Davide e Salomone / Davide

L’aurora della rivelazione


 

La vita esteriore di Davide è descritta così minuziosamente nella Bibbia, che non è qui necessario ripeterne il racconto. Se a quel racconto si aggiungono i Salmi, si ottiene un’immagine compiuta della vita di Davide nel suo rapporto, sia con il mondo esterno, che con il mondo spirituale. Se infatti la sua vita presenta una straordinaria varietà di prove, fatiche, vittorie ed errori nell’ambito dell’azione esteriore, una varietà non minore di prove, vittorie, dolori e gioie caratterizza il suo rapporto interiore, con il mondo spirituale.

 

Tanto dal racconto biografico della Bibbia, quanto dai Salmi è facile riconoscere che Davide viveva due vite contemporaneamente, ciascuna delle quali gli recava grandi dolori e grandi gioie. Una vita era quella che egli viveva nel mondo dell’azione e degli avvenimenti esteriori, l’altra si aggiungeva alla prima per via di un rapporto interiore col mondo spirituale. Questa seconda vita era quella decisiva.

La posizione che Davide occupa nella storia spirituale dell’umanità come modello di ‘rettitudine’, è dovuta soprattutto al tipo di rapporto con il mondo spirituale che gli era proprio. In esso si rivela infatti la sua fedeltà al mondo spirituale, nonostante le molte prove. Per questa ragione, le conoscenze e le rivelazioni di cui fu partecipe, erano pure.

 

Vi furono certo periodi in cui Davide non era in grado di vedere il mondo spirituale. Quando però lo vedeva, tale visione era conforme alla verità. Nel suo rapporto con il mondo spirituale non vi era posto per le illusioni. Una tale estraneità alle illusioni era conseguenza del fatto, che nelle sue relazioni con il mondo spirituale egli teneva a distanza tutto ciò che, in quanto a desideri, passioni e cose simili, traeva origine dalla sua vita profana.

Poiché egli manteneva pura la parte della propria anima rivolta al cielo, non permettendo che vi interferisse l’altra parte, anche il suo rapporto con il mondo spirituale risultava puro. Esso consisteva propriamente nell’incontrare un’entità della schiera di Jahvè-Elohim. Quando Davide, nei salmi, prega il Signore di “far splendere il suo volto” su di lui, non si deve pensare che egli adoperi un linguaggio ‘poetico’ o ‘mistico’. Non si tratta affatto di abbellimenti poetici di un rapporto immaginario con un’entità in cui ‘si crede’; bensì di un rapporto reale con un’entità reale, comportante anche un incontro faccia a faccia. Se si prendono le parole seguenti come espressione di una realtà, non si potrà pensare diversamente, se non che esse si riferiscono ad un rapporto con una sublime entità spirituale, mantenuto mediante un grande sforzo interiore:

O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco; di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne come terra deserta, arida, senz’acqua. Così nel santuario ti ho cercato, per contemplare la tua potenza e la tua gloria. (Sai 62:2-3)

 

In questo salmo si parla dell’attesa struggente di un nuovo incontro con l’Elohim durante una peregrinazione in una regione “deserta e arida”, in senso sia esteriore, che interiore. Tali incontri furono frequenti nella vita di Davide. Vi furono periodi in cui egli, per ogni azione che doveva compiere, chiedeva consiglio all’entità che lo guidava.

Ciò appare con evidenza, ad esempio, nei seguenti brani del primo libro di Samuele:

 

Davide consultò il Signore, chiedendo: “Devo andare? Riuscirò a battere questi Filistei?”. Rispose il Signore: “Va’, perché sconfiggerai i Filistei e libererai Keila”.

Ma gli uomini di Davide gli dissero: “Ecco, noi abbiamo già da temere qui in Giuda, tanto più se andremo a Keila contro le forze dei Filistei”.

Davide consultò di nuovo il Signore, e il Signore gli rispose: “Muoviti e scendi a Keila, perché io metterò i Filistei nelle tue mani”. (1 Sam 23:2-4)

Davide disse: “Signore, Dio di Israele, il tuo servo ha sentito dire che Saul cerca di venire contro Keila, e di distruggere la città per causa mia. Mi metteranno nelle sue mani i cittadini di Keila? Scenderà Saul, come ha saputo il tuo servo? Signore, Dio d’Israele, fallo sapere al tuo servo”. Il Signore rispose: “Scenderà”.

Davide aggiunse: “I cittadini di Keila mi consegneranno nelle mani di Saul con i miei uomini?”. Il Signore rispose: “Ti consegneranno”.

Davide si alzò e uscì da Keila con la truppa, circa seicento uomini. (1 Sam 23:10-13)

 

In questi brani si nota che il mondo spirituale risponde solamente alle domande di Davide, e non dà indicazioni di propria iniziativa. Davide non era un profeta, nel senso di un uomo ricolmo del mondo spirituale. Egli era una personalità che doveva chiedere consigli al mondo spirituale. Il suo rapporto con esso si svolgeva liberamente. Per questo motivo egli compì anche azioni senza consultarlo – ad esempio il suo matrimonio con la moglie di Uria, il censimento del popolo di Israele. Egli pagò per queste trasgressioni, ma d’altra parte il mettere in pratica i consigli del mondo spirituale significò per lui, non solo l’adempimento della sua missione oggettiva, ma anche un progresso nel suo destino personale.

 

Ogni anima umana, durante il sonno, vive un rapporto simile con il proprio Angelo custode, ma esso si svolge di notte, restando celato alla coscienza diurna. Per Davide, invece, esso si svolgeva in stato di veglia anche durante la notte (cf. ad esempio Sai 17:3). Davide manteneva in stato di veglia lo stesso rapporto con la propria entità tutelare, che si ha normalmente nel sonno.

Questo rapporto richiedeva, per altro, uno sforzo costante e un esercizio interiore.

Le tracce visibili di questo sforzo ed esercizio sono i salmi che egli ha tramandato ai posteri.

 

Per comprendere la genesi, la natura e il significato dei salmi, occorre rendersi conto di quanto segue.

Lo sviluppo completo del manas (o sé spirituale) si avrà per l’umanità solo verso la fine del periodo di Giove, che seguirà all’evoluzione della Terra. Allora il manas formerà un’unità con l’Io umano, in modo tale che l’uomo non solo riceverà le rivelazioni del manas, o conseguirà la conoscenza del manas stesso, bensì compirà azioni scaturenti da esso. L’entità del manas diverrà allora la forza creativa dell’uomo, per la quale egli opererà.

Prima di pervenire a questa condizione, tuttavia, l’umanità dovrà sviluppare gradualmente un rapporto con l’entità del manas. Già nell’epoca lemurica l’umanità aveva sperimentato l’azione del manas, in seguito alla quale aveva iniziato a svilupparsi l’anima senziente.

Alla fine dell’epoca atlantica fu la guida del manas a manifestarsi in coloro che si riconoscevano nel Manu. Gli uomini proto-ariani sentivano l’autorità dell’entità del manas, e fu proprio questa a condurli fuori dal continente destinato alla distruzione.

 

Anche la comunità israelita conobbe la realtà dell’entità del manas quando, sotto la guida di Mosè, compiva la sua peregrinazione nel deserto. La conobbe però già come una rivelazione interiore, la quale avveniva durante la notte, per estendere poi i propri effetti come forza attiva nella vita diurna del sentire e del volere, ossia come ‘cibo corroborante donato dal cielo’.

 

Una rivelazione cosciente del manas in stato di veglia ebbero invece gli Apostoli durante l’evento della Pentecoste. Ciò nonostante, la conoscenza desta del manas non si avrà, per la parte dell’umanità a ciò matura, che nella sesta epoca di cultura. Vi sarà allora un certo numero di persone, che non solo riceveranno rivelazioni, ma coltiveranno un rapporto cosciente con il mondo spirituale mediante l’entità del manas. Nella vita diurna e in condizione desta, essi saranno cittadini consapevoli di due mondi. Dipenderà dalla loro volontà, che il mondo spirituale si dischiuda al loro sguardo, o si richiuda nuovamente, per permettere loro di volgere l’attenzione al mondo terreno. Sarà questa una facoltà umana. L’uomo stesso, e nessun altro, sarà capace di aprire e chiudere al proprio sguardo le porte del mondo spirituale.

 

Di questa facoltà dell’uomo durante la sesta epoca di cultura si parla nell’Apocalisse di Giovanni, e precisamente nella lettera all’Angelo della Chiesa di Filadelfia, ove è detto:

All’Angelo della Chiesa di Filadelfia scrivi: “Così parla il Verace, colui che ha la chiave di Davide: quando egli apre, nessuno chiude, e quando chiude nessuno apre”. (Ap 3:7)

La “chiave di Davide” è appunto la facoltà, presente in Davide, di condurre un rapporto libero con il mondo spirituale. Quando l’uomo possiederà la chiave di Davide, nessuno chiuderà e aprirà per lui: egli avrà la conoscenza del manas, non solo la sua rivelazione.

 

La conoscenza del manas, per altro, è del tutto diversa da quella conseguibile, ad esempio, mediante l’anima razionale, o mediante la stessa anima cosciente. Mentre, infatti, mediante queste forze dell’anima può essere conseguita una conoscenza, la cui caratteristica è quella di una graduale ascesa, la conoscenza del manas è invece caratterizzata da una graduale discesa. Così, ad esempio, nel tipo di conoscenza ascendente, si conosce prima la natura (minerale, vegetale, animale), poi l’uomo e infine il mondo spirituale al di sopra dell’uomo. Nella conoscenza del manas il processo è inverso: si conosce dapprima il mondo spirituale, quindi la natura umana, e infine i regni della natura, fino a quello minerale. La via della conoscenza del manas comporta che si inizi con l’afferrare le forze più elevate dell’anima, e che si discenda quindi a grado a grado.

In questo caso si conoscono dapprima le entità del mondo sovrasensibile,

e solo a poco a poco i fenomeni del mondo in cui esse si manifestano.

 

Nella conoscenza acquisita mediante le forze ordinarie dell’anima, si ascende dai fenomeni alle entità che stanno dietro ad essi. Dapprima si osservano dunque i regni della natura, per ravvisarvi la manifestazione di forme primordiali [Urformen]. Una volta scoperte le forme primordiali, si può risalire da esse alla conoscenza degli Spiriti della forma, degli Elohim.

Nella conoscenza del manas, si percepiscono dapprima gli Spiriti della forma e solo successivamente, a volte dopo molto tempo, le loro manifestazioni nei processi della natura. La conoscenza del re Davide era di quest’ultimo tipo. Egli aveva un rapporto cosciente con un’entità degli Elohim, ma la sua conoscenza della natura era modesta. Le forze conoscitive della sua anima potevano discendere solo fino all’ambito umano della storia e della morale. Per una conoscenza complessiva della natura gli mancavano le forze a ciò necessarie dell’anima razionale e dell’anima cosciente.

 

Ciò che alcuni secoli più tardi Pitagora potè realizzare con le forze ormai deste dell’anima razionale – dischiudendo alla conoscenza, dopo aver udito la musica delle sfere, i segreti della forma primordiale (peras) e del suo esplicarsi in numeri e figure – non fu per Davide né possibile né necessario, poiché ai suoi tempi non ci si interrogava ancora sulle manifestazioni concrete del divino nei singoli fenomeni naturali. Tali interrogativi possono nascere solo nell’anima razionale, per trovare risposta in una concezione del mondo conforme allo spirito; o nell’anima cosciente, per trovare appagamento in una scienza anch’essa conforme allo spirito, ossia in una scienza dello spirito.

 

Se dunque la percezione diretta della voce del mondo spirituale che dà forma ai fenomeni della natura, indusse Pitagora a elaborare un sistema di numeri e figure con cui spiegare il mondo della natura, la percezione di quella medesima voce cinquecento anni prima, aveva indotto Davide a comporre un salmo, in cui la maestà della voce creatrice di Dio è espressa con linguaggio vigoroso:

 

Date al Signore la gloria del suo nome,

prostratevi al Signore in santi ornamenti.

Il Signore tuona sulle acque,

il Dio della gloria scatena il tuono,

il Signore sull’immensità delle acque.

Il Signore tuona con forza,

tuona il Signore con potenza.

Il tuono del Signore schianta i cedri,

il Signore schianta i cedri del Libano.

Fa balzare come un vitello il Libano

e il Sirion come un giovane bufalo.

Il tuono saetta fiamme di fuoco,

il tuono scuote il deserto,

il Signore scuote il deserto di Kades

(Sal 29:2-8) (Cf. anche il salmo 19 – N.d.A.)

 

L’esperienza diretta della “voce del Signore” – il tuono – e il sapere che essa scuote ogni cosa nel mondo esteriore, era sufficiente per Davide. Il bisogno di sviluppare questo sapere in una concezione del mondo gli era estraneo. In compenso tutti i su sforzi miravano a far sì che il rapporto vivente con l’entità dell’Elohim non venisse mai meno. Il rapporto stesso racchiudeva in sé tutto ciò di cui egli aveva bisogno:

 

Una cosa ho chiesto al Signore,

questa sola io cerco:

abitare nella casa del Signore

tutti i giorni della mia vita,

per gustare la dolcezza del Signore

e ammirare il suo santuario. (Sal 27:4)

 

I salmi testimoniano però anche la sofferenza di Davide, nei momenti in cui quel rapporto doveva per necessità essere interrotto. Il dolore di quelle interruzioni non consisteva solo nel fatto che con esse veniva meno il favore divino, ma ancor di più in un altro aspetto, che si cercherà ora di illustrare.

La conoscenza del manas ha, come già si è detto, un carattere ‘discendente’. Ciò comporta esperienze che si distinguono nettamente dalle esperienze della conoscenza ordinaria.

 

Nella conoscenza del manas avviene infatti che l’uomo, in una dimensione sovracosciente del suo essere, sia ricolmo di un sapere, che solo nell’ultima fase del suo processo penetra nella coscienza ordinaria. Tale è il processo nei periodi di ‘alta marea’. Nei periodi di ‘bassa marea’, invece, resta priva di quella conoscenza solo la coscienza ordinaria, mentre gli strati più profondi dell’essere umano ne sono ancora permeati. Da questa condizione deriva una sofferenza, di cui ci si può fare un’idea, seppur approssimativa, ove si intendano le parole seguenti non come un’iperbole poetica, ma come la descrizione di un fatto reale:

 

Come acqua sono versato,

sono slogate tutte le mie ossa.

Il mio cuore è come cera,

si fonde in mezzo alle mie viscere.

È arido come un coccio il mio palato,

la mia lingua è incollata alla gola,

su polvere di morte mi hai deposto. (Sal 22:14-15)

 

Il languore che l’uomo sperimenta, quando in lui il contrasto tra la dimensione sovracosciente e la coscienza ordinaria è tale, che la prima sia ricolma di conoscenza, mentre la seconda si sente tanto più vuota, è maggiore di quello di un’anima che non sia stata mai toccata dallo spirito. L’uomo sente allora la propria natura ordinaria come un ostacolo che deve essere rimosso per far posto allo spirito.

Non è il corpo ad essere sentito come un ostacolo, ma l’anima, la quale fa languire lo stesso corpo, per il fatto che, con la propria disposizione interiore, intralcia il flusso ristoratore e chiarificante della forza spirituale. Non solo lo spirito, ma anche il corpo accusa l’anima, la quale è causa del suo languore. L’anima prende allora coscienza della propria colpa, non solo nei confronti dello spirito, ma anche del corpo.

 

Quando l’anima è in condizione di essere toccata dallo spirito in modo così distinto, che essa giunga a desiderarlo ardentemente, sebbene esso non penetri del tutto nella coscienza dell’anima stessa, e quando d’altra parte il corpo si mostra assetato e affamato di spirito, l’anima può allora riconoscere la propria colpa davanti a Dio e alla natura. Essa, allora, ‘confessa i propri peccati’, e in seguito alla sofferenza che ciò comporta, sorge in essa una nuova forza, la cui importanza per il destino dell’uomo e dell’umanità è immensa: la forza del pentimento.

 

Se è la colpa a tenere lontano lo spirito dall’anima, quale si esprime nella coscienza di veglia, è invece la forza del pentimento a riaprire le porte già chiuse del mondo spirituale. Nessun uomo sulla terra è senza colpa. Se la conoscenza spirituale fosse riservata a chi è interamente santo, non vi sarebbe sulla terra alcuna conoscenza spirituale. Le porte del mondo spirituale resterebbero chiuse a tutti gli uomini.

 

Vi è però una chiave che può aprire queste porte, ossia il vero pentimento interiore, in nome di se stessi e dell’umanità, per la colpa umana di fronte alla natura e al Divino. La facoltà del pentimento, rettamente intesa, è appunto la forza che in futuro, a partire dal ventesimo secolo fino alla sesta epoca di cultura, aprirà ad un numero crescente di persone le porte che tengono chiuso il mondo spirituale. Questa facoltà è infatti la ‘chiave di Davide’ che apre e nessuno può chiudere, di cui si parla nell’Apocalisse di Giovanni, in rapporto alla Chiesa di Filadelfia. Questa facoltà è detta ‘chiave di Davide’, poiché nella storia della corrente cristiana dell’umanità, Davide ne fu il primo portatore e rappresentante.

 

Se si prende, ad esempio, il salmo 51, e lo si esamina frase per frase alla luce di quanto si è detto, si riceverà una viva impressione di ciò che per Davide conta sopra ogni cosa:

 

Riconosco la mia colpa,

il mio peccato mi sta sempre dinanzi.

Contro di te, contro te solo ho peccato,

quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto;

perciò sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio.

Ecco, nella colpa sono stato generato

nel peccato mi ha concepito mia madre.

Ma tu vuoi la sincerità del cuore

e nell’intimo m’insegni la sapienza.

[…]

Crea in me, o Dio, un cuore puro,

rinnova in me uno spirito saldo.

Non respingermi dalla tua presenza

e non privarmi del tuo santo spirito.

[…]

Poiché non gradisci il sacrificio

e, se offro olocausti non li accetti.

Uno spirito contrito è sacrificio a Dio,

un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi.

(Sal 51, “Miserere”)

 

Ciò che conta per Davide, è appunto “il sacrificio del cuore affranto e umiliato”, che non sarà disprezzato. La facoltà del pentimento da lui posseduta, era la ‘chiave’ che apriva le porte del mondo spirituale. In Davide si era compiuta un’interiorizzazione della ‘legge’, di molto in anticipo sui tempi. Come ‘Mercurio’ – ossia il Venere astronomico – preannunzia quale stella del mattino l’apparire del Sole, così Davide, colui che il pentimento aveva reso sapiente, fu il preannunziatore del Cristo-Sole.

 

La saggezza mercuriale di Davide è la stessa conoscenza del manas.

Egli non fu però il solo ad esserne partecipe. Anche suo figlio Salomone – il cui stesso nome significa saggezza del manas1 – la possedeva. Vi era però una differenza significativa tra la saggezza del padre e quella del figlio.

Davide, infatti, sperimentava la luce del manas in modo tale, che essa gli rivelava la propria imperfezione e colpa.

Salomone, invece, vedeva l’imperfezione nel mondo.

 

Mentre uno non disperò mai del mondo, né mai perse il coraggio nella vita, poiché vedeva l’imperfezione in se stesso, l’altro vedeva l’imperfezione nel mondo, e di conseguenza alla fine della propria vita guardava al travaglio del mondo con l’indifferenza di un saggio che, avendo fatta propria la luce del manas, si era chiuso ad ogni luce che gli poteva dare il mondo.

 

Studiando la figura di Salomone si può intravedere il pericolo della conoscenza del manas, il che non deve però impedirci di considerare questa figura con profonda simpatia umana. Invero, non vi è altro modo di considerare gli uomini e i loro destini. L’antipatia o la fredda indifferenza rendono infatti cieca l’anima per la natura degli uomini e dei loro destini.

 


 

Note:

1 – In ebraico Salomone significa ‘pacifico’, da shalom=pace.