Davide e Salomone / Salomone

L’aurora della rivelazione


 

Quando la luce del manas irradia nel corpo astrale, si ha la rivelazione del manas.

• Se ciò avviene in seguito all’iniziativa e allo sforzo dell’Io umano, si ha invece la conoscenza del manas.

• Se, ancora, l’Io concentra i raggi della luce del manas, per così dire, in un punto focale risiedente in lui,

e la irradia poi come luce propria, la saggezza del manas diventa saggezza propria del singolo uomo.

 

Fu questo il caso di Salomone. Egli è l’unica figura di sapiente umano nell’intera Bibbia.

Gli altri erano, o profeti ricolmi di spirito, o ‘uomini di Dio’, ossia uomini che avevano un rapporto faccia a faccia con il mondo spirituale. Questi non possono essere chiamati ‘sapienti’, poiché di proprio non avevano che la facoltà di stabilire un rapporto cosciente con il mondo spirituale. Ciò che essi attingevano da questo rapporto, non era la loro sapienza, ma la ‘Sapienza di Dio’.

Così, ad esempio, Davide fu detto ‘lampada di Israele’, ma non ‘sapiente di Israele’. Egli, infatti, non aveva fatta propria la luce della saggezza del manas. Tramite lui risplendeva la luce universale del mondo dello spirito, e per tale ragione egli faceva tacere l’opinione propria. La denominazione di ‘sapiente’ è dunque attribuibile solo a Salomone, che aveva fatta propria la luce del manas, divenendo appunto un sapiente.

 

La preponderanza dell’elemento personale nella sapienza di Salomone si instaurò solo gradualmente. All’inizio essa ne era scevra. Solo col passare del tempo, e specialmente nella seconda metà della sua vita, assunse un carattere egocentrico. Il Salomone che a Gàbaon, durante un sogno, aveva pregato Dio di dargli un cuore docile allo spirito (1 Re 3:5-14), era ben diverso dal Salomone che, come ‘predicatore’ (ecclesiaste), diceva: “Ho preso in odio la vita, poiché mi è sgradito quanto si fa sotto il sole. Ogni cosa infatti è vanità e afflizione dello spirito” (Qo 2:17).

 

Vi è un lungo cammino di vita dal Salomone che a Gàbaon ha in sogno una visione, e il Salomone ‘ecclesiaste’.

Questo cammino condusse un’anima originariamente capace di devozione

alla conoscenza priva d’amore di uno spettatore indifferente.

Qui sta la tragedia di Salomone: anziché diventare, come giudice della natura umana,

l’annunziatore di una saggezza conseguibile mediante il pentimento,

egli divenne, come giudice della vita e del mondo, l’annunziatore della loro vanità e vacuità.

 

Tuttavia il fallimento di Salomone non deve essere considerato, come si fa comunemente, in quella maniera gretta, per cui ci si limita a dire: egli non era abbastanza ‘puro’ ed ‘elevato’ per adempire il proprio compito. Sbarazzarsi di una persona con una frase simile è cosa facile, e lo si fa di frequente. Ciò che conta, però, è poter guardare ad una grande anima, ponendosi la domanda: Qual era l’intenzione di questa grande anima, e quale fu la causa profonda per cui essa non potè attuarsi?

 

Il modo in cui Rudolf Steiner parlava degli uomini è, e sarà sempre, un modello. Si consideri, ad esempio, come parlò di Ernst Haeckel o di Friedrich Nietzsche, e si comprenderà che cosa vuol dire guardare alla vita e all’opera di una persona. Amore che nasce dalla stima [achtende Liebe] è ciò che affina lo sguardo per l’elemento umano.

Se ci si sforza di occuparsi dell’anima di Salomone con questo atteggiamento, ne risulterà la storia impressionante di una grande anima sulla terra.

 

L’anima di Salomone era di natura prometeica, capace cioè di vivere in anticipo la condizione di un lontano futuro. Essa, tuttavia, anticipava il futuro non in modo da sperimentarlo nel mondo spirituale prima del suo realizzarsi nel divenire terreno, ma realizzandolo in terra prima del tempo. Quest’anima portò giù ‘il fuoco dal cielo’, e dovette perciò sopportare le stesse sofferenze che aveva dovuto sopportare Prometeo. Leggendo il libro dell’Ecclesiaste si ritrova il fegato di Prometeo roso dall’avvoltoio.

 

L’indescrivibile tedio del mondo e la penosa impotenza a cambiare le cose, che dà il tono a tutto il libro, non sono altro che la punizione divina per aver portato sulla terra il fuoco celeste.

Un’antichissima frase, già risonata in un’ora decisiva del destino dell’umanità, risonò nuovamente nell’anima di Salomone imprimendogli l’impulso di fondo: “Sarete come dèi, capaci di conoscere il bene e il male”. Salomone diede retta a queste parole, non chiedendosi più, che cosa diceva il cielo riguardo alla terra, ma scalando ogni vetta ed esplorando ogni abisso della realtà terrena e umana, per fare egli stesso esperienza di tutto ciò che avviene sotto il sole.

 

Percorrere tutte le vie della saggezza e della follia, provare tutti i piaceri, assaggiare tutto ciò che nella vita è dolce e amaro: tale fu il volere del titano Salomone. Egli edificò il tempio secondo le istruzioni che gli aveva lasciato il padre, superandole in bellezza e splendore. Accanto al tempio, però, costruì per sé un palazzo di magnificenza non minore della casa di Dio, ponendovi un trono d’avorio e d’oro che nessun altro sovrano sotto il sole possedeva. Raccolse immense ricchezze, e si circondò di ogni bellezza, tanto delle opere umane, che di quelle di Dio. Non fu da parte sua sregolatezza o espressione di un carattere dissoluto, ma un’insaziabile sete di conoscenza a far sì che la Palestina, la Fenicia, la Siria e l’Egitto gli offrissero le loro figlie più belle.

 

Prima dell’alba Salomone lasciava il palazzo regale e vagava come un semplice soldato della guardia reale per gli stretti vicoli della città, o per i campi e i vigneti intorno ad essa. In tal modo imparava a conoscere l’altra faccia della vita: la vita degli umili, delle vedove e degli orfani. Così conobbe anche la Sulamita , la quale fu capace di risvegliare nella sua anima, quello che non erano state capaci di risvegliare, né la regina di Saba, né la figlia del faraone: il Cantico di Salomone ne reca testimonianza.

La sua brama di conoscenza non si limitava però al suo ambiente.

 

Egli fu veramente più saggio di tutti. […] Il suo nome divenne noto fra tutti i popoli limitrofi. Salomone pronunziò tremila proverbi, e le sue poesie furono mille e cinque. Parlò delle piante, dal cedro del Libano all’issopo che sbuca dal muro; parlò di quadrupedi, di uccelli, di rettili e di pesci. Da tutte le nazioni venivano per ascoltare la saggezza di Salomone; venivano anche i re dei paesi ove si era sparsa la fama della sua saggezza. (1 Re 5:10-14)

 

Quest’anima percorse ogni via, per conoscere tutto quanto aveva valore sotto il sole. In questa sua ricerca essa non si chiedeva, però, che valore ha per il cielo ciò che avviene sulla terra, bensì che valore ha ciò che si può sperimentare sulla terra all’interno della stessa esistenza terrena.

Quest’anima si diceva: ▸“Che Dio in cielo sia divino, di ciò l’uomo non deve occuparsi; ciò che conta per l’uomo, è avere sulla terra una sorte divina. Ho visto Dio in faccia due volte, e anche mio padre l’aveva visto. Eppure l’anima di mio padre si raffreddò, dopo che egli ebbe compiuto la propria opera, proprio quando avrebbe dovuto essere felice. Ciò che è nel cielo, appartiene al cielo; ciò che l’uomo può trovare sulla terra, quello io cercherò. L’uomo viene sulla terra per amore della terra, non per amore del cielo. Che cosa vi è sulla terra di così prezioso, che spinga l’uomo a nascere e a vivere? Perché vale la pena nascere sulla terra?”.

 

Salomone non era affatto un negatore dello spirito, e neanche un egoista alla ricerca della fortuna personale. Dinanzi alla sua anima vi era la tragica figura dell’anziano padre, che aveva adempito la propria opera di unto del Signore e, circondato da una cerchia di persone a lui devote nella vita e nella morte, aveva regnato sui cuori di un popolo ormai grande, eppure nei suoi ultimi giorni aveva sofferto in solitudine il gelo della vita. I suoi amici avevano cercato ogni rimedio che la terra potesse offrire, per restituire al re il calore perduto, ma tutti gli espedienti erano stati vani. Nulla fu trovato per riscaldare l’anima infreddolita del re. Questa immagine stava di fronte all’anima di Salomone, suscitandovi un grande interrogativo: qual è la sorte terrena dell’uomo? Può egli trovare qualcosa che lo renda felice?

 

Così sorse l’interrogativo di Salomone nella vicenda interiore di quella vita terrena. In realtà la condizione di Davide non era dipesa dall’aver rinnegato il valore della vita. Al contrario, era dovuta alla perdita di un bene che gli era stato donato nella sua giovinezza, e che valeva per lui più di ogni altra cosa: il suo amico Giònata, il figlio di Saul. Ne sentì la mancanza per tutta la vita, e nulla potè risanare quella perdita. Le parole del suo lamento:

 

Giònata, per la tua morte sento dolore,

l’angoscia mi stringe per te,

fratello mio Giònata!

Tu mi eri molto caro;

la tua amicizia era per me preziosa

più che amore di donna. (2 Sam 1:25-26)

 

continuarono a risonare per tutta la vita di Davide, e furono esse a sottrargli alla fine dei suoi giorni il calore vitale.

 

La nostalgia di un amore che egli aveva un tempo trovato, non il disperare di poter trovare alcun bene sulla terra, era stata la causa di quella condizione. Soffrire per qualcosa che si è posseduto e che nulla può sostituire, è cosa profondamente diversa dallo stato d’animo che si esprime nelle parole: “Vanità delle vanità: tutto è vanità”.

Il risultato del grandioso esperimento che Salomone compì nella sua vita, fu la convinzione che tutti i valori della vita terrena sono vani. Non meno vano, tuttavia, è staccarsi dalla vita terrena per volgersi al cielo, poiché “chi bada al vento non semina mai, e chi osserva le nuvole non miete” (Qo 11:4).

 

Ma che cosa resta allora all’uomo, se durante la sua vita terrena né il cielo, né la terra offrono una meta al suo anelare? La risposta di Salomone, è che l’uomo non deve proporsi alcuna meta:

 

Sta’ lieto, o giovane, nella tua giovinezza,

e si rallegri il tuo cuore nei giorni della tua gioventù.

Segui pure le vie del tuo cuore

e i desideri dei tuoi occhi.

Sappi però che su tutto questo

Dio ti convocherà in giudizio. (Qo 11:9)

 

In altre parole: lascia che la natura in te sia natura, e si esprima in modo naturale, ma sempre entro i limiti prescritti dalla legge di Dio, in vista del giudizio,

 

prima che si rompa il cordone d’argento,

la lucerna d’oro s’infranga,

si rompa l’anfora alla fonte,

la carrucola cada nel pozzo,

e ritorni la polvere alla terra, com’era prima,

e lo spirito torni a Dio che lo ha dato. (Qo 12:6-7)

 

Accadde così che Salomone, dopo aver aspirato per anni a lasciare ai posteri un libro che giustificasse la vita, lasciò in realtà un libro per suicidi. L’Ecclesiaste è infatti un libro in cui ogni deluso della vita può trovare argomenti per il suicidio. Se, infatti, ogni cosa è vanità, e l’attenzione è volta solo al godimento insulso di piccoli piaceri quotidiani, chi può ancora desiderare di vivere? La paura del giudizio è una ragione sufficiente per sopportare la vita fino alla fine?

 

La via di Salomone è la via della conoscenza luciferica del manas.

La prova che la conoscenza del manas comporta, è il decisivo confronto interiore con Lucifero.

 

Due vie si aprono infatti dinanzi all’uomo:

• la via del pentimento e dell’umiltà,

• e quella del giudicare la vita e il mondo, ad eccezione di se stessi.

 

La coscienza della colpa dell’uomo di fronte alla natura e al mondo spirituale

è il terreno su cui si può sviluppare la vera conoscenza del manas;

atteggiarsi a giudice della vita e del mondo è invece un cadere nella tentazione luciferica.

La scelta tra queste due vie costituirà la grande prova della sesta epoca di cultura.

 

A quel tempo l’umanità sarà esposta più che mai alla tentazione di provar delusione riguardo agli sforzi, le capacità e le conoscenze dell’uomo. L’umanità deve attraversare questa prova. Solo l’uomo, infatti, in cui si siano spente tutte le luci della vita, troverà la nuova e vera forza per vivere: l’amore.

Prima però che questo accada, egli deve attraversare il deserto, poiché solo nel deserto è possibile la discesa della ‘manna dal cielo’.

 

Vi sarà un tempo – e per molti ciò avverrà anche prima –

in cui quelle cose che il presente considera ‘valori’,

quali il ‘progresso scientifico’, il ‘benessere’, le ‘finalità sociali’,

saranno riconosciute e accantonate come giocattoli per bambini, e a quel punto,

• o ci si porrà di fronte al mondo spirituale come umili mendicanti ,

• o si volteranno le spalle al mondo, come spregiatori di esso e della sua vita.

 

Se si farà la prima scelta, le porte del mondo spirituale si apriranno,

e nella vita fluirà una forza che conferirà a tutti i suoi valori un valore nuovo.

Allora l’uomo darà ‘nomi’ nuovi a tutte le cose, come già un tempo aveva fatto nel paradiso, prima della caduta.

 

Il ‘rovesciamento di tutti i valori’

è il risultato della conoscenza del manas, ma esso può essere un fatto sia positivo, che negativo.

 

Nel diciannovesimo secolo la tragedia di uno sviluppo irregolare della conoscenza del manas

si compì dinanzi agli occhi del mondo intero.

Il ‘rovesciamento di tutti i valori’ operato da Friedrich Nietzsche, fu una ripetizione di quello operato da Salomone.

 

A Nietzsche spettava il grande compito di condurre la presente epoca di cultura ad una riflessione sulle proprie colpe e ad un profondo pentimento. Egli additò invece l’ideale del superuomo, che non è in realtà Zarathustra, ma Salomone, liberatosi dai ceppi della ‘paura del giudizio’. Ci si immagini Salomone libero dalla coscienza del giudizio, cresciuto nell’epoca di Darwin e Haeckel, e lo si ritroverà nella figura del ‘Zarathustra’ di Nietzsche.

 

Tutti i motivi dell’Ecclesiaste si ritrovano invero in Così parlò Zarathustra. Non è forse la “gaia scienza”, libera dallo ‘spirito della gravità’, una semplice rielaborazione e sviluppo dell’esortazione finale di Salomone: “Sii lieto, o giovane, nella tua giovinezza, e si rallegri il tuo cuore nei giorni della tua gioventù”? E non è forse l’idea dell’“eterno ritorno” di Nietzsche una nuova forma, volta ora all’ottimismo, dell’insegnamento salomonico-.

“Ciò che è stato, sarà, e ciò che si è fatto, si rifarà: non c’è niente di nuovo sotto il sole” (Qo 1:9).

 

La resurrezione dell’Ecclesiaste nello Zarathustra di Nietzsche giunge a tal punto, che persino le parole: “Trovo che amara è più della morte la donna, la quale è tutta lacci: una rete il suo cuore, catene le sue braccia. […] Un uomo su mille l’ho trovato, ma una donna fra tutte non l’ho trovata” (Qo 7:26-28), si possono ritrovare in Nietzsche.

 

Nietzsche può dunque essere compreso profondamente mediante Salomone. Mediante Salomone e Nietzsche si può invece comprendere la tragedia della conoscenza luciferica del manas, che finisce per esser preda di Arimane. Se, infatti, Prometeo portò il fuoco dal cielo, e Salomone con quel fuoco bruciò tutti i valori umani, in Nietzsche esso si trasformò nel fuoco che arde all’interno della terra: il fuoco dell’odio.

 

Quando Nietzsche scrisse L’Anticristo, il fuoco delle sue parole non era più animato dalla compassione di Prometeo per l’umanità, e neanche dalla disillusione di Salomone, ma dall’odio verso lo spirito del Cristo. La disillusione di Salomone si mutò così nell’odio che guidò la mano di Nietzsche, quando egli scrisse L’Anticristo.

È questo un esempio impressionante del processo di degenerazione dell’elemento luciferico – dalla compassione per l’umanità fino all’assoggettarsi alla potenza di Arimane – quale è stato caratterizzato nel quinto capitolo. Ciò che là fu presentato come una verità universale, può essere qui compreso e sentito per mezzo di un esempio vivente.

 

• Il periodo dei primi re fu quello della ‘rivelazione di Mercurio’,

ossia il periodo in cui cominciò a manifestarsi l’entità del manas.

• Il periodo della cattività babilonese ci porta innanzi di un passo,

facendoci avvicinare alla rivelazione diretta del Sole, compiutasi mediante il Cristo Gesù.

 

Il prossimo capitolo avrà dunque come oggetto gli aspetti spirituali del ‘periodo di Venere’,

ossia del periodo della cattività babilonese.