Aforismi sul rapporto tra teosofia e filosofia

O.O. 128 – Una fisiologia occulta – 28.03.1911


 

Sommario: La necessità di precise formulazioni filosofiche. L’odierna filosofia si muove in una sfera astratta, mentre la teosofia getta un ponte tra lo spirito e il mondo fisico. I concetti che vengono formulati a partire dalla percezione esteriore devono incontrarsi con i concetti tratti dalla percezione spirituale soprasensibile. La relazione del contenuto di coscienza con la realtà. L’io supera i confini della sfera della soggettività. La tesi secondo cui nulla può giungere dalla sfera trans-soggettiva a quella soggettiva ha solo un valore limitato. Materialismo mascherato nella teoria della conoscenza convenzionale. Il dovere della conoscenza.

 

In seguito alle conferenze pubbliche intitolate “Come si confuta la teosofìa?”, e “Come si difende la teosofìa?”, nonché in relazione alle considerazioni che ho fatto in questi giorni nel ciclo Fisiologia occulta, possono sorgere diverse domande che è necessario discutere un poco con gli stimati ascoltatori. Le due conferenze pubbliche avevano anzitutto l’intento di mostrare che chi coltiva la scienza dello spirito o teosofìa deve avere grande chiarezza sulle obiezioni che gli possono venire rivolte, e che l’occultista riconosce senz’altro che tali obiezioni sono giustificate; d’altra parte, le conferenze potevano suscitare nei presenti un’opinione molto chiara, e ricca di acute sfumature, su come si possono sostenere le verità teosofiche nei confronti delle importanti obiezioni dei suoi oppositori.

 

Proprio dalla conoscenza delle obiezioni alla teosofia che abbiamo descritto, dovrebbe formarsi in ogni teosofo il bisogno di far valere la massima precisione nella difesa delle verità teosofiche. Questo atteggiamento, che è molto chiaro per chi vuole presentare queste cose fondandosi sulle opportune conoscenze, lo porta inevitabilmente a collidere (nonostante tutto ciò che è stato messo in evidenza nelle conferenze pubbliche) con coloro che stanno sul terreno della scienza odierna. Per questo la teosofia richiede, per quanto strano possa sembrare, di formulare pensieri dotati di massimo rigore logico, da un lato per esprimere le verità tratte dai mondi superiori, dall’altro per pura e semplice facoltà di ragionamento. Chi si pone il compito di formulare i pensieri in modo preciso e logico, nelle sue frasi deve evitare ogni ridondanza di parole, tutto ciò che in una frase sarebbe eccesso di parole o semplice abbellimento retorico; egli sente bene che può essere con facilità frainteso, proprio per la ragione che nel nostro tempo non è presente ovunque il forte bisogno di accogliere le verità presentate con la stessa precisione e chiarezza con cui vengono esposte. L’umanità del nostro tempo, anche quando si occupa di scienza, non si è ancora abituata a esercitare questa precisione estrema. Accogliendo con estrema precisione ciò che è stato esposto, non solo non si può cambiare nulla nelle frasi, ma bisogna fare anche molta attenzione ai limiti espressi nelle formulazioni.

 

In proposito possiamo fare un semplice esempio, tratto dalle domande che sono state fatte. È stato chiesto: se la coscienza di sogno è solo una sorta di coscienza per immagini, come può essere che sulla base di tale coscienza di sogno si possano compiere delle azioni subconsce, come per esempio camminare durante il sonno? Chi ha fatto la domanda non ha tenuto conto che, come avevo già evidenziato, dicendo che i contenuti della coscienza di sogno hanno una qualità immaginativa, non si intende che sono solo immagini, ma naturalmente che, siccome abbiamo caratterizzato l’orizzonte della coscienza di sogno solo da un lato, proprio da tale caratteristica risulta che, come le nostre azioni diurne derivano dalla nostra diurna coscienza di veglia, così determinate azioni meno coscienti potrebbero derivare dalla coscienza per immagini tipica del sogno.

 

Senza voler accusare nessuno, va senz’altro detto che una delle cause principali per cui la teosofia e i suoi rappresentanti vengono oggi spessissimo fraintesi, è la scarsa precisione nell’ascolto. Queste incomprensioni non sono portate solo dagli avversari della teosofia, ma molto spesso anche da coloro che coltivano la concezione del mondo teosofica. Forse, molte delle obiezioni che il mondo contrappone alla scienza dello spirito si hanno proprio perché anche all’interno dei circoli teosofici ci sono molte manchevolezze, nel senso che ho caratterizzato.

 

Passando ora in rassegna le scienze che contano ai nostri giorni, potremmo avere in generale la sensazione che la teosofia possa essere messa in relazione tutt’al più con la filosofia e le sue diverse branche. Una tale affermazione sarebbe senz’altro giusta e, considerando oggettivamente le cose, potremmo in effetti supporre che la scienza che prima di ogni altra potrebbe comprendere la teosofìa, sia la filosofia. Ma proprio in questo campo vediamo sorgere altre difficoltà.

 

La filosofia, come viene coltivata oggi ovunque, è diventata una sorta di scienza specialistica in misura molto maggiore di quanto non fosse relativamente fino a poco tempo fa. E diventata una scienza specialistica ed opera in pratica (se osserviamo oggi il suo lavoro e non ci impelaghiamo nelle singole teorie) solo in ambiti astratti. Non si vede la tendenza a riportare la filosofia alla concreta percezione dei fatti oggettivi; chi voglia comprendere il mondo dei fatti oggettivi, fa oggi persino fatica a coltivare la filosofia. La teoria della conoscenza, che nelle più diverse direzioni si è sviluppata con grande acume dalla seconda metà del secolo XIX ai nostri giorni, come in effetti si presenta oggi è nata soprattutto perché si sentiva la difficoltà di penetrare nella realtà concreta partendo dalle altezze astratte del pensiero, del concetto.

 

Ora, proprio in cicli di conferenze come quello sulla fisiologia occulta, è necessario che la teosofia penetri direttamente nelle cose concrete del mondo mediante quanto essa può dare come suo contenuto soprasensibile della coscienza. Se posso esprimermi banalmente, vorrei dire: la teosofia non ha vita facile, come invece la filosofia odierna, poiché questa rimane nelle regioni astratte e non sarebbe certo disposta a trattare, nelle sue considerazioni, questioni come il sangue, il fegato o la milza, vale a dire contenuti pratici. La filosofia ha orrore di gettare un ponte dalle sue formulazioni concettuali astratte verso le cose concrete, verso le cose e i fatti che incontriamo direttamente nella vita pratica. In questo senso la teosofia sa osare di più, e proprio per questo, rispetto alla filosofia, può anche venire con facilità considerata un’attività dello spirito che, in modo temerario e illegittimo, getta un ponte dagli elementi più spirituali verso il basso, verso le cose più pratiche.

 

Ora è interessante chiedersi: perché per i filosofi è così diffìcile avvicinarsi alla teosofia? forse proprio perché la filosofa non vuole gettare quel ponte.

Per la teosofìa stessa questo fatto è in un certo senso una fatalità, una fatalità singolare. Le conoscenze teosofiche, in particolare quando le si vuole portare fino all’elaborazione logica, incontrano molte resistenze proprio da parte filosofica. A dire il vero s’incontrano meno resistenze, quando per così dire si raccontano con leggerezza osservazioni sensazionali fatte nei mondi superiori. Ci vengono spesso perdonate con più facilità, anzitutto perché sono cose “interessanti”, e in secondo luogo perché la gente dice: dato che non possiamo ascendere a quei mondi superiori, non siamo tenuti a dare alcun giudizio in merito.

 

Lo sforzo della teosofia è però quello di presentare, in una forma comprensibile per la ragione, tutto ciò che può essere scoperto nei mondi superiori. I fatti reali che la teosofia espone sono trovati tramite la ricerca soprasensibile nei mondi soprasensibili. Nel nostro tempo la forma espositiva dovrebbe però essere tale da presentare tutto in forma rigorosamente logica; dove ciò sia già oggi possibile, si dovrebbe sempre indicare che i processi esteriori ovunque ci possono confermare le conoscenze acquisite dalla ricerca spirituale. Il tentativo di presentare le conoscenze del mondo spirituale, di dar loro una forma logica o comunemente ragionevole, presentandole così in una forma adatta alle esigenze logiche del nostro tempo, è oggi causa di moltissimi malintesi.

 

Prendiamo per esempio le complicate questioni di cui abbiamo parlato nelle conferenze sulla fisiologia occulta, con tutte le limitazioni, le precise indicazioni dei limiti da osservare riguardo alle loro determinazioni, prendiamo le complicate questioni relative al mobilissimo e variabile mondo dello spirito; si pensi questo mondo dello spirito, in tutta la sua variabilità, si pensi alla difficoltà di formulare con concetti ordinari quel che si incontra nei mondi spirituali, e si confronti ciò con la facilità di caratterizzare un qualsiasi fatto esteriore mediante esperimento od osservazione sensibile, descrivendolo in forma logica!

 

Nella filosofia oggi è invalsa ovunque la tendenza, quando vengono presentati e spiegati concetti, di non avere riguardo per null’altro che per le rappresentazioni tratte dal mondo sensibile. Ciò si percepisce in particolare quando la filosofia è costretta a trovare, per esempio sul piano etico, concetti fondamentali basati su presupposti diversi da quelli che si possono ottenere mediante la percezione esteriore del mondo fisico. Scopriamo (e sarebbe facile da dimostrare, ma naturalmente dovremmo fare delle trattazioni esaurienti sulla base della letteratura filosofica odierna) che in tutte le tesi elaborate nell’odierna filosofia, le formulazioni concettuali sono molto grossolane perché, per determinare i contenuti concettuali, in fondo si dà importanza solo al mondo percettivo che ci circonda, e solo da quello si formano i concetti.

 

Si può trovare una ragione per cui, nella formulazione filosofica dei concetti più elementari, i contenuti di coscienza vengano derivati anche dal mondo non percepibile ai sensi? Alla filosofia attuale manca la possibilità di comprendere la teosofia, perché con le sue teorie essa non può afferrare i concetti che noi coltiviamo a fondo nelle nostre considerazioni teosofiche. Nella letteratura filosofica l’orizzonte della coscienza viene determinato dalla formulazione di concetti nei quali si dà importanza solo al mondo della percezione esteriore e non ai contenuti che hanno origine da un’altra sfera, non collegata ai sensi.

 

La teosofia deve invece formulare i propri concetti in tutt’altro modo; deve sollevarsi alla conoscenza soprasensibile e trarre da lì i propri concetti; al contempo deve approfondire la sfera della realtà e padroneggiare i concetti filosofici acquisiti dall’osservazione del mondo sensibile. Se vogliamo presentare la situazione in uno schema, abbiamo da una parte i concetti filosofici che vengono acquisiti tramite la percezione sensibile, d’altro lato i concetti che vengono acquisiti dal mondo soprasensibile grazie alla percezione spirituale. Pensando poi al campo dei concetti grazie ai quali ci facciamo capire, dobbiamo dire: se la teosofia vuole essere vista come qualcosa di giustificato, i nostri concetti devono essere acquisiti da entrambi i lati, dal lato dalla percezione sensibile e da quello della percezione spirituale; nel campo dei nostri concetti le due sfere devono incontrarsi.

 

                          Concetti acquisiti mediante                                                           Concetti acquisiti mediante

                           percezione sensibile                                                                         percezione soprasensibile

                                              (filosofia)                                                                        (teosofia)

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                                                                                    Sfera concettuale

 

Proprio nell’esporre i concetti teosofici tratti dal mondo spirituale, dobbiamo sentire il bisogno di far incontrare le nostre idee anche con i termini filosofici, vale a dire che i nostri concetti si devono sempre poter collegare ai concetti che si acquisiscono con l’osservazione sensibile del mondo fisico.

Le odierne teorie della conoscenza sono costruite più o meno esclusivamente su concetti derivati da un solo lato. Non voglio dire che non ci siano anche teorie della conoscenza che ammettono alcuni elementi soprasensibili all’origine del concetto. Se però deve essere dimostrato qualcosa in senso positivo, gli esempi vengono caratterizzati solo da concetti tratti dalla parte sinistra dello schema, vale a dire dal lato dell’esperienza fisico-sensibile. Ciò è del resto del tutto naturale poiché [la filosofia] non riconosce i fatti spirituali come tali. Non si tiene conto appunto del caso che i fatti tratti dal mondo spirituale possano essere esposti in forma concettuale, come vengono esposti i fatti del mondo fisico. Queste circostanze hanno fatto sì che la teosofìa, quando vuol entrare in contatto con la filosofia, non trovi alcuna disponibilità da parte di quest’ultima, e la stessa filosofìa fatichi a comprendere il modo in cui la teosofia usa i concetti.

Potremmo dire: nel mondo della percezione sensibile è facile dare ai concetti contorni definiti; in esso le cose stesse hanno contorni e limiti netti, e quindi è facile dare forma chiara anche ai concetti. Quando invece si è di fronte al mondo spirituale, che è in sé mobile e variabile, per potere caratterizzare in qualche modo ciò che si deve dire, bisogna mettere insieme molti elementi, riducendo o ampliando i concetti. La gnoseologia, come viene praticata oggi, è la meno adatta ad accogliere i concetti adoperati nella teosofia. Infatti, se la formulazione dei concetti fa riferimento (in modo conscio o inconscio) solo a una parte della realtà, vi si mischia qualcosa che inavvertitamente conduce a quei concetti gnoseologici che non vanno assolutamente usati per spiegare o chiarire qualcosa relativo alla teosofia. Il concetto, quale viene fornito dal mondo cosiddetto non teosofico, è semplicemente inadatto per caratterizzare ciò che dalla teosofìa viene portato dai mondi spirituali.

 

Uno in particolare di questi concetti nel campo della gnoseologia è terribilmente disturbante. So bene che non viene sentito come tale, ma nondimeno è disturbante. Prescindendo da tutte le fini sottigliezze formulate nel corso del secolo XIX, questo concetto formula così il problema gnoseologico: Come fa l’io col suo contenuto di coscienza (oppure, se vogliamo evitare di parlare di io), come fa il nostro contenuto di coscienza a venire da noi collegato a una realtà? Con eccezione di alcuni indirizzi gnoseologici del secolo XIX, questo tipo di pensiero ha sviluppato, in modo più o meno netto, una teoria della conoscenza che sempre di nuovo trova grandi difficoltà ad ammettere la possibilità che elementi trans-soggettivi o trascendenti, che sono dunque al di fuori della nostra coscienza, possano entrare in essa. Ammetto di avere con ciò caratterizzato solo grossolanamente il problema conoscitivo. Tuttavia le difficoltà possono essere sintetizzate dicendo: come può in generale un contenuto soggettivo della coscienza avvicinarsi in qualche modo all’essere, alla realtà? come può essere riferito alla realtà? Ci deve essere chiaro che anche quando noi presupponiamo una realtà trans-soggettiva che è al di fuori della nostra coscienza, ciò che è all’interno della nostra coscienza non può avvicinarsi direttamente a quella realtà. Abbiamo dunque in noi il contenuto di coscienza e possiamo chiederci: come è possibile, partendo dal nostro contenuto di coscienza, penetrare nell’essere, nella realtà che è indipendente dalla nostra coscienza?

 

Un importante teorico della conoscenza del presente caratterizzò questo problema con un’espressione pregnante: l’io umano che abbraccia l’orizzonte della coscienza, non può andar oltre se stesso; dovrebbe infatti uscire da se stesso, se volesse penetrare nella realtà. Ma allora sarebbe nella realtà, e non nella coscienza. Per questo studioso della conoscenza sembra dunque chiaro che proprio nulla si può dire su come il contenuto della coscienza sia in rapporto con la realtà concreta.

 

Affrontai questo problema nei miei scritti gnoseologici molti anni fa, come prima questione fondamentale anche nell’ambito della teosofia, cercando di eliminare le difficoltà che derivano appunto da formulazioni come quella che ho citato. In merito possono succedere cose strane. Per esempio vi erano a quel tempo filosofi, come Schopenhauer, che asserivano: «Il mondo è una mia rappresentazione». Vale a dire: il contenuto di coscienza è in primo luogo solamente contenuto di rappresentazione; si tratta di capire come gettare il ponte tra la rappresentazione e l’elemento che è al di là del rappresentato, ovvero la realtà trans-soggettiva. Per chi non si lasci affascinare dalle dichiarazioni che, a quanto si dice, sono state fatte in questo campo, e si avvicini invece alla questione in modo spregiudicato, sorge subito una domanda, che dovrebbe esser posta alla gran mole di letteratura gnoseologica prodotta in particolare tra gli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta del secolo scorso: Se un qualcosa è una “mia rappresentazione”, e se esso deve essere qualcosa di più di un contenuto interno alla mia coscienza, se deve avere valore di per se stesso, dobbiamo anche dire che in sostanza esso non può stare a monte della teoria della conoscenza, ma può venire determinato solo dopo che di tale teoria siano stati posti gli elementi più importanti. La prima cosa che dobbiamo allora chiederci è: perché devo definire “mia rappresentazione” ciò che sorge in me come contenuto di coscienza? ho il diritto di dire che ciò che si presenta nell’orizzonte della mia coscienza, è una mia rappresentazione? La gnoseologia non ha affatto il diritto di partire dal giudizio che ciò che è dato sia una mia rappresentazione, bensì ha il dovere, se risale veramente alle sue origini, di provare in primo luogo che ciò che si presenta è il contenuto soggettivo della coscienza.

 

Naturalmente si possono fare mille obiezioni contro ciò che abbiamo appena detto, ma non credo che una sola di esse possa reggere a lungo, se si studia la cosa in modo spregiudicato. Mi capitò di portare questo dilemma all’attenzione di un noto filosofo, spiegandogli che in primo luogo appunto bisognerebbe provare se, dal punto di vista gnoseologico, sia giustificato caratterizzare la rappresentazione come qualcosa di non-reale. Egli mi disse: Ma è naturale! Lo si evince già dalla definizione del termine “rappresentazione”, vale a dire: noi “presentiamo” a noi stessi qualcosa che non è reale. Le idee che si erano sviluppate nel corso dei secoli erano in lui talmente radicate, che non riusciva proprio a capire che con questa prima definizione si pone una base ancora del tutto infondata.

 

Se volessimo fare una qualsiasi constatazione entro il mondo in cui ci troviamo (e con questa espressione, “il mondo in cui ci troviamo”, intendo ciò che incontriamo tutti i giorni), se volessimo per esempio constatare che il mondo che ci è dato è una “rappresentazione”, dovremmo avere chiaro che non è affatto possibile arrivarvi senza aiutarci con la nostra attività pensante, senza concetti e pensieri. Non voglio ora dire con questo che in effetti una tale constatazione, dal punto di vista logico-formale sia già un “giudizio”. In ogni caso, nel momento in cui noi cominciamo a non lasciare qualcosa così come ci appare, ma nei suoi confronti facciamo una constatazione, noi interveniamo col nostro pensiero nel mondo che ci circonda. Se abbiamo un qualche diritto di intervenire in tal modo nel mondo su qualcosa che abbiamo definito “soggettivo”, dobbiamo essere coscienti che ciò che determina che una cosa sia chiamata “soggettiva” non può essere esso stesso soggettivo.

 

Supponiamo di avere da una parte la sfera della soggettività (vedi figura seguente) e di constatare:

A è soggettivo, è una “mia rappresentazione”; anche questa stessa constatazione è soggettiva.

 

 

Non ne consegue che possiamo ritenere valida questa constatazione, bensì che non possiamo trarre una simile conclusione, perché una tale constatazione annullerebbe se stessa. Se una soggettività si constata tale solo da se stessa, è per forza di cose una constatazione che annulla se stessa. Se la constatazione “A è soggettivo” deve avere un senso, essa non deve fondarsi sulla sfera della soggettività, ma su una realtà che sia al di fuori della soggettività. Vale a dire, se l’“io” dev’essere in qualche modo in grado di affermare che qualcosa porta un carattere soggettivo, per esempio che qualcosa è una “mia rappresentazione”, se l’“io” vuole avere il diritto di definire qualcosa come soggettivo, esso stesso non può trovarsi all’interno della sfera della soggettività, ma deve fare questa constatazione al di fuori della sfera della soggettività. Dunque la constatazione che qualcosa è soggettivo non può essere ricondotta all’io, che è esso stesso soggettivo.

 

In tal modo però si delinea un’uscita dalla sfera della soggettività, quando ci è chiaro che non possiamo fare alcuna constatazione su cosa sia soggettivo od oggettivo, e che dovremmo abbandonare fin dall’inizio ogni riflessione in proposito, se non facessimo in modo uguale parte di entrambe le sfere, sia quella della soggettività sia quella dell’oggettività. Di conseguenza dobbiamo ammettere (senza per ora approfondire) che il nostro io non va considerato solo come un elemento soggettivo, ma che esso va oltre la sfera della nostra soggettività. Partendo da un certo contenuto che ci è dato, vale a dire da qualcosa di oggettivo, abbiamo il diritto di delimitare ciò che è soggettivo.

Riscontriamo anzitutto i diversi concetti di “obiettivo”, “soggettivo” e “trans-soggettivo”. “Obiettivo” è naturalmente qualcosa di diverso da “trans-soggettivo” [lacune nella trascrizione].

 

Poste queste premesse, si tratta ora di vedere se siamo in grado di togliere di mezzo quella pietra dello scandalo che rappresenta uno dei maggiori ostacoli nella teoria della conoscenza, vale a dire la domanda se all’interno della soggettività possiamo o no trovare l’intera estensione del nostro io. Se infatti l’io deve partecipare anche alla sfera dell’oggettività, la domanda: “Può penetrare qualcosa nella sfera della soggettività?” assume una forma del tutto diversa. Appena possiamo dire che l’io partecipa alla sfera dell’oggettività, l’io deve avere in sé le medesime qualità di ciò che è oggettivo, si deve trovare anche nell’io qualcosa della sfera dell’oggettività. In altre parole: siamo ora in grado si presupporre una relazione tra obiettivo e soggettivo, che si discosti in sostanza dalla concezione secondo cui nulla potrebbe passare da ciò che è trans-soggettivo a ciò che è soggettivo.

Quando si dice che nulla può giungere al soggettivo, anzitutto si è determinato il soggettivo dal punto di vista gnoseologico come un qualcosa in sé conchiuso, e in secondo luogo si è usato un concetto che è giustificato solo per una certa sfera della realtà, ma non può avere valore per tutta l’estensione della realtà. È il concetto della “cosa in sé”. Esso ha un ruolo importante per molti teorici della conoscenza; è come una rete in cui resta impigliato lo stesso pensiero filosofico. Non si nota però che questo concetto vale solo per una certa sfera della realtà, e cessa di essere valido dove essa finisce.

 

Nel mondo materiale il concetto è valido. Vorrei ricordare l’esempio del sigillo e della ceralacca. Se si prende un sigillo su cui è scritto il nome “Müller” e lo si imprime sulla ceralacca calda, si può dire a buon diritto che nulla della materia del sigillo può essere accolto nella ceralacca. Abbiamo dunque qualcosa per cui è valido il non-passaggio da una sfera all’altra. Ma le cose stanno diversamente. Col nome “Müller” si ha qualcosa che passa interamente nella ceralacca. Se la ceralacca stessa potesse parlare e volesse sottolineare che nulla della materia del sigillo è fluito in lei, dovrebbe tuttavia ammettere che comunque è senz’altro passata la cosa più importante, vale a dire il nome “Müller”. Abbiamo così oltrepassato la sfera in cui il concetto della “cosa in sé” aveva una giustificazione.

Come è accaduto allora che questo concetto, presentato in modo più raffinato da Kant e in modo più grossolano da Schopenhauer, e poi acutamente ripreso dai diversi teorici della conoscenza nel secolo XIX, abbia potuto conseguire quel significato?

 

Considerando le cose più da vicino, vediamo che ciò che gli uomini elaborano in concetti dipende comunque dalla modalità globale del loro pensiero. Solo in un’epoca in cui tutti i concetti dovevano venire sempre caratterizzati dalla percezione esteriore, potè affermarsi un concetto come quello della “cosa in sé”.

 

I concetti tratti unicamente dalla percezione esteriore non sono adatti per la descrizione del mondo spirituale. Se non fosse stato portato a forza nella teoria della conoscenza un materialismo del tutto camuffato, mascherato (poiché di questo si tratta: nella teoria della conoscenza è stato inserito un materialismo difficile da riconoscere), allora avremmo chiarezza sul fatto che una teoria della conoscenza che valga per la sfera spirituale deve avere anche concetti che non si siano formati in modo grossolano, come è avvenuto per il concetto della “cosa in sé”. Per la sfera spirituale, per la quale non si può affatto parlare nello stesso senso di un fuori e di un dentro, abbiamo senz’altro bisogno di concetti più raffinati.

 

Posso solo tratteggiare queste considerazioni, altrimenti dovrei scrivere un intero libro, in più tomi, che dovrebbe inserire nella storia della filosoia e nella gnoseologia anche la ricerca metafisica. Abbiamo comunque visto che il modo di pensare, nato da pregiudizi profondamente camuffati, è inutilizzabile per tutto ciò che riguarda il mondo spirituale.

 

Ho parlato per un’ora di questo concetto tra i più astratti. Mi sono sforzato di rendere le cose comprensibili, e so benissimo che in molte altre persone possono sorgere delle obiezioni come ve ne sono nella mia anima. Se il nostro fosse un incontro di altro tipo, dovrei forse giustificare bene di avere un po’ ingannato i miei ascoltatori, dato che invece della solita conferenza basata sui fatti, per una volta ho parlato in concetti molto astratti, o, come alcuni direbbero, molto ingarbugliati. D’altra parte, nel nostro lavoro teosofico, abbiamo sempre riscontrato che un aspetto positivo della teosofia è che all’interno del nostro movimento sentiamo il dovere di coltivare la conoscenza, superando così a poco a poco un brutto atteggiamento diffuso ovunque, che porta a dire: sono cose che vanno oltre il mio orizzonte, di cui non mi voglio occupare, che non trovo interessanti!

 

Qualcuno dedito alle questioni filosofiche fondamentali e che forse conosce per esperienza lezioni universitarie scarsamente frequentate e sulla teoria della conoscenza, potrà trovare sorprendente che nel nostro movimento tante persone (che nel giudizio di questo o quel teorico della conoscenza sono pur sempre “perfetti dilettanti”) si riuniscano per sentire una conferenza su questo tema. Altrove abbiamo persino avuto un maggior numero di ascoltatori nelle conferenze di tema filosofico che erano programmate tra quelle di argomento teosofico. Considerando le cose più a fondo, potremo dire che questa è persino una delle migliori testimonianze per i teosofi. Essi sanno che devono ascoltare in modo spregiudicato tutte le obiezioni. Sono tranquilli, perché sanno bene che le obiezioni nei confronti della ricerca nel mondo soprasensibile sono possibili e giustificate; sanno però anche che alcune cose che a tutta prima sono state considerate illogiche, possono rivelarsi alla fine molto logiche. Il teosofo impara inoltre a considerare proprio dovere accogliere le conoscenze nella propria anima, quand’anche fosse per lui faticoso occuparsi di logica e di teoria della conoscenza. Infatti, in tal modo egli sarà sempre più in grado non solo di ascoltare esposizioni su argomenti di teosofia generale, ma anche di lavorare seriamente nella teosofia con concetti logici e articolati. Il mondo finirà per riconoscere che la filosofia nel suo senso più ampio potrà rinascere all’interno del movimento teosofico. Se posso usare questo termine, all’interno del movimento teosofico “nidificherà” a poco a poco uno zelo per il rigore filosofico, per la formazione di concetti rigorosamente logici. Con ciò non voglio dire che a questo riguardo abbiamo già ottenuto risultati molto soddisfacenti. Dovremo ancora considerare questo compito con assoluta modestia, siamo comunque sulla strada verso questo fine.

 

Quanto più ci avviciniamo con buona volontà all’elemento del pensiero, alla coscienziosità scientifica, all’accuratezza filosofica, tanto più nel lavoro teosofico potremo perseguire non solo i nostri transitori fini personali, ma realizzare fini che riguardano l’umanità in generale. Molte cose oggi attendono ancora di voler essere realizzate. Nella volontà che viene impiegata nella conoscenza, vi è però già una sorta di autoeducazione etica che si forma con l’interesse che portiamo incontro alla teosofia, e fra non molto tempo questo interesse aumenterà. Quando non ci saranno altri ostacoli se non quelli che ci sono già oggi, il mondo esterno dovrà riconoscere che i teosofi non cercano una facile soddisfazione delle proprie aspirazioni interiori, ma che nella teosofia si manifesta un serio anelito verso l’accuratezza filosofica e la coscienziosità priva di dilettantismo. Questo sforzo potrà anche acuire la coscienza filosofica degli uomini. Se non accogliamo le dottrine teosofiche come dogmi, ma comprendiamo che la teosofia può vivere nella nostra anima come una forza reale, essa potrà divenire la miccia che accenderà l’anima umana, per afferrare sempre più a fondo le forze in essa nascoste, per portarla alla coscienza della propria meta. Per questo all’interno del nostro movimento teosofico vogliamo incoraggiare lo zelo per una logica e per una teoria della conoscenza ben fondate, così che, ancora più saldi sul terreno del nostro mondo fisico, potremo imparare a osservare in modo sempre più chiaro il mondo spirituale, per portarne i contenuti nel nostro mondo fisico senza esaltazioni o nebulosi misticismi.

 

Potremo realizzare tutto questo solo e unicamente

se sapremo conferire alla teosofia una reale missione nell’esistenza terrestre dell’umanità.