Ginnasta, retore e dottore

O.O. 310 – Importanza della Conoscenza dell’Uomo per la Pedagogia e della Pedagogia per la Cultura – 24.07.1924


 

Quel che bisogna fare nella scuola è inserito veramente in tutta l’evoluzione della cultura e della civiltà. Soltanto che esso vi è contenuto direttamente, in modo che sia facile vedere come una civiltà si esprima nella sua arte pedagogica, oppure vi sta inosservato. La civiltà è pur sempre un riflesso di quanto si fa nella scuola; gli è che talvolta non lo si rileva. Ne tratteremo oggi a proposito della nostra epoca, ma consideriamo prima la civiltà orientale.

 

La civiltà orientale più antica, con quanto di essa rimane, è assai poco nota nella sua realtà interiore. La civiltà orientale non ha proprio nessun elemento intellettuale; essa scaturisce dall’uomo intero, quale appunto egli è in quanto orientale, e cerca di legare uomo a uomo. Inoltre essa si libera difficilmente dal principio di autorità. Tutto ciò che vien fatto nasce piuttosto dall’amore, in maniera naturale. Perciò nella civiltà orientale non si può nemmeno parlare, come si fa da noi, di un educatore e di un allievo separati. Laggiù non si ha il maestro, l’educatore, ma si ha il dada. Il dada dà l’esempio; manifesta, vivendolo mediante la sua personalità, quanto il ragazzo deve apprendere. Il dada è colui che tutto « mostra », che nulla insegna. L’insegnare non avrebbe alcun senso nella civiltà orientale. Un pedagogo assai celebre in Europa, Herbart, che, specie nell’Europa centrale, esercitò una grande influenza in rapporto ai problemi pedagogici, dice: « Io non posso concepire un’educazione senza insegnamento ». In lui tutto verteva sul modo d’insegnare. L’orientale avrebbe detto invece: Io non posso concepire un’educazione con l’insegnamento — perché nell’educare, nel mostrare con l’esempio, è già riposto quanto deve manifestarsi nell’allievo. La stessa cosa avviene per l’iniziato, per il guru, e per il chela, il suo discepolo, cui pure non si insegna, ma si mostra con l’esempio.

 

Quando si è in grado di concordare su queste cose, si capirà anche più facilmente che cosa significhi il dire: con la pedagogia della Scuola Waldorf noi vogliamo di nuovo rivolgere tutta l’educazione all’uomo intero, noi non vogliamo tener separata l’educazione dello spirito da quella del corpo, ma invece, mentre educhiamo il corpo – perché lo educhiamo partendo da principii spirituali, ma del tutto praticamente – noi vogliamo educare perfino dove vi siano situazioni patologiche. Noi vogliamo far agire lo spirito nel corpo in modo che nella Scuola Waldorf l’educazione del corpo non sia trascurata, ma sia fatta in guisa da sapere che l’uomo è anima e spirito. E la nostra pedagogia contiene appunto tutto quanto è necessario per l’educazione del corpo.

 

Bisogna poi di nuovo imparare a capire quello che comprendevano i Greci. Quella greca era un’educazione ginnastica. Il maestro era « ginnasta », cioè sapeva che cosa significa un movimento nell’uomo. Al Greco dei tempi più antichi si sarebbe detto qualcosa di piuttosto incomprensibile se, in sua presenza, si fosse parlato di insegnare il pensiero logico ai bambini. Il Greco sapeva che cosa si produce nel bambino insegnandogli – in modo più delicato presso gli Ateniesi, e più rude presso gli Spartani – una sana ginnastica. Gli era chiaro che quando si sa come muovere le dita nell’afferrare qualcosa in modo non da diventare maldestro, ma abile, questo si estende all’intero organismo; si impara a pensare con ordine nell’abile uso delle membra, si impara a parlar bene se ci si muove ginnasticamente in maniera giusta.

 

Tutto quello che nell’uomo è la cosiddetta educazione spirituale e animica, tendente all’astrazione, nasce solo in modo innaturale da un insegnamento diretto. L’educazione deve scaturire dal modo in cui l’uomo sa muoversi col corpo. Perciò la nostra civiltà è divenuta così astratta. Vi sono oggi uomini che non sanno far la calza, che non sanno nemmeno riattaccare, quando è strappato, un bottone dei calzoni. Nella Scuola Waldorf i ragazzi siedono assieme alle bambine ed hanno un vero entusiasmo per i lavori a maglia e all’uncinetto; vi si applicano, e imparano così a maneggiare i loro pensieri. Non fa nessuna meraviglia che un uomo, per quanto sia stato istruito « logicamente », non sappia pensare con ordine, se non sa come si lavori a maglia. Per questo oggi si nota quanto sia più facilmente mobile il mondo dei pensieri delle donne. Si guardi soltanto l’università, dopo che le donne vi sono state ammesse, e si veda quanto sia più mobile la parte spirituale animica delle donne in confronto a quella degli uomini, divenuta rigida, astratta, in un’attività unilaterale. Lo si nota più che mai nell’attività commerciale. Se si osserva un commerciante e il modo come egli prende le sue decisioni, c’è da mettersi le mani nei capelli.

 

Queste sono le cose che bisogna tornare a comprendere. Bisogna sapere che un ragazzo, per quanto io possa disegnare sulla lavagna, impara a distinguere un angolo acuto da un ottuso — oppure a comprendere il mondo molto meglio, più che con qualunque spiegazione — se lo si abitua a tenere la matita tra l’alluce e il secondo dito del piede, e ad eseguire anche così lettere passabilmente formate, vale a dire quando la parte spirituale dell’uomo sgorga dall’intera corporeità.

 

Nella civiltà greca si badava a come un bambino imparava a muoversi, a come imparava a sopportare il caldo e il freddo. Da una corporeità giustamente sviluppata sboccia nel giusto modo anche la parte spirituale animica.

Educato come ginnasta, il Greco afferrava l’uomo intero, e da qui faceva sviluppare le altre facoltà.

 

Con la nostra scienza astratta, noi conosciamo oggi una verità molto importante, ma la conosciamo astrattamente: quando dei bambini imparano con facilità a scrivere con la mano destra, oggi si sa che questo è in relazione col fatto che nell’uomo il centro della favella è situato nella metà di sinistra del cervello; così che il parlare e l’imparare a scrivere hanno in questo modo un’intima interdipendenza. Si noti in proposito l’interdipendenza dei gesti della mano con il parlare; andando oltre, possiamo anche scoprire, mediante la fisiologia, il rapporto fra movimento e pensiero. Oggi si sa dunque astrattamente qualcosa del modo nel quale pensare e parlare scaturiscono dalla facoltà umana del movimento; il Greco però lo sapeva in senso più ampio. Perciò il ginnasta diceva: L’uomo imparerà a pensare giustamente se soltanto imparerà a camminare e a saltare in modo giusto, se imparerà a lanciare il disco in modo giusto. E se imparerà a lanciare al di là del segno, egli imparerà anche il sofismo, perverrà a tutte le meravigliose sottigliezze logiche che si sono enumerate in Grecia. Così l’uomo apprende a collocarsi nella realtà. Oggi si pensa di solito così: qui c’è un avvocato e là un cliente; l’avvocato sa le cose e l’altro non le sa. Poiché però in Grecia si era abituati a mirare oltre il segno, si sapeva: che accade quando un tale, un giurista, ha uno scolaro in giurisprudenza, e questo scolaro è da lui così bene istruito da vincere ogni causa? Quando però la causa si svolge fra lui e il suo maestro, allora la cosa risulta evidente: tu vincerai la causa in ogni modo, e in ogni modo la perderai. Essi conoscono il procedimento: esso è nell’aria. Così dunque ogni pensare e ogni parlare si sviluppa dall’educazione ginnastica che si estendeva all’uomo intero.

 

Passiamo ora alla romanità. Qui l’uomo intero si ritrae; resta soltanto nella posa. Presso il Greco ciò che vive ancora nel movimento è qualcosa di elementare-naturale. Un Romano in toga aveva un aspetto del tutto diverso da quello di un Greco, si muoveva anche altrimenti perché egli era diventato posa. Perciò l’educazione passò ad una parte dell’entità umana: al parlare, al bel parlare. Era ancora molto, ché tutta la parte superiore del corpo è impegnata nel parlare, fino al diaframma e ai visceri. Gran parte dell’uomo è impegnata, quando s’impara a parlar bene. Tutto era teso ad accostarsi all’uomo con l’educazione, a far dell’uomo qualcosa. Questo rimase ancora quando la civiltà entrò nel medioevo. In Grecia il principale educatore era il ginnasta che si occupava di tutto l’uomo; con Roma, il principale educatore divenne il retore. Tutta la prospettiva culturale e universale in Grecia era imperniata sull’uomo bello, preso nel suo complesso. Non si comprende una poesia greca, né una scultura greca se non si sa che tutta la prospettiva universale era imperniata sull’uomo còlto in movimento. Guardando una statua greca, si è subito tentati di vedere, dal movimento della bocca, quale sia la posizione dei piedi, e così via. Questo cambia nella romanità. Ora, al posto del ginnasta, subentra il retore, e tutta la civiltà diventa « oratoria ». Ora, tutta l’educazione è applicata all’eloquenza, al parlar bene. Così dura fino al medioevo, durante il quale si lavorava pur sempre all’uomo. Lo si può vedere chiedendosi : Che cosa c’era nell’educazione medioevale per formare uomini educati fino ad un certo grado? C’erano ad esempio le cosiddette sette arti liberali: grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, geometria, astronomia o astrologia, musica. Allora l’uomo doveva venir formato come tale, doveva progredire in quanto uomo. Allora, per esempio, anche l’aritmetica non si esercitava come oggi, ma si badava alla capacità, si badava ad instradare nell’uso di forme e numeri. Con la musica, ad esempio, ci si immergeva ancora nell’intera vita. E con l’astronomia l’uomo era indotto a pensare cosmicamente. In tutto ci si accostava all’uomo. Le cosiddette nozioni pratiche o scientifiche di oggi non avevano importanza alcuna nell’insegnamento. Non si dava molto valore al fatto che l’uomo dovesse apprendere qualcosa come scienza; ne aveva assai di più che egli potesse muoversi a dovere, parlare, pensare e contar bene. Ma che egli dovesse accogliere una qualche verità già fatta era di minore importanza. Perciò tutta la prospettiva culturale, lo scopo della civiltà, si manifestava nel presentarsi, nell’agire, nel modo di comportarsi dell’uomo. Si era fieri quando si avevano uomini capaci di presentarsi retoricamente, capaci di « affermare » l’uomo in genere.

 

La corrente culturale che ha mantenuto questo carattere fin nei tempi successivi, in un certo grado fino ad oggi, è la scuola dei gesuiti che, quando fu costituita, e ancora nel secolo XVIII e nella prima metà del XIX, era tesa ad « addestrare », per così dire, degli uomini per farne dei caratteri volitivi, e come tali a immetterli nella vita. La cultura dei gesuiti partiva in sostanza da queste premesse. E soltanto nel corso del secolo XIX, per non restare troppo indietro rispetto agli altri, i gesuiti introdussero nell’insegnamento le nozioni pratiche e scientifiche. Così dunque i gesuiti sviluppavano caratteri energici, forti; tanto che oggi, pur quando si è avversari del gesuitismo, si deve dire: Se si potessero ottenere uomini con ima tale coscienza dello scopo! Ma ottenerli per il bene, come i gesuiti lo hanno fatto per la decadenza dell’umanità.

 

Questa evoluzione dell’uomo è implicita ancora nella romanità, quando dal ginnasta è derivato il retore. Vediamo di conseguenza quale enorme valore, nella civiltà costruita sulla base dell’educazione retorica, si attribuisca a tutto quanto, anche nella vita, acquista un’importanza universale nel campo della retorica. Sotto questo profilo cerchiamo di guardare tutta la vita medioevale: tutto mostra che si guardava la vita come si guardava il parlare, quando questo deve essere « retorico », si guardava come un uomo doveva comportarsi, come doveva salutare, e così via. Tutto ciò non veniva fatto in modo ovvio, ma secondo un concetto di bellezza, proprio come nella retorica il linguaggio si plasma secondo un concetto di bellezza. Qui si vede sorgere l’importanza universale della pedagogia retorica; l’importanza universale della pedagogia greca sta invece in quanto si palesa nel movimento umano.

 

Col secolo XVI segue poi l’epoca moderna; essa veramente si prepara già nel XV. Di nuovo ora quanto ancora esprime una gran parte dell’uomo, cioè la retorica, viene respinto, abbandonato. Come la retorica ha respinto la ginnastica, così ora è respinta la retorica, e dell’uomo si prende in considerazione una parte ancor più piccola, si prende quanto tende sempre più verso l’intellettualità. E se il retore era l’educatore romano, il nostro educatore è il « dottore ». Se il ginnasta era ancora un uomo completo, se il retore era uno che, per lo meno, quando compariva, voleva ancora rappresentare l’uomo, il nostro dottore ha cessato di essere un uomo. Egli già rinnega l’uomo e vive in continue astrazioni; non è più che uno scheletro della civiltà. Perciò, almeno nei tempi moderni, il dottore assume la singolare forma di vestirsi esteriormente da borghese; non porta più volentieri il tocco davanti al tribunale, e si veste in modo che, all’aspetto, non si veda subito che specie di scheletro della civiltà egli sia. Tutta la nostra educazione però, dal secolo XVI, è impostata sul dottore. E chi educa in questo senso, non porta più nella scuola l’aspirazione a formare e plasmare degli uomini, ma dà al bambino soltanto del sapere. Questi deve apprendere, non deve esser formato, non va sviluppato, deve sapere delle cose, deve essere « istruito ». Certo, la pedagogia riformistica strepita assai contro il principio dottorale, ma non ne viene a capo.

 

Chi osserva a fondo queste cose, avendo una precisa idea di come era educato un fanciullo greco, e guarda ora alla scuola moderna dove si trascura del tutto, anche quando si fa ginnastica, lo sviluppo e la formazione dell’uomo, dando invece ai bambini più piccoli dei frammenti, degli estratti di scienze, costui deve dirsi: Non soltanto i maestri si riducono a scheletri della civiltà, anzi lo sono già o, se ancora non lo sono, lo vagheggiano come ideale o hanno almeno la necessità di diventarlo ; non soltanto i maestri sono così, ma anche i bambini hanno l’aria di dottorini. Se si volesse esprimere in che cosa un fanciullo greco si diversifichi da un bambino moderno, si potrebbe dire: Un fanciullo greco è un uomo, un bambino moderno diventa facilmente un « dottorino ».

 

Questo è il cambiamento avvenuto nel mondo riguardo alla formazione culturale. Non si guarda più all’uomo, ma a quanto deve essergli insegnato, a quanto egli deve sapere e portare in sé. La civiltà occidentale si è così evoluta scendendo, attraverso il retore, dal ginnasta al dottore. Essa deve però di nuovo risalire! Il motto più importante per la pedagogia moderna è « il superamento del dottore ». Noi dobbiamo riacquistare lo sguardo per l’uomo intero.

 

Vediamo come questo si esprima nell’importanza universale della pedagogia. Nell’Europa centrale esisteva un’università che, ancora poco tempo fa, aveva ima cattedra di eloquenza. Se risaliamo alla prima metà del secolo XIX, noi troviamo dappertutto, nelle università, tali cattedre per l’eloquenza, per il « bel parlare » il residuo dell’antica retorica. Ora, in quell’università, era professore di eloquenza un uomo assai notevole. Ma egli non avrebbe mai avuto ascoltatori se si fosse limitato a questo, poiché nessuno aveva più la necessità di seguire lezioni di eloquenza, ed egli insegnava soltanto archeologia greca. Per l’università egli era professore di eloquenza, ma da lui si ascoltavano soltanto corsi di archeologia greca; egli doveva insegnare qualcosa che conduce ad un sapere, non ad una capacità. Il che è diventato appunto l’ideale dell’insegnamento moderno. Si arriva così ad una vita in cui la gente sa un subisso di cose. Veramente non è quasi più un mondo terrestre, quello in cui viviamo, in cui gli uomini sanno una tal quantità di cose… sanno tante cose, ma non son capaci a nulla, poiché non vi è passaggio che porta dal sapere al fare. Se per esempio qualcuno studia medicina, egli deve bensì laurearsi, ma si ammette persino ufficialmente che egli non è ancora capace di far nulla; deve prima assolvere i suoi anni di pratica. Ma è un’assurdità di non aver subito, nei primi anni di studio, un insegnamento tale da poter anche « fare » subito qualcosa. Che importa che il bambino sappia che cosa è un’addizione, quando sia capace di addizionare! Che importa che il bambino sappia che cosa è una città, quando ne ha un’immagine! In ogni occasione si tratta di entrare nella vita, e il dottore conduce fuori della vita, non introduce in essa.

 

Così possiamo scorgere l’importanza universale della pedagogia: in Grecia ciò era ancor molto evidente, quando si andava ai giuochi olimpici. Qui si vedeva a che cosa i Greci annettevano valore; si sapeva che nella scuola poteva stare soltanto il ginnasta. Nell’epoca dei retori la situazione era ancora simile. Ed ora? Oggi singole persone vogliono far rivivere i giuochi olimpici. È una stravaganza! Ché nell’umanità attuale non ve ne è più la necessità. Quel che si fa sono imitazioni esteriori che non approdano a nulla. Ciò che compenetra oggi l’uomo non risiede nel linguaggio e nemmeno nelle forme con cui egli si presenta, ma risiede nei suoi pensieri. Si è così verificato che la scienza ha acquistato un’importanza universale addirittura demoniaca. Ha acquistato importanza universale demoniaca perché si è creduto di poter in genere sviluppare la civiltà in base a cose escogitate, di dover configurare la vita in base a « concetti ». Questo vale, per esempio, per il socialismo nell’epoca moderna. Esso vuol configurare la vita interamente in base a concetti. Così il marxismo è entrato nel mondo: un paio di concetti rabberciati, come plusvalore e così via; in base a questo la vita dovrebbe esser giudicata e configurata senza però scorgerne i nessi. Ma appunto i nessi occorre abbracciare con lo sguardo!

 

In un luogo piuttosto occidentale dell’Europa centrale, alcuni decenni fa, insegnava un filosofo che nulla più aveva di vivo, che tutto aveva trasformato in concetti. Egli credeva di poter formare la vita in concetti. Così egli insegnava, e aveva specialmente molti allievi russi — la sua filosofia si attuò nel bolscevismo. Lui stesso era ancora un bravo borghese e non aveva ancor idea di che cosa fosse riposto in germe nella sua filosofia. Ne sorse poi quella singolare pianta che è cresciuta nel bolscevismo. Dapprima nel pensiero astratto, nell’educazione intellettualistica, venne posto in germe il bolscevismo nei discepoli delle università occidentali. Come chi non s’intende di piante ignora che cosa sbocci da un germe, così quella gente nulla sapeva di quel che sarebbe cresciuto da quel germe. Se ne avvedono soltanto quando nascono le messi, perché appunto oggi gli uomini più nulla capiscono dei grandi nessi della vita.

 

Questa è la caratteristica generale della moderna educazione intellettualistica: che essa distoglie totalmente dalla vita. E lo vediamo considerando le cose esteriori semplicemente come esse sono. Davvero in nessun campo noi siamo più compenetranti da ciò che è « vita ». Prima della guerra mondiale avevamo dei libri. Ma ciò che in quei libri è contenuto lo si sa, lo si possiede soltanto finché si scrive o si legge il libro. Altrimenti esso resta nella biblioteca. Là è sepolta la vita dello spirito. E soltanto se, per esempio, qualcuno deve preparare una tesi di laurea, deve farselo dare. Ma anche questo avviene del tutto esteriormente, e l’interessato è lieto che il contenuto non debba penetrare in lui più in là della sola testa. E così è dappertutto.

 

Guardiamo ora invece nella vita. Abbiamo la viva vita economica, la vita del diritto, la vita spirituale. Essa si svolge, ma noi non ci riflettiamo più, non pensiamo assolutamente più le realtà interiori. Pensiamo in registri bancari. Nella vita bancaria che cosa è ancora contenuto della nostra vita economica, sovente anche della nostra vita spirituale, quando ad esempio vi sono registrati i conti delle scuole? Vi sono contenute le cifre astratte nei loro reciproci valori di bilancio. E come agisce tutto ciò nella vita? Agisce in modo che l’uomo non è più congiunto con quanto egli fa. A poco a poco si arriva al punto che gli è indifferente diventare commerciante di granaglie o d’indumenti; ché gli possono piacere pantaloni o qualsiasi altra cosa. Egli calcola soltanto quanto l’affare gli rende, non guarda che alle cifre astratte per vedere quale settore gli sia più redditizio. La banca è subentrata al posto della vita economica vivente. Si preleva il denaro dalla banca, ma per il resto la si lascia lavorare in astratto. Tutto si è trasformato in un’esteriorità astratta. Nemmeno in quanto uomini, non si resta perciò inseriti nelle cose. Quando le banche vennero fondate, esse erano ancora vincolate agli uomini; questo era ancora abituale per il fatto che, precedentemente, l’uomo era inserito nel vivente lavoro dell’esistenza. Era ancora così nella prima metà del secolo XIX. Allora il capo di una banca imprimeva ancora ad essa il suo carattere personale, vi era ancora inserito con la sua volontà, viveva ancora in essa come personalità.

 

Volentieri racconto qui un aneddoto di come una volta si comportò il banchiere Rothschild, quando un rappresentante del re di Francia volle farsi fare un prestito da lui. Quando arrivò l’inviato del re di Francia, Rothschild era occupato a parlare con un commerciante di pelli. L’inviato, che veniva per un prestito di Stato, si fece annunciare, e Rothschild, che aveva ancora da trattare col commerciante di pelli, gli fece dire che aspettasse. Il ministro non si capacitava come si potesse far attendere lui, l’inviato del re di Francia, e si fece annunziare un’altra volta. Rothschild disse allora: « Adesso ho da trattare affari di pelli, e non di Stato ». Al che il ministro s’infuriò talmente che spalancò la porta della stanza di Rothschild, non volendo più aspettare, vi si precipitò dentro e disse: « Io sono l’inviato del re di Francia! » Rothschild replicò: « Prendetevi una sedia, per favore ! » L’inviato credette di aver udito male e ripetè : « Io sono l’inviato del re di Francia », ché non poteva capire come, in tale situazione, gli si potesse offrire una sedia. Al che Rothschild gli rispose: « Prendetene due, allora! »

 

Così un tempo agiva ancora l’individualità, perché era presente. È ancor presente oggi? Soltanto in casi eccezionali! Per esempio se qualcuno turba l’ordine pubblico. Altrimenti, dove prima era l’individuo, c’è la « società per azioni », la società per azioni impersonale. Oggi, in quanto individui, non si è più dentro le cose. Se si domanda che cosa sia una società per azioni, si può dire: Una società in cui c’è gente che oggi è ricca, e domani povera. Ché le cose prendono oggi un andamento del tutto diverso che in passato: oggi si ammucchiano, domani si disperdono di nuovo; in quest’andamento di cose gli uomini vengono buttati dentro e fuori, e il denaro lavora per se stesso. Così oggi avviene che l’uomo è lieto se giunge a poter investire una certa quantità di denaro. Si compera allora un’automobile, e dopo qualche tempo se ne compera un’altra. Poi il corso delle cose procede, e l’uomo arriva ad un punto dove il denaro si assottiglia; egli vende quindi una delle automobili, e più tardi anche l’altra. Tutto dipende dal fatto che l’uomo non domina più la vita economica, la vita degli affari; egli viene estromesso dal corso obiettivo della vita degli affari. Ho esposto questi concetti per la prima volta nel 1908 a Norimberga, ma la gente non ne ha capito molto. Proprio come dicevo a Vienna nella primavera del 1914: tutto tende ad una gran catastrofe mondiale perché gli uomini escono sempre più dal concreto e sempre più si addentrano nell’astratto, e perché si può vedere come alla fine l’astrazione debba condurre al caos: Ma gli uomini non lo vollero capire.

 

Però, se si ha a cuore l’arte educativa, bisogna anzitutto riflettere al fatto che si deve lavorare per tornare dall’astratto di nuovo nel concreto, che quel che conta è l’uomo e che quindi per il maestro importa meno sapere la geografia e la storia, l’inglese o il francese, che non piuttosto conoscere l’uomo per edificare insegnamento ed educazione su di un’effettiva conoscenza dell’essere umano. Allora, per conto mio, egli può mettersi a sedere e cercarsi fuori da un’enciclopedia il materiale per la lezione; ché uno che faccia così, ma che in quanto educatore poggi su una reale conoscenza dell’uomo, in iscuola sarà pur sempre miglior maestro di chi abbia sostenuto bene i suoi esami, ma sia lungi da una vera conoscenza dell’uomo.

 

Perveniamo così all’importanza dell’arte pedagogica per il mondo; sappiamo così come nella civiltà esteriore si rispecchi quanto avviene nella scuola. Presso i Greci lo si poteva vedere facilmente. Il ginnasta si mostrava dappertutto nella vita pubblica. Quando il Greco – indifferente come egli fosse – stava nell’agorà, si vedeva che allora si educava ginnasticamente. Presso i Romani, almeno nelle forme esteriori, si esprimeva quello che viveva nella scuola. Oggi però quello che vive nella scuola si manifesta nella vita soltanto mediante il fatto che la vita si stacca sempre più da noi, che noi esuliamo dalla vita invece di crescervi dentro, che i nostri registri contabili, non immaginiamo neppure quanto, hanno una loro propria vita che ci sfugge perché non abbiamo alcun potere su di essi. Tutto avviene automaticamente, tutto conduce una vita astratta, puramente numerica. E se guardiamo gli uomini che sono giunti ad un’« istruzione », tutt’al più li riconosciamo ancora per il fatto che portano o non portano gli occhiali, cioè da un limitato, piccolo organo. La pedagogia di oggi ha appunto l’importanza mondiale di seppellire gradualmente l’importanza del mondo.

 

Mondo, mondo reale, dobbiamo riportare nella scuola! Ma per questo, in quanto maestri, bisogna stare nel mondo, bisogna avere un interesse vivente per tutto quello che vi è nel mondo. Soltanto quando il maestro diventi un uomo del mondo, nella scuola potrà vivere anche il mondo. E il mondo deve vivere nella scuola; deve vivervi, anche se dapprima si manifesta nei giuochi, poi in modo estetico e poi ancora in modo preparatorio. Per questo oggi è assai più necessario indicare questi elementi di atteggiamento e di sentimento nella pedagogia moderna che non di escogitare sempre nuovi metodi. Molti metodi rimasti dal passato sono buoni. Quanto ho detto non è affatto per mettere nell’ombra gli eccellenti pedagoghi del secolo XIX che io pienamente riconosco. Vedo anzi nei pedagoghi del secolo XIX uomini di gran genio e capacità, ma essi erano figli dell’epoca intellettualistica; con la loro capacità, essi hanno contribuito all’intellettualizzazione della nostra epoca. Oggi gli uomini non sanno quanto essi siano intellettualizzati. L’importanza per il mondo di una pedagogia nuova deve consistere nel superare l’intellettualizzazione. Allora le varie branche della vita umana si ricongiungeranno; allora si comprenderà che cosa significasse un tempo il fatto che l’educare era considerato un guarire e che ciò era in connessione col significato universale dell’entità umana. Si pensava che l’uomo singolo, in quanto vien generato nell’esistenza fisica, fosse propriamente di un gradino al di sotto dell’entità umana e che quindi egli dovesse esser educato, sanato, fino ad essere un uomo. L’educare era un guarire, era di per sé una parte dell’azione terapeutica, igienica. Oggi tutto è diviso. Si vorrebbe porre il medico di scuola accanto al maestro, però esteriormente separati. Ma la cosa non va. Mettere il medico scolastico « accanto » al maestro, equivale press’a poco a cercare dei sarti, uno dei quali cucia il lato sinistro della giacca, e un altro quello destro ; senza sapere chi poi unisca le due parti separate. Così, quando si seguono le disposizioni del maestro del tutto ignaro di medicina – la parte destra della giacca – e poi le disposizioni del medico del tutto ignaro di pedagogia – la parte sinistra della giacca – non si sa chi poi le unisca. Si tratterà quindi di superare i sarti della parte sinistra e quelli della parte destra, e di avere di nuovo il sarto unitario. Di solito si notano tali incompatibilità soltanto ai margini estremi della vita, non invece là dove la vita dovrebbe realmente scaturire. Perciò si arriva oggi così difficilmente anche soltanto a comprendere che cosa intenda la nostra Scuola Waldorf. Essa non si prefigge un settario appartarsi dalla vita, ma appunto il più intenso addentrarsi in essa.

 

In un così breve ciclo di conferenze, naturalmente si possono dare soltanto brevi accenni di tutto. È quello che ho cercato di fare, e spero così di aver pur dato qualche spunto, qualche indicazione; nella conferenza finale vedrò di concludere tutto il corso.