorrendo a quella che in certe epoche passate era chiamata scienza iniziatica, cioè alla conoscenza dei fondamenti profondi della vita e del divenire universale.

 

È noto che quanto più indietro si risale nell’evoluzione dell’umanità, tanto più diffusa si ritrova una conoscenza scientifico-spirituale istintiva, una percezione chiaroveggente istintiva di quanto accade dietro le quinte dell’esistenza. Sappiamo anche che al presente è possibile pervenire a una conoscenza più approfondita, in quanto negli ultimi decenni del secolo scorso, dopo che l’ondata di concezioni e di sentimenti materialistici aveva raggiunto il suo apice, il rapporto fra il mondo spirituale e il mondo fisico era cambiato in modo che si poterono di nuovo ricavare certe conoscenze spirituali direttamente dal mondo soprasensibile. A partire dall’ultimo terzo del diciannovesimo secolo è divenuto possibile approfondire la conoscenza umana in modo da poter osservare spiritualmente i fondamenti di tutto quanto si svolge negli eventi naturali esteriori.

 

Si potrebbe formulare così l’andamento storico: dapprima una scienza iniziatica antica istintiva cede il passo a un tipo di civiltà exoterica nella quale non c’è quasi traccia di un sapere spirituale diretto. In seguito, albeggia un nuovo sapere spirituale, ora però pienamente cosciente, non più istintivo.

 

Oggi ci troviamo all’inizio di questo sviluppo di un nuovo sapere spirituale: in futuro esso dovrà svilupparsi assai più. A chi sia informato di ciò che veniva considerato conoscenza, al tempo dell’antica scienza iniziatica istintiva, risulta che fino all’inizio del quattordicesimo secolo dominavano nel mondo civile certe concezioni che non si possono in alcun modo paragonare con le nostre attuali nozioni scientifiche, in quanto erano di natura del tutto diversa; meno ancora si potrebbero paragonare con la psicologia scientifica moderna. Anche in questo campo quel tipo di conoscenza era di natura diversa. A quei tempi si concepiva tanto la parte animica e spirituale, quanto quella fisica e naturale dell’uomo mediante idee che oggi risultano addirittura incomprensibili a chi non sia specificamente competente nella scienza della iniziazione. Era un modo del tutto diverso di pensare e di sentire.

 

Se ora si confrontano, con i mezzi della scienza iniziatica, quelle opinioni di un tempo passato (che almeno ih parte sono note anche storicamente), si scopre, malgrado le lacune della tradizione, l’esistenza di profonde conoscenze e concezioni intorno all’uomo e al suo rapporto col mondo. Oggi non è facile che gli eruditi si decidano a riconoscere l’importanza di un’opera come quella composta nel nono secolo da Giovanni Scoto Eriugena, sulla suddivisione della natura. È difficile che ci si occupi a fondo di un’opera come quella, perché non la si riconosce come un vero monumento storico di un’epoca nella quale si pensava appunto in modo del tutto diverso da oggi, tanto diverso da riuscire incomprensibile al lettore moderno. Non esiste più uno studio che veramente penetri nello spirito di un’opera come quella di Scoto Eriugena sulla suddivisione della natura, opera nella quale il significato stesso del nome natura è inteso in modo del tutto diverso da come lo intese più tardi la scienza. Lo spirito di quell’opera è divenuto inaccessibile. Se grazie a un approfondimento scientifico-spirituale si riesce ad accedervi ancora, con stupore si deve poi riconoscere che Scoto Eriugena sviluppò certe idee che danno l’impressione di penetrare profondamente nell’essenza del mondo, però quelle idee sono esposte nella sua opera in modo certamente non adeguato, né preciso. Se non si temesse di mancar di rispetto a un’opera che è pur sempre fra le più eccellenti nella storia, verrebbe fatto di dire che lo stesso Scoto Eriugena non sapeva più perfettamente che cosa scrivesse! Ciò risulta dal suo modo di esporre: anche se non nella misura in cui questo vale per gli odierni storici della filosofia, le parole stesse che egli ricavava dalla tradizione erano divenute per lo Scoto quasi solo dei nomi il cui significato

 

profondo gli era incomprensibile. Leggendo un’opera come quella, si è costretti poi a risalire sempre più indietro nella storia. Come risulta facilmente dalle opere di Giovanni Scoto Eriugena, da lui si deve risalire agli scritti del cosiddetto Pseudo-Diónisio l’Areopagita* (ma non posso in questo momento parlare diffusamente di costui, di quando visse, ecc.); e dall’Areopagita si è portati a risalire ancora più indietro. A questo punto però occorre valersi decisamente degli strumenti di conoscenza offerti dalla scienza dello spirito. Si perviene allora finalmente (risalendo però fino al secondo, al terzo millennio precristiano) a certe profonde conoscenze che sono andate perdute per l’umanità: ne sono rimasti solo deboli echi che si possono ritrovare per esempio in certi scritti come quelli appunto di Giovanni Scoto Eriugena.

 

Del resto, anche approfondendo adeguatamente le opere degli Scolastici stessi è possibile trovare, dietro all’esposizione incredibilmente pedantesca, idee profonde sul modo come l’uomo possa afferrare il mondo esterno: da un lato si riconosceva l’esistenza del soprasensibile, dall’altro la sfera del mondo sensibile, e cosi via. Conoscenze profonde ben comprese nell’antichità e che si estendono fino al medioevo ripetute di epoca in epoca, ma sempre meno comprese, s’incontrano anche nella ininterrotta tradizione che si fondava su Aristotele: egli aveva a sua volta riassunto, sia pure in modo pedantemente logico, un sapere antico, appreso per tradizione da lui stesso. Questa era stata la caratteristica, fino a un certo momento. Poi, nel tredicesimo, quattordicesimo secolo, la comprensione per i resti di quel sapere scomparve quasi del tutto e poco più tardi si affermò uno spirito completamente nuovo, appunto quello di Copernico e di Galileo, che ho cercato di caratterizzare nelle conferenze precedenti.

 

Procedendo in qualunque campo a indagare nel modo al quale ho accennato, sempre si trova che quell’antico sapere (trasmesso di epoca in epoca fino al Trecento, e sempre meno compreso) consisteva essenzialmente nell’esperienza interiore di quello che avviene nell’uomo stesso: così ad esempio si sperimentava l’elemento meccanico-matematico nei movimenti del corpo fisico, si sperimentava qualcosa di chimico nella circolazione dei succhi organici dell’uomo, compenetrata dal corpo eterico. Ritengo che tutto ciò debba risultare facilmente comprensibile, dopo le considerazioni da me svolte nei giorni scorsi. Potremmo dunque osservare anche con un criterio per così dire storico lo schema che ho disegnato sulla lavagna (a pag. 107). Oggi infatti noi possiamo osservare la natura dell’uomo secondo il metodo della nostra scienza dello spirito, riscontrando l’esistenza del corpo fisico, del corpo eterico (o corpo delle forze formatrici), del corpo astrale (che è poi l’interiorità animica) e della organizzazione dell’io. Ho già detto ieri che, proveniente dall’antica scienza iniziatica, c’era un’esperienza interiore del corpo fisico (cioè del movimento, delle dimensioni spaziali, e anche di altri processi fisici meccanici) e possiamo denominarne l’insieme come esperienza di ciò che è fisico nell’uomo. Al tempo stesso questa esperienza di ciò che è fisico nell’uomo è conoscenza di leggi fisico-meccaniche: esisteva dunque una fisica della entità umana secondo il corpo fisico. Nell’antichità non sarebbe venuto in mente a nessuno di andare alla ricerca della fisica per vie diverse dall’esperienza fatta entro l’uomo stesso. Nell’epoca di Copernico e di Galileo ciò che prima si sperimentava entro l’uomo viene per così dire espulso insieme con la matematica (che poi si applicherà alla fisica) e da allora viene afferrato solo in modo astratto. Si potrebbe dunque affermare che la fisica esce dall’uomo, mentre prima era racchiusa in lui.

 

Un processo del tutto simile si sperimentava interiormente, nei riguardi delle sostanze liquide, dei diversi succhi componenti l’organismo umano. Ho menzionato ieri il medico Galeno, dei primi secoli d.C. il quale distingueva nell’uomo quattro succhi [o umori] principali: la cosiddetta bile nera, il sangue, il flegma [o muco] e la cosiddetta bile bianca [o gialla]. L’essere umano vive nel mondo fisico grazie alla reciproca influenza di quelle quattro correnti umorali. Le affermazioni di Galeno non erano però fondate su metodi simili a quelli della fisiologia moderna, ma sostanzialmente ancora sopra una esperienza interiore. A dire il vero, Galeno trovò quei concetti già in parte nella tradizione del suo tempo; comunque quelle nozioni ricavate dalla tradizione erano state un tempo esperienze dirette, fatte nella parte liquida dell’organismo compenetrato dal corpo eterico (o corpo delle forze formatrici).

 

Partendo da questi dati di fatto, nel mio libro Gli enigmi della filosofia descrissi a suo tempo gli inizi della filosofia greca in un modo diverso da come si procede di solito. Nelle usuali trattazioni di storia della filosofia si trova sempre menzionato che Talete attribuì le origini del mondo sensibile all’acqua, Eraclito al fuoco, altri pensatori le attribuirono all’aria, altri ancora alla materia solida (a una specie di atomi). I nostri contemporanei non sembrano rendersi conto che in fondo è inspiegabile per quali ragioni Talete abbia considerato proprio l’acqua come origine delle cose, o Eraclito abbia parlato invece del fuoco. Oggi ciò non fa impressione a nessuno. A chi legga quel mio libro dovrebbe riuscire facilmente comprensibile che l’opinione di Talete (che tutto sia nato dall’acqua) si fondava sopra un’esperienza interiore. Egli sentiva l’attività di quello che al suo tempo veniva chiamato appunto «acqua», e sperimentava anche una certa affinità fra la sua esperienza interiore e i processi naturali esterni: perciò descriveva l’esterno partendo da esperienze interiori. Allo stesso modo procedette Eraclito, che aveva però un temperamento diverso. Si potrebbe definire Talete di temperamento «flemmatico», vivente interiormente di prevalenza nell’umore chiamato «acqua» o «muco», o anche «flegma». Egli perciò descriveva il mondo da questo suo punto di vista temperamentale di «flemmatico», dicendo che ogni cosa è nata dall’acqua. Eraclito era di temperamento collerico; sperimentava quindi il «fuoco» interiore e descriveva il mondo nel modo in cui egli lo sperimentava. Oltre a questi due, vissero altri spiriti ancora più profondi, dei quali il nome è sconosciuto alla tradizione storica. Essi possedevano un sapere più vasto e parte di questo si trasmise durante i primi secoli cristiani. Fu grazie a questa tradizione che Galeno potè poi distinguere i quattro «umori», o succhi organici dell’uomo.

 

L’insieme della miscela dei quattro «umori» (la bile gialla, la bile nera, il sangue e il muco o flegma) costituisce in fondo una chimica interiore dell’organismo umano. Tutto ciò naturalmente viene oggi considerato qualcosa di puerile. A quei tempi non esisteva altra forma di chimica. Infatti i fenomeni esterni che oggi sono oggetto della chimica, venivano valutati secondo quelle esperienze interiori: si può realmente parlare di una chimica interna, fondata su esperienza dell’uomo umorale (se mi è concesso di usare questo termine), compenetrato dal corpo eterico. In quei tempi antichi esisteva dunque questa chimica legata all’uomo; più tardi essa pure, come la matematica e la fisica si separò dall’uomo, diventando la chimica esteriore (vedi lo schema seguente). Bisogna rendersi conto di quanto profondamente venisse un tempo sentito dagli uomini quel tipo di fisica e di chimica: queste venivano sperimentate come una parte dell’uomo stesso, non come descrizione di processi naturali esterni. Il loro carattere essenziale era quello di essere una fisica e una chimica realmente vissute.

 

Nel tempo in cui si sentiva la natura esterna nel proprio corpo fisico, nel proprio corpo eterico, anche l’esperienza di ciò che si svolge nel corpo astrale e nell’organizzazione dell’io era diversa da come divenne più tardi. Oggi abbiamo una certa forma di psicologia; bisognerebbe però riconoscere (ma non lo si riconosce) che la psicologia odierna è solo un inventario di astrazioni. I suoi concetti del pensare, del sentire, del volere, come pure quelli di memoria, di fantasia e di altri ancora, vengono in fondo menzionati solo come astrazioni. Questo elenco di concetti è venuto formandosi a poco a poco da ciò che si era ancora disposti ad ammettere come contenuto dell’anima. La chimica e la fisica erano state avulse dall’essere umano; si conservarono invece ancora il pensare, il sentire, il volere, ma tali concetti andarono diluendosi al punto da diventare solo un inventario di vuote astrazioni. Che sia così è facilmente dimostrabile: basta osservare come si parlava del pensare o del volere ancora nel quindicesimo o sedicesimo secolo. Leggendo scritti antichi su tali soggetti, si constata che ogni affermazione in proposito ha ancora un carattere di concretezza; si sente che, parlando del pensare, se ne tratta veramente come di una somma di processi interiori dell’autore: sembra che i pensieri si urtino, si sostengano vicendevolmente. C’è ancora l’esperienza dei pensieri, non esiste l’astrattezza sopravvenuta più tardi. In seguito le cose andarono in modo che, giunti alla fine del secolo diciannovesimo, ai filosofi riuscì facile il negare qualsiasi realtà a quelle astrazioni e l’affermare che esse non sono che immagini interiori riflesse e così via. Questa posizione fu sostenuta in modo particolarmente brillante dal già citato Richard Wahle, che definisce esplicitamente come illusioni l’io, il pensare, il sentire, il volere. I contenuti interiori dell’anima vengono considerati prima come astrazioni e poi come illusioni.

 

 

Abbiamo veduto che in passato l’uomo sentiva il proprio camminare come un fatto che coinvolgeva al tempo stesso lui e il mondo esterno; analogamente si rendeva conto che il movimento interno dei liquidi, degli «umori» del suo organismo avveniva in modo diverso in piena estate e nel freddo inverno. L’uomo sperimentava i moti del proprio sangue o degli altri liquidi, ma li sperimentava in connessione con la luce del Sole o con la sua mancanza. E come era connessa col mondo esterno l’esperienza di ciò che in lui era fisico o chimico, così sperimentava connessi col mondo anche il proprio pensare, il sentire e il volere. Non li confinava nella propria interiorità, come avvenne in tempi più recenti, quando quelle attività dell’anima evaporarono per così dire in mere astrazioni; al contrario, il contenuto della psicologia propria di quei tempi stava nell’esperienza fatta nell’intimo dell’uomo, e in questo caso non già nell’esperienza del movimentò dei liquidi dell’organismo o dei movimenti fisici, bensì di quanto appartiene all’entità astrale dell’uomo, cioè alla sfera dell’anima (v. lo schema precedente).

 

In tempi più recenti la psicologia fu interamente legata all’uomo. Con l’avvento dell’epoca scientifica la fisica e la chimica vennero dunque per così dire espulse dall’uomo, proiettate nel mondo esterno, mentre la psicologia fu ricacciata completamente all’interno dell’uomo. Questo indirizzo risulta evidente soprattutto in Bacone e in John Locke. Il suono, il colore, le qualità del calore, tutte le esperienze che l’anima fa a contatto del mondo esterno, vengono ricacciate entro l’uomo.

 

Tale processo avvenne in modo ancora più radicale per quanto concerne l’organizzazione dell’io: questa venne sperimentata in modo via via sempre più debole. Nel modo in cui si guarda alla propria interiorità ai giorni nostri, l’io ha assunto quasi un carattere puntiforme, per cui è diventato facilissimo per i filosofi negarne addirittura l’esistenza. Non la coscienza dell’io, ma l’esperienza di esso era in tempi più antichi qualcosa di pienamente reale e denso di contenuto. L’esperienza dell’io si esprimeva allora in una scienza più alta della psicologia, in una scienza che potremmo chiamare pneumatologia. In tempi più recenti anche quest’ultima fu per così dire rinchiusa nell’interiorità umana e diluita fino a diventare una ben tenue sensazione del proprio io (v. lo schema precedente).

 

Con l’esperienza interiore del suo corpo fisico l’uomo afferrava in passato anche l’esperienza della fisica, cioè dei processi naturali esterni affini a quanto avviene nel corpo fisico. Così pure, nel caso del corpo eterico, si sperimentava interiormente anche il mondo fisico dei liquidi dell’organismo, dominati però dall’eterico. Che cosa avviene quando l’uomo percepisce la sfera psicologica, in quanto sperimenta i processi del suo corpo astrale? In questo caso si fa l’esperienza dell’uomo aeriforme, se mi si concede questa espressione. Infatti noi uomini non siamo formazioni organiche esclusivamente solide, e neppure solo compenetrate da diversi liquidi: al nostro interno siamo infatti di continuo anche di consistenza gassosa, aeriforme, poiché inspiriamo ed espiriamo aria. Strettamente connessa con l’elaborazione interna dell’aria era per l’uomo antico l’esperienza del contenuto della psicologia: perciò era un’esperienza assai più concreta. Quando l’esperienza della respirazione dell’aria (percepibile anche esteriormente) fu avulsa dal contenuto del pensiero, quest’ultimo divenne sempre più astratto, divenne appunto solo pensiero. Ricordiamo come il filosofo indiano tendesse coi suoi esercizi ad acquistare piena coscienza dell’affinità fra il processo della respirazione e il processo del pensare: per progredire nei suoi pensieri, egli regolava la sua respirazione. Egli sapeva che il pensare, il sentire, il volere non sono vuote astrazioni, quali vengono considerate oggi, ma al contrario sono realtà connesse con la natura, sia esterna, sia soprattutto interna, per quanto concerne la respirazione: sono quindi connesse con l’aria. Se quindi possiamo dire che la sfera fisica e quella chimica vennero avulse dall’organizzazione umana, proiettate, per quanto riguarda la conoscenza, nel mondo esterno, così possiamo anche affermare che la sfera psicologica fu per così dire risucchiata all’interno dell’uomo, mentre il corrispondente processo esteriore, cioè l’esperienza dell’aria implicata nella respirazione, fu espulso dall’esperienza interiore. Dalla sfera di ciò che è fisico o chimico l’uomo espulse se stesso, e da quel tempo in poi osservò solo il mondo esterno come fisica e come chimica; similmente espulse dalla sfera psicologica il mondo esterno, cioè l’aria, e dalla sfera pneumatologica il calore. Perciò quest’ultima sfera si ridusse alla esiguità dell’io considerato in astratto.

 

Se quindi chiamiamo «uomo inferiore» il corpo fisico e l’eterico (v. lo schema precedente), e «uomo superiore» il corpo astrale e l’organizzazione dell’io, possiamo dire: nel passaggio da un’epoca più antica a quella della scienza moderna, l’evoluzione mostra che l’uomo espulse da sé ciò che è fisico e chimico, ed accolse solo la natura esterna nei suoi concetti fisici e chimici. Invece nell’ambito della psicologia e della pneumatologia l’uomo sviluppò idee dalle quali espulse la natura esterna e nelle quali sperimentò ormai solo quanto ne era rimasto come residuo nella sua interiorità. Nella sfera della psicologia gli era residuato quanto bastava almeno per usare parole per i contenuti dell’anima. Per l’io invece gli rimase tanto poco che la pneumatologia scomparve del tutto in ogni campo, sia pure, in parte, come effetto di una preparazione dogmatica. Tutto Si ridusse all’astratto punto dell’io.

 

Questa condizione sostituì l’esperienza unitaria del passato. Nel passato si distinguevano i quattro elementi: terra, acqua, aria, fuoco. Si sperimentava in sé la terra nell’esperienza del corpo fisico; l’acqua nell’esperienza del corpo eterico che mette in moto i liquidi dell’organismo, li mescola e li separa; l’aria si sperimentava nell’esperienza del corpo astrale, in quanto il pensare, il sentire e il volere erano vissuti nel processo della respirazione. Quanto al calore (o fuoco, come lo si chiamava allora) veniva sperimentato nella sensazione dell’io.

Possiamo perciò affermare che la concezione scientifica dei tempi recenti si sviluppò grazie a una trasformazione completa del rapporto dell’uomo con se stesso. Seguendo appunto lo sviluppo storico fondato su queste conoscenze, si scopre anzitutto quello che ho detto nelle conferenze precedenti, e in ogni nuova epoca si trovano menzioni diverse delle antiche tradizioni: diverse e sempre meno comprese. Per esempio le concezioni di un Paracelso, di un van Helmont, di un Jakob Böhme sono singolari testimonianze di tali tradizioni antiche.

 

Nel caso di Jakob Böhme, chi è in grado di vedere chiaro in tali cose fa l’esperienza diretta che si trattava di un uomo straordinariamente semplice. Egli trasse la sua conoscenza da fonti di cui oggi qui non mi è possibile parlare, perché ci porterebbe troppo lontano: le ricavò da una tradizione popolare e le espose in modo quasi incomprensibile, veramente goffo; eppure si tratta di profonde tradizioni antiche. In quali condizioni si trovava una personalità come il Böhme? Mentre Giordano Bruno, nella stessa epoca, si era inserito negli sviluppi del pensiero più recente, al modo che ho già descritto in questo corso di conferenze, è evidente che Jakob Böhme disponeva di una miscellanea di scritti oggi irreperibili. Da quelle opere che esteriormente trattavano degli argomenti più diversi gli si rivelò, per la sua intima disposizione, la derivazione da un sapere antichissimo. Egli riuscì poi a ricostruire quella sapienza primordiale, vincendo formidabili difficoltà interiori, per effetto delle quali la sua esposizione divenne così poco felice: del resto, la sapienza antica gli era pervenuta per tramite di tradizioni ancora più goffe e insufficienti. Tuttavia la sua illuminazione interiore gli consentì di risalire a uno stadio più antico della conoscenza.

 

Prescindiamo ora da singole eccezioni, quali Paracelso o il Böhme che appaiono quasi come monumenti di un tempo antico, e passiamo a considerare quello che si presenta nell’evoluzione durante i secoli dal quindicesimo al diciottesimo. Se si applica il criterio della scienza iniziatica, e si illuminano i fatti con la sua luce, se ne ricava l’impressione che in quei secoli ormai nessuno sapeva più nulla dei fondamenti profondi dell’esistenza. Si era ormai compiuta quella separazione della fisica e della chimica dall’esperienza umana di cui abbiamo parlato; ormai l’alchimia era già divenuta oggetto di scherno. Naturalmente lo scherno era giustificato, perché ne erano senz’altro degni i residui ancora conservati dalle tradizioni medievali. La psicologia era già stata avulsa dal cosmo e circoscritta all’interiorità dell’uomo, e la pneumatologia era divenuta qualcosa di evanescente. Era dunque avvenuta una frattura con le antiche cognizioni sull’essere umano, e si sperimentava da un lato quello che era stato avulso dall’uomo e dall’altro quello che caoticamente era stato proiettato all’interno dell’uomo. Questa condizione si può riscontrare in tutti i rami della conoscenza umana di quel tempo.

 

Per esempio nel secolo diciassettesimo emerse una concezione che rimane piuttosto incomprensibile, se la si considera isolatamente, ma che diventa invece perfettamente comprensibile considerandola nel contesto storico. Alludo alla dottrina secondo la quale l’intera somma dei processi interni connessi con la nutrizione dell’uomo si fonda sopra una specie di fermentazione. Gli alimenti introdotti vengono prima commisti alla saliva, poi ad altri succhi digestivi (per esempio quelli del pancreas), per cui si compiono processi fermentativi di grado diverso. Così si chiamavano allora i relativi processi. Dal punto di vista delle concezioni odierne (che però sono esse pure transitorie), si può naturalmente prendersi beffa di quelle idee antiquate, ma con questo atteggiamento non si mostrerebbe una vera aspirazione alla conoscenza. Se si esamina più da vicino quella concezione del Seicento, si scopre da che parte provengano quelle singolari opinioni sull’uomo. A quel tempo stavano estinguendosi del tutto le antiche tradizioni che in Galeno (e ancora prima di lui) si fondavano sensatamente sopra esperienze interiori. D’altra parte la chimica nuova, avulsa dall’uomo, era allora solo ai suoi primi passi. Non si avevano dunque più le esperienze interiori, ma non si era ancora gran che progrediti nella scienza esteriore. Perciò si poteva parlare dei processi della nutrizione solo in debolissimi concetti della nuova chimica, come per esempio quello di una non meglio determinata fermentazione. Erano infatti tardivi seguaci di Galeno gli studiosi che da un lato sentivano ancora che per comprendere l’uomo occorreva prendere le mosse dal moto dei suoi liquidi, mentre d’altra parte essi cominciavano già a osservare i fatti chimici solo nei processi esterni: quindi non facevano che applicare all’uomo i processi fermentativi osservati nel mondo esterno. L’uomo era diventato per così dire un sacco vuoto, perché non sperimentava più nulla nella sua interiorità, e questo sacco vuoto veniva ora riempito di una scienza divenuta esteriore. Certo, nel diciassettesimo secolo questa scienza era ancora poca cosa; tutt’al più si avevano vaghe idee sulle fermentazioni, o altri processi simili, e questi venivano attribuiti anche all’uomo. Si tratta della cosiddetta scuola jatrochimica.

 

Quando si studia la posizione degli jatrochimici del Seicento, si riconosce nelle loro concezioni una traccia delle antiche dottrine umorali, fondate ancora sopra un’esperienza interiore. Altri studiosi invece, più o meno contemporanei degli jatrochimici, non possedevano più nemmeno quelle tracce delle concezioni antiche: essi cominciarono ad osservare l’uomo press’a poco come si presenta a noi oggi in un trattato di anatomia. Qui noi troviamo descritti uno dopo l’altro i diversi organi ed apparati: lo scheletro, lo stomaco, il cuore, il fegato e così via. Chi segue una tale descrizione ne riceve involontariamente l’impressione che quello sia l’uomo tutto intero e che esso consista di organi più o meno solidi, a contorni netti. Certo, organi come questi esistono di fatto. Tuttavia non va dimenticato che la parte solida del corpo umano (la «terra», secondo l’antica nomenclatura) rappresenta al massimo il dieci per cento del suo peso; per il rimanente l’uomo è come una colonna di liquido. Naturalmente questo dato di fatto è ben noto e non viene taciuto, ma è trascurato dal metodo dell’osservazione morfologica; si è dimenticato a poco a poco che l’uomo è una colonna liquida entro la quale si formano e nuotano gli organi dai contorni netti, quegli organi che vengono disegnati e descritti, risvegliando così soprattutto fra i profani l’idea che in tal modo si sia compreso l’uomo. Le illustrazioni che oggi troviamo negli atlanti d’anatomia sviluppano questa visione, ma l’immagine dell’uomo da esse suscitata è un’immagine falsa. Solo un decimo del corpo umano è di natura solida; per raffigurare il rimanente, bisognerebbe tracciare entro le forme che rappresentano i diversi organi un continuo e mutevole flusso di liquidi, un interpenetrarsi di succhi che agiscono l’uno sull’altro (v. il disegno seguente). Ci si è fatti delle idee del tutto errate sui modi in cui avviene questo flusso e questa reciproca azione, perché ci si è fissati sugli organi rigidamente delimitati. Accadde così che nel secolo scorso qualcuno rimase assai sorpreso da un’osservazione molto semplice. Se si inghiotte un bicchiere d’acqua si riceve l’impressione che l’acqua attraversi tutto l’organismo e venga accolta ed elaborata dagli organi. Se poi si ingerisce un secondo e un terzo bicchiere d’acqua, non se né riceve l’impressione che essa venga accolta allo stesso modo. Cose come questa sono state certo osservate, ma non si è più capaci di spiegarle, perché si ha un’idea del tutto errata di quello che potremmo chiamare l’uomo liquido. In questo agisce essenzialmente il corpo eterico che mescola e torna a separare i diversi liquidi: esso produce nell’uomo i processi della chimica organica.

 

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Nel secolo diciassettesimo si cominciò ad ignorare l’uomo composto da liquidi e a prendere in considerazione solo le parti solidamente delimitate. Di conseguenza si finì per considerare l’uomo come un insieme di parti solide; in questo mondo di parti solidamente delimitate ogni cosa avviene secondo un ordine meccanico. Una parte spinge l’altra, quest’ultima si mette in movimento; avvengono processi di pompaggio, certe parti si comportano come pompe aspiranti o come pompe prementi. Si osserva cioè il corpo umano con criteri meccanici, come se fosse un corpo esistente solo grazie alla connessione di parti solide. Così dalla concezione jatrochimica (anzi in realtà già contemporaneamente ad essa) sorse la concezione jatromeccanica o addirittura jatromatematica. Salì in auge soprattutto l’idea che il cuore sia in realtà una pompa che fa circolare il sangue per tutto il corpo, proprio in modo meccanico: e ciò è dovuto al fatto che non si sapeva più che i liquidi dell’organismo umano sono dotati di una vita interna e che si muovono per forza propria; non si sapeva più che il cuore è solo un organo di senso che a suo modo percepisce il moto dei succhi, del sangue. L’impostazione del problema fu completamente rovesciata: non si percepì più il movimento dei liquidi dell’organismo e la sua vita interiore, né il corpo eterico che in esso opera; il cuore divenne un apparato meccanico e così è in fondo considerato ancora oggi dalla maggior parte dei cosiddetti fisiologi e dai medici.

 

Scuola jatrochimica

Scuola jatromeccanica

Forza vitale (Stahl)

Scuola dinamica.

 

Gli jatrochimici avevano dunque ancora un’ombra della conoscenza del corpo eterico. Nella dottrina di Galeno era senz’altro presente una piena consapevolezza del corpo eterico. Nelle dottrine di van Helmont o di Paracelso è presente solo una coscienza debolissima del corpo eterico, e ancora più attenuata essa si trova presso gli jatrochimici ufficiali che rappresentavano questa scuola. Invece non ne avevano più nessuna coscienza gli jatromeccanici nei quali l’idea di un corpo eterico era del tutto svanita. Ormai ci si rappresentava l’uomo solo come corpo fisico, anzi solo nei suoi componenti solidi: questi poi vennero trattati come oggetto della fisica, di quella fisica che (come abbiamo veduto) era già stata avulsa dall’uomo e che quindi venne applicata in modo esteriore all’uomo non più compreso. Vorrei usare un’altra volta il paragone: prima si era fatto dell’uomo una specie di sacco vuoto e si era fondata in modo astratto una fisica esterna; poi si proiettò entro l’uomo questo tipo di fisica. In tal modo non ci si trovò più di fronte alla vivente entità dell’uomo, ma a un sacco vuoto riempito di teorie.

 

Così le cose stanno ancora oggi: infatti quello che oggi ci descrivono l’anatomia o la fisiologia non è l’uomo, ma è la fisica, prima espulsa dall’uomo, poi trasformata e ricacciata entro l’uomo! Se si segue lo sviluppo delle diverse concezioni con profonda partecipazione interiore, si scopre come ha operato il destino. Gli jatrochimici avevano ancora un vago sentore del corpo eterico; gli jatromeccahici non ne avevano più nessuno. Ed ecco apparire una figura notevole: lo Stahl, un uomo molto intelligente, tenendo conto del suo tempo. Evidentemente aveva studiato le dottrine degli jatrochimici e ne aveva tratto la conclusione che la tesi dei processi di fermentazione era insufficiente, in quanto ricacciava entro l’uomo la chimica che già ne era stata avulsa. A maggior ragione questo vale per gli jatromeccanici che avevano lo stesso atteggiamento per quanto riguardava la fisica meccanica esteriore. Del corpo eterico come forza propulsiva del movimento dei liquidi nell’organismo non c’era più alcuna traccia e neppure più la tradizione. Non c’era alcuna possibilità di acquistarne informazioni. Che cosa fece allora lo Stahl, fra il diciassettesimo e il diciottesimo secolo? Siccome nella tradizione non c’era più niente, egli inventò qualcosa! Partì dal convincimento che i processi fisici e chimici che si svolgono nell’uomo non possono fondarsi su quel tipo di fisica e di chimica che si veniva proprio allora applicando al mondo esterno. Siccome però non disponeva di null’altro, egli inventò quella che chiamò la «forza vitale». In tal modo Io Stahl fondò la cosiddetta scuola dinamica. Si tratta dunque di un’invenzione sostitutiva di qualcosa che era andato perduto! Lo Stahl era in fondo ancora dotato di un certo istinto: siccome gli mancava qualche cosa, per rimediarvi almeno inventò la forza vitale. Il secolo diciannovesimo ebbe poi il suo bel da fare a liberarsene di nuovo! Essa in realtà era infatti solo un’invenzione, perciò ci si dette da fare per sbarazzarsene.

 

Si lottava realmente per cacciare entro il sacco vuoto chiamato «uomo» qualcosa che gli si confacesse. Ecco allora dalla parte opposta, qualcuno che ragiona così: conosciamo le macchine e sappiamo come esse si muovano e come reagiscano. Il La Mettrie caccia nel sacco vuoto chiamato uomo la macchina e pubblica il suo libro L’homme machine. L’uomo viene dunque ora considerato una macchina. Il materialismo, o meglio il meccanicismo del Settecento (quale si esprime anche nel Système de la nature dello Holbach, opera tanto odiata da Goethe giovane), esprime solo l’impotenza ad accostarsi alla natura dell’uomo servendosi dei mezzi scientifici diventati così efficaci per la natura esterna, allora e più tardi. Non si era dunque in grado di comprendere l’uomo: tutto il secolo decimonono dovette ancora lottare contro questa incapacità.

 

Tuttavia, non si rinunciò a farsi un’idea dell’uomo e si finì per concepirlo come un animale altamente evoluto. È vero che ormai non si aveva più nemmeno una comprensione dell’animale, dato che per studiarlo ci si valeva della fisica, della chimica, della psicologia quali erano divenute negli ultimi secoli, con la sola esclusione della pneumatologia. Non ci si rendeva conto che anche per la comprensione del regno animale è necessaria una pneumatologia. Poiché si doveva pur prendere le mosse da qualcosa, nel diciottesimo secolo si faceva risalire la spiegazione dell’uomo alla macchina, nel secolo diciannovesimo all’animale. Tutto questo si può capire bene, seguendo lo sviluppo storico: tutto appare perfettamente sensato, nel quadro dell’evoluzione complessiva dell’umanità, dato che sotto l’influsso di questa ignoranza della vera natura dell’uomo nacquero i sentimenti moderni relativi all’uomo stesso. Se fossero continuate le antiche concezioni della fisica e della chimica interiori, della psicologia e della pneumatologia sperimentate dall’uomo fuori di lui stesso, non si sarebbe mai destata la moderna aspirazione alla libertà. L’uomo dovette perdere se stesso, in quanto essere elementare, per trovare se stesso come essere libero. Egli potè compiere il passo verso la libertà solo ritraendosi per così dire da sé per un certo tempo, non badando più a se stesso al modo di prima, dedicandosi invece al mondo esterno: e per teorizzare l’uomo? dovette applicare a se stesso i criteri che tanto adatti si erano dimostrati alla comprensione del mondo esterno. Proprio nel periodo in cui l’uomo trascurò per così dire se stesso, per sviluppare sentimenti di libertà, egli sviluppò le rappresentazioni scientifiche: quelle concezioni scientifiche che si potrebbero chiamare abbastanza solide per comprendere la natura esterna, ma troppo grossolane per la natura dell’uomo, in quanto non ci si era preoccupati di raffinarle in modo di poter afferrare appunto anche l’uomo. Sorsero dunque i concetti scientifici, bene applicabili alla natura, che celebrarono i loro trionfi, ma Che sono inadatti ad accogliere nei loro schemi l’essenza dell’uomo.

 

Da quanto ho detto dovrebbe risultare evidente che io non sto davvero esprimendo una critica alla concezione scientifica, ma ne sto delineando solo una caratterizzazione. L’uomo consegue infatti la piena coscienza della sua libertà proprio grazie al fatto di non essere più gravato dalle connessioni in cui si trovava coinvolto nel passato, quando tutte le sue concezioni della natura erano ancorate nella sua interiorità. L’esperienza della libertà cominciò per l’uomo quando egli si costruì una scienza adatta, nella sua robustezza, solo alla natura esterna; una scienza che naturalmente non è una totalità omogenea e quindi può anche prestare il fianco a qualche critica. Per esempio si può affermare che essa è scarsamente applicabile all’uomo, tutt’al più lo è in quanto fisica; già nel campo della chimica si presentano delle difficoltà, e la psicologia diventa poi un’astrazione completa. L’umanità dovette però conoscere un’epoca con queste caratteristiche, per poter pervenire in tutt’altro campo, in quello della coscienza della libertà, a una concezione morale individualmente differenziata. Non è possibile comprendere l’origine della scienza moderna considerandola unilateralmente, per se stessa; bisogna considerarla come un fenomeno parallelo alla contemporanea nascita della coscienza della libertà dell’uomo e di tutto quanto con tale coscienza è connesso nell’ambito morale e religioso.

 

Possiamo quindi constatare che a pensatori come lo Hobbes o Bacone, che posero i fondamenti filosofici della scienza, manca la possibilità di collegare l’uomo con ciò che è anima e spirito nell’universo. Si può controllare questa affermazione leggendo l’opera di Hobbes: da un lato egli elabora in germe e nel modo più radicale le rappresentazioni proprie della scienza moderna; dall’altro egli espelle dalla vita sociale umana qualsiasi traccia dello spirituale, proclama la guerra di tutti contro tutti. Egli non riconosce nella vita sociale nulla di vincolante che provenga in qualche modo dalla sfera soprasensibile; si può affermare che sia lui a dissertare per primo, in forma un po’ Caricata, sulla coscienza della libertà.

 

Dobbiamo proprio constatare che l’evoluzione dell’umanità non procede per niente in linea retta. Occorre prendere in considerazione le correnti che procedono l’una accanto all’altra: solo così si riesce a comprendere il senso dello sviluppo storico.