Logica della realtà e logica concettuale

O.O. 186 – Esigenze sociali dei tempi nuovi – 14.12.1918


 

Sommario: Logica della realtà e logica concettuale. Scarsa sensibilità russa per la ricerca filosofica astratta della verità. Il bolscevismo e le filosofie di Avenarius e Mach. L’umanità si ribellò contro schiavitù e servaggio della gleba; ora si ribella contro la vendita della forza-lavoro. Occorre staccare la forza-lavoro dalle merci.

 

Oggi vorrei fare alcune osservazioni a proposito di quelle cose che da parecchio tempo ci siamo poste per compito. Se si pensa al modo in cui la scienza dello spirito qui intesa può rispondere ai problemi che sono anche problemi della vita, bisogna anzitutto aver cura di rendersi ben conto che la scienza dello spirito, e con essa il nostro tempo e specialmente l’avvenire, pongono esigenze diverse al modo di pensare dell’uomo, rispetto a quel che si è abituati dalle consuetudini di pensiero dell’immediato passato ed anche del presente, consuetudini derivate dalla scienza e dalla sua divulgazione. Si sa che tutto quanto la scienza dello spirito ha da dire su qualsiasi argomento, quindi anche in campo sociale e particolarmente in campo sociale, è l’espressione di risultati d’indagine spirituale che non vengono ottenuti soltanto in modo razionalistico, astratto, ma che sono attinti dalla realtà spirituale. Si sa che essi possono essere compresi usando semplicemente il sano raziocinio, ma che si possono soltanto trovare salendo dalla coscienza normale, comprendente anche il pensiero razionale, astratto, l’indagine scientifica e così via, alla coscienza immaginativa, ispirata e intuitiva. Ciò che si manifesta attraverso l’immaginazione, l’ispirazione, l’intuizione, viene formulato in pensieri e in idee che i si possono esprimere, e forma il contenuto della scienza che è data dall’indagine ad orientamento antroposofìco.

In merito al ritrovamento della verità bisogna appunto assuefarsi ad avere idee differenti da quanto non si sia abituati , ed è proprio questo a rendere così difficile ai nostri contemporanei il passaggio dal consueto pensiero odierno alla scienza dello spirito antroposofica. È facile che al presente l’uomo si chieda se si possa dimostrare qualcosa. La domanda è certamente molto giustificata, ma bisogna anche considerarla dal punto di vista della realtà. Se s’intende che, in base ai concetti già raggiunti ai concetti correnti, ai concetti che si sono assorbiti attraverso l’educazione e la vita, si possa dimostrare in qualche modo ci che l’indagatore dello spirito espone, allora spesso si sbaglia perché i risultati scientifico-spirituali sono attinti alla realtà

 

Per mezzo di un esempio molto banale, semplice, vogli chiarire come per il pensiero comune, che si svolge in modo puramente astratto, possa nascere l’errore. Da un concetto deve derivarne certo un altro; e se poi si osserva concettualmente che ciò non avviene, si pensa che il concetto sia errato, mentre conformemente alla realtà la cosa è tuttavia giusta. Conclusioni reali non coincidono con semplici conclusioni di pensiero; la logica della realtà è qualcosa del tutto diversa della logica del pensiero. Siccome nella nostra epoca il pensiero metafisico, giuridico, ha afferrato tutti, si crede che tutto debba essere compreso da ciò che si è avvezzi a considerare logica di pensiero. Ma così non è. Si abbia per esempio un cubo di trenta centimetri di lato. Se qualcuno dice che esso si trova in questa sala ad un metro mezzo al di sopra del pavimento, si può affermare con la semplice logica, senza essere nella stanza dove il cubo si trova, che esso deve poggiare su qualcosa, che ci deve essere un tavolo di altezza adeguata perché il cubo non può librarsi per aria. Si può dunque giungere a questa conclusione anche senza essere presenti, senza avere l’esperienza diretta.

 

Ma supponiamo che sul cubo ci sia una palla. Questo non si può dedurre a mezzo del pensiero, lo si deve vedere, osservare. Corrisponde tuttavia alla realtà. La realtà è dunque attraversata da entità, da cose che hanno naturalmente una logica intrinseca, ma una logica che non coincide con la semplice logica concettuale. La logica derivata dall’osservazione si distingue dalla semplice logica concettuale.

 

Ma ciò comporta che ci si adatti una buona volta a non chiamare semplicemente dimostrazioni le cosiddette deduzioni logiche alle quali il pensiero odierno è abituato; altrimenti non ci si ritrova con le cose. Nel campo che ormai tratto da settimane, nel campo della struttura sociale della società umana, risultano moltissime esigenze semplicemente dalle premesse esposte in merito alla triplice articolazione della società che è necessaria per l’avvenire. Per esempio ne risulta un determinato sistema di tassazione. Lo si può trovare però soltanto ricorrendo alla logica derivata dall’osservazione. Con la sola logica del pensiero non ce la si fa. Da qui la necessità di seguire chi sa qualcosa in merito; una volta che la cosa sia stata detta, il sano raziocinio umano può infatti decidere, dopo aver considerato tutti gli aspetti. Il sano raziocinio umano sarà sempre sufficiente; esso può sempre controllare quel che dice l’indagatore dello spirito. Ma il sano raziocinio umano è diverso dalla logica del pensiero che si è affermata precisamente a seguito dell’attuale modo di pensare imbevuto di scienza. Da ciò risulta però che la scienza dello spirito non deve agire sull’uomo nel senso di dargli semplicemente un certo numero di concetti, e di fargli poi credere di poterli utilizzare come qualcos’altro che si apprenda dalla scienza o quasi. Ciò non è affatto possibile né pensabile. Se lo si pensasse si penserebbe in modo errato. La scienza dello spirito fa sì che il modo di pensare, di comprendere il mondo, diventi per l’uomo del tutto diverso da prima, che l’uomo impari non solo a comprendere a fondo, ma anche in maniera diversa. Quando ci si compenetra della scienza dello spirito bisogna considerare anzitutto, naturalmente con l’occhio spirituale, che ci si può sempre chiedere se, per il fatto di accogliere la scienza dello spirito (non la chiaroveggenza, ma la scienza dello spirito) si impari a guardare il mondo in modo diverso da quanto non lo si guardasse prima. Chi considera la scienza dello spirito come una somma di nozioni, potrà naturalmente conoscere moltissime cose, ma se penserà allo stesso modo di prima non accolto la scienza dello spirito. Avrà accolto la scienza dello spirito soltanto se in certo senso avrà modificato il modo, la formazione, la struttura del pensiero; se rispetto a prima sarà diventato per così dire un altro. Ciò è semplicemente effetto della potenza, della forza dei pensieri che si accolgono per mezzo] della scienza dello spirito.

 

Ora, nel caso del pensiero sociale, è indispensabile che l’uomo resti compreso da questa esigenza, che può aver luogo soltanto per mezzo della scienza dello spirito, perché quanto ho messasi in evidenza ieri può essere inteso soltanto in questa luce. Ieri ho fatto notare che i professori di economia politica, quelli che fanno conoscere agli uomini i concetti economici, sono in realtà del tutto senza risorse nei confronti della realtà. Perché sono senza risorse? Perché, con il pensiero ad orientamento scientifico, essi vogliono comprendere ciò che con quel pensiero non può essere compreso. Soltanto quando ci si adatterà a comprendere la vita sociale diversamente che attraverso il pensiero formato in modo scientifico, si potranno trovare idee sociali feconde; idee che si possono realizzare, che sono appunto feconde per la vita.

 

Già un’altra volta ho attirato l’attenzione su qualcosa che forse potrà aver meravigliato qualcuno, e che richiede un maggior approfondimento. Ho fatto presente che la conclusione logica, che si è inclini a trarre da certi concetti o anche una concezione del mondo, non sempre corrisponde a ciò chi per pratica di vita deriva da tale concezione. Intendo dire cl qualcuno può avere un certo numero di concetti o addirittura tutta una concezione del mondo; si può considerare in modo puramente concettuale tale concezione, forse dedurne altre conclusioni ancora, conclusioni di cui si presume con ragione cha siano logiche, e si può credere che le conclusioni dedotte logicamente debbano derivare logicamente dalla concezione di cu si tratta. Ma ciò non è affatto necessario; la vita può trarre conclusioni del tutto diverse. Che cosa significa che la vita trae conclusioni diverse? Supponiamo che ci si formi una concezione del mondo apparentemente molto idealistica. Supponiamo che tale concezione a ragione sembri idealistica, che contenga meravigliose idee idealistiche. Può accadere il caso, a seconda del tipo di concezione, che si istruisca il proprio figliolo o che si faccia subire in modo vivo ai propri allievi di una certa età l’influenza di tale concezione. Probabilmente si ammetterà che, dalla propria concezione, derivino soltanto conseguenze logiche. Ma se la si immerge nell’anima di un altro, se la si considera vita che trapassa da un uomo ad un altro superando anche abissi, può accadere qualcosa la cui necessità può essere spiegata soltanto dalla scienza dello spirito. Ci si forma cioè una concezione che sembra idealistica, con ragione si pensa che tutto quanto si deduce logicamente da essa debba a sua volta essere idealistico, grande e bello, e si insegna tale concezione ad un figlio, ad una figlia o ad un’allieva, e si constata che poi costoro diventano dei discoli, dei mascalzoni. Ciò può accadere. Dalla concezione idealisticamente conformata può derivare nella vita la scelleratezza.

 

Questo è naturalmente un caso limite che però potrebbe anche verificarsi, e che serve solo a far capire che la vita trae conclusioni differenti del mero pensare. Siccome però gli uomini non lo vedono, poiché non sono disposti a trasformare veramente in coscienza ciò che prima avveniva istintivamente, essi sono così terribilmente lontani dalla realtà. Con gli istinti dei tempi passati si aveva la sensazione che in qualche luogo sarebbe sorto qualcosa. Con gli istinti non si è inclini a premettere ciò che è razionalmente logico. Gli istinti agivano già logicamente. Ma al presente si ha una certa insicurezza, e nel periodo dell’evoluzione dell’anima cosciente, se non si crea un contrappeso che consiste nell’accogliere coscientemente anche la logica della realtà, tale incertezza diventa sempre maggiore. La si accoglie invece nel momento in cui si considera veramente nel suo essere, nei suoi processi, lo spirito che sta dietro alla realtà sensibile.

 

Voglio fare un esempio pratico che possa illustrare quanto ho appunto spiegato teoricamente. Ma nello stesso tempo esso dovrà illustrare anche qualcosa d’altro. Esso dovrà illustrare quanto si possa errare considerando le cose secondo i loro sintomi esteriori. Nelle conferenze delle scorse settimane ho parlato di sintomatologia nell’osservazione storica. La sintomatologia è qualcosa che la gente deve far propria se vuole pervenire] alla realtà partendo da ciò che è esteriore, dai fenomeni.

 

Uno scrittore e filosofo russo, Berdjajev, ha scritto recentemente un saggio molto interessante sull’evoluzione filosofica del popolo russo dalla seconda metà del secolo diciannovesimo ai nostri giorni. Due cose sono molto notevoli nel saggio di Berdjajev. L’una è che l’autore parte da uno strano preconcetto da cui risulta che egli non penetra le verità che dovrebbero essere per noi molto correnti, verità secondo le quali nell’oriente russo, per il sesto periodo postatlantico, per il periodo dello sviluppo del sé spirituale, sono in procinto di sorgere elementi del tutto nuovi, di cui oggi esistono solo i germi. Poiché non lo sa, egli giudica un punto in modo del tutto falso. Pensa cioè che sia veramente curioso — e come filosofo russo lo dovrebbe invece sapere — che in Russia, diversamente che nell’occidente europeo, non si abbia veramente interesse in campo filosofico per quella che in occidente si chiama verità. Ci si interessa anche molto alla filosofia dell’occidente, ma in quanto essa ricerca la «verità» non la si capisce bene; si accoglie la verità filosofica in quanto serve alla vita, in quanto è utile per un’immediata concezione della vita. Il socialista, per esempio, si interessa alla filosofia perché crede che qualche concezione filosofica dia una giustificazione del suo socialismo. Così l’ortodosso si interessa a qualche concezione filosofica, non però come l’occidentale perché essa ricerca la verità, ma perché gli dà una base, una giustificazione della sua fede ortodossa, e così via. Berdjajev considera ciò un grave difetto dell’odierna anima popolare russa. Egli pensa che gli occidentali siano molto progrediti in quanto non stimano che la verità si debba adeguare alla vita, ma che la verità è verità, e che la vita si debba adeguare ad essa. A questo aggiunge decisamente la curiosa tesi — curiosa naturalmente non per l’uomo odierno, perché questi la trova ovvia, ma molto curiosa per lo scienziato dello spirito — che il socialista russo non ha il diritto di usare il termine « scienza borghese » perché la scienza borghese ha per contenuto la verità, perché essa ha impostato finalmente il concetto di verità, e che per questo è appunto verità irrefutabile. È pertanto un difetto dell’anima popolare russa se essa crede che la verità possa essere superata.

 

Berdjajev condivide questo punto di vista non solo con tutto il mondo dei professori, ma anche con i loro seguaci e quindi per esempio con tutta la borghesia occidentale e centro-europea, più che mai con la nobiltà, e così via. Berdjajev non sa appunto che quanto ora si trova in germe nell’anima popolare russa, si manifesta spesso proprio per questo in modo tumultuoso e caricato. In questa concezione della verità, oggi appunto errata, dal punto di vista della vita vi è proprio anche un germe per una concezione futura; e in avvenire le cose si sistemeranno. Infatti quando si sarà sviluppato ciò che oggi in germe si sta preparando, vale a dire l’avvio dell’evoluzione umana al sé spirituale, quanto oggi viene chiamato verità avrà in effetti una forma del tutto diversa. Oggi ho attirato l’attenzione su alcune particolarità. Per esempio questa verità porterà alla coscienza dell’uomo — e l’uomo odierno non lo può affatto comprendere — che la logica dei fatti, la logica della realtà, la logica derivata dall’osservazione, è diversa della logica concettuale. Allora la trasformata rappresentazione della verità avrà anche altre caratteristiche. Questa è una delle cose che si vedono manifestarsi in Berdjajev, ed è molto strana perché fa vedere quanto poco uno scrittore come questo sia addentro nel vero senso dell’evoluzione del nostro tempo; ed è un senso che egli potrebbe cogliere molto bene proprio nel suo popolo, ma che non può riconoscere a causa del preconcetto che ho indicato.

 

In modo del tutto diverso si deve giudicare un altro problema. Dal senso del suo saggio risulta che ovviamente Berdjajev vede con molto disagio il sorgere del bolscevismo. Ora uno, a seconda che sia bolscevico o no, gli può dare ragione o torto. Si tratta di un argomento nel quale non mi voglio addentrare, perché voglio esporre fatti e non criticare. L’importante è che Berdjajev, dal punto di vista che la verità e la filosofia dipendono dalla vita, pensa che, come negli anni sessanta del secolo scorso il materialismo ha trovato accesso in Russia e si è creduto al materialismo perché lo si è trovato utile alla vita, così negli anni settanta si è creduto per esempio al positivismo di Auguste Comte. Poi in Russia, presso gente che apparteneva alla intellighentia, trovarono accesso altre concezioni, per esempi anche quelle di Nietzsche. Berdjajev si domanda ora quale filosofia si sia affermata presso i bolscevichi appartenenti all’intellighentia. Effettivamente una filosofia si è affermata. Ma Berdjajev è in realtà del tutto perplesso per quanto riguarda il combaciare di questa particolare filosofia col bolscevismo. Non può affatto comprendere che il bolscevismo consideri propria filosofia le dottrine di Avenarius e di Mach.

 

Se si fosse detto ad Avenarius ed a Mach che la loro filosofia sarebbe stata accettata proprio da gente come i bolscevichi essi sarebbero stati più malamente sorpresi di Berdjajev. S rivolterebbero nella tomba, perché ambedue sono già morti se dovessero immaginare di venir considerati filosofi uffici; dei bolscevichi. S’immagini il bravo borghese Avenarius che pensava di lavorare con i concetti più maturi, che naturalmente supponeva di poter essere compreso da gente per bene, che non faceva del male a nessuno in modo bolscevico, compreso da gente ben costumata, da gente costumata come ce la si figurava fine del secolo scorso. Avenarius pensava che la sua filosofia potesse trovare seguaci solo fra gente di questo genere. Ebbene proprio se ci si addentra nel contenuto della filosofia di Avenarius, non si capisce che egli sia il filosofo ufficiale dei bolscevichi. Che cosa pensa infatti Avenarius? Egli dice: «La gente vive col preconcetto che qua dentro, nella mia testa o nella mia anima o chissà dove, stiano soggettivamente i concetti, le percezioni, e che fuori ci siano gli oggetti. Ma questo non è esatto. Se fossi solo al mondo non scoprirei mai la differenza fra oggetto e soggetto. La scopro soltanto perché esiste anche dell’altra gente. Guardando da solo un tavolo non mi verrebbe di pensare che il tavolo sia fuori nello spazio e che un’immagine di esso sia nel mio cervello, ma avrei il tavolo e non distinguerei fra soggetto ed oggetto. Li distinguo soltanto perché se io ed un altro osserviamo un tavolo, io mi dico che quello vede il tavolo, io lo vedo, e nella mia testa vi è quindi questa percezione. Mi vien quindi da pensare che anch’io senta ciò che egli sente ». Avenarius si muove dunque in mezzo a simili considerazioni puramente teoriche, puramente astratte, gnoseologiche; e non voglio descriverle tutte perché si direbbe che non interessano affatto. Nel 1876 egli scrisse il libretto Filosofia come pensiero del mondo secondo il principio della minima misura di forza. Partendo da premesse quali da me appunto ora esposte, egli dimostra che i concetti, che abbiamo in quanto uomini, non hanno affatto un valore reale, e che creiamo dei concetti solo allo scopo di tenere insieme il mondo economicamente. Per esempio il concetto « leone » o il concetto che esprime una legge naturale, non è nulla di reale; secondo Avenarius non richiama nemmeno qualcosa di reale, ma sarebbe antieconomico, avendo visto nel corso della vita cinque, sei o trenta leoni, se dovessi rappresentarmi tutti questi leoni ; allora risolvo il problema più economicamente e mi faccio un concetto unico che comprenda tutti e trenta i leoni. Tutte le forme di concetto rappresentano solo un’economia soggettiva interiore.

 

Mach ha una concezione simile. Mach è quello di cui ho raccontato* che, stanco, era salito su un omnibus in cui c’era uno specchio. Era dunque salito su di un omnibus ed aveva visto un uomo avanzare in senso opposto. L’uomo gli aveva fatto un’impressione assai poco simpatica, ed egli aveva formato il relativo pensiero. Poi si era accorto che c’era uno specchio in cui aveva visto se stesso. Con questo aveva solo voluto accennare alla scarsa conoscenza che si ha di se stessi, anche per quanto riguarda la propria forma esteriore umana, alla scarsa autoconoscenza degli uomini. Egli racconta anche un altro caso: passando accanto ad una vetrina aveva incontrato di nuovo se stesso, ed era diventato furioso per il fatto d’imbattersi in un tipo così brutto e insignificante. Lo stesso Mach, di cui ho raccontato questi episodi, pur agendo in modo un po’ plateale ha una concezione uguale a quella di Avenarius. Egli dice che non esistono rappresentazioni né soggettive né oggettive, ma che ci sono solo contenuti di sensazioni. Per esempio io stesso sono per me soltanto contenuto di sensazione. La tavola fuori di me è contenuto di sensazione, il mio cervello è contenuto di sensazione, tutto è soltanto contenuto di sensazione. Perfino i concetti che la gente si fa esistono soltanto per economia. Forse nell’anno 1881 o 1882, io ero presente alla seduta dell’Accademia delle Scienze di Vienna, quando Mach tenne la sua conferenza dal titolo: La natura economica dell’indagine fìsica» sull’economia del pensiero. Devo dire che ebbi una terribile impressione — allora ero molto giovane, sui vent’anni — nel sentire che esistesse gente di un tale radicalismo, gente che non aveva un’idea del fatto che l’anima riceve il primo annuncio, la prima manifestazione del soprasensibile attraverso il pensiero, gente che negava talmente i concetti da vedere in essi un risultato dell’attività dell’anima, ma solo a fini economici. Tutto ciò si dissolve in Mach e in Avenarius nei limiti — non mi si fraintenda — di un pensiero del tutto decente. Non è affatto strano premettere che questi due signori ed i loro seguaci sono dei borghesi benpensanti, lontanissimi dall’avere delle idee che abbiano solo un accenno praticamente radicale o addirittura rivoluzionario. Ed ora sono diventati i filosofi dei bolscevichi. Mai si sarebbe pensata una cosa simile. Leggere il libricino di Avenarius sulla misura più piccola, potrebbe forse interessare, è scritto abbastanza bene: se però si incomincia a leggere la sua Critica dell’esperienza pura si smette subito, perché la si trova noiosissima. È scritta in tono abbastanza professorale, e non vi è alcuna possibilità di ricavarne qualcosa di bolscevico. Non se ne ricaverebbe neppure una concezione pratica del più lieve radicalismo.

 

So naturalmente che chi prende dei sintomi per realtà, potrà sollevare una contestazione. Un incrollabile positivista direbbe che il problema si spiega in modo semplicissimo, che i bolscevichi hanno fatto venire tutte le loro persone intelligenti da Zurigo, che Avenarius insegnava a Zurigo, e che coloro che ora, da persone intelligenti, esercitano un’attività fra i bolscevichi furono suoi allievi. Inoltre vi insegnava un allievo di Mach, il giovane Adler, che poi in Austria assassinò Sturgkh. Lo frequentavano numerosi seguaci di Lenin, forse lo stesso Lenin; essi accolsero queste cose che poi si sono diffuse. È quindi un puro caso.

 

So naturalmente che incrollabili e massicci positivisti possono spiegare così il fenomeno. Di recente ho anche detto che si può ricondurre tutta la personalità poetica di Robert Hamerling al fatto che il preside Kaltenbrunner dimenticasse la domanda di Hamerling intesa ad avere un posto d’insegnante a Budapest, in modo che quel posto toccò a qualcun’altro. Se Kaltenbrunner non avesse dimenticato la domanda, negli anni sessanta Hamerling sarebbe andato in qualità di professore di ginnasio a Budapest e non a Trieste. Se ora si considera che cosa è diventato Hamerling per il fatto di aver trascorso dieci anni della sua vita a Trieste sull’Adriatico, si capisce che tutta la vita poetica di Hamerling è una conseguenza di quel fatto. Esteriormente cioè Kaltenbrunner, del ginnasio di Graz, dimenticò la domanda e quindi provocò l’andata di Hamerling a Trieste. Appunto queste cose non si devono considerare realtà, ma sintomi per ciò che esprimono interiormente.

 

Il fatto che, secondo Berdjajev, i bolscevichi abbiano elevato a loro idoli i bravi filosofi borghesi Avenarius e Mach, ben richiama a quanto ho spiegato oggi all’inizio: che la realtà della vita, la realtà osservata, è diversa dalla realtà logica. Naturalmente da Avenarius e da Mach non deriva per niente il fatto che essi diventassero i filosofi ufficiali dei bolscevichi. Ma quel che si può dedurre logicamente da una cosa ha soltanto un valore sintomatico esteriore. Si scopre appunto la realtà soltanto per mezzo dell’indagine che ha per oggetto la realtà stessa; e nella realtà agiscono gli esseri spirituali.

 

Ora potrei raccontare molte cose che senz’altro farebbero sembrare una necessità che filosofie come quelle di Avenarius e di Mach conducano, conformemente alla vita, alle conclusioni più radicali del socialismo attuale. Dietro le quinte dell’esistenza ci sono infatti gli stessi spiriti che fanno stillare nella coscienza umana la filosofia di Avenarius o di Mach, che fanno stillare nella coscienza umana ciò che per esempio conduce al bolscevismo. Solo che logicamente non si può derivare una cosa dall’altra. Ma la realtà lo fa. La realtà è qualcosa che va accolta profondamente nel cuore per ricordare quanto sempre mette in evidenza. Al presente è necessario che si trovi il passaggio alla vera realtà dalla sterpaglia semplicemente logica di cui oggi illudendosi, si pensa che la realtà sia compenetrata. Se si osservassero i sintomi, se si sapessero valutare i sintomi, allora la cosa forse diventerebbe talvolta più seria. A questo proposto voglio far presente qualcosa cui chi non è scienziato dello spirito non presta tanta attenzione perché la considera piuttosto una frase, qualcosa di indifferente. Per esempio Mach, che è un positivista, un positivista radicale, scopre che in realtà tutto è sensazione. La dottrina che fu insegnata anche dal giovane Adler a Zurigo, e che procurò molti seguaci a lui, a Mach e ad Avenarius, sostiene che tutto è sensazione, che non abbiamo diritto di distinguere fra fisico e psichico. La tavola che si trova fuori di noi è fisico-psichica altrettanto esattamente quanto sono fisico-psichiche le mie rappresentazioni; ed i concetti esistono solo per economia.

 

Ma Mach presentava la caratteristica di ritrarsi talvolta istintivamente di fronte alla propria concezione del mondo, dalla sua concezione radicale, positivistica. Ritraendosi pensava che, se anche si rendeva conto di come, secondo tutte le moderne conquiste, non avesse senso sostenere l’esistenza di qualcos’altro al di fuori della propria sensazione, o dover distinguere fra fisico e psichico, tuttavia tornava sempre ad essere indotto, avendo dinanzi a sé il tavolo, non solo a parlare di sensazione ma a credere che fuori di lui vi fosse fisicamente dell’altro. D’altra parte, avendo una rappresentazione, una sensazione, un sentimento, non si ha solo la percezione, il fatto che si svolge, il fenomeno, ma si crede che l’anima sia all’interno e l’oggetto all’esterno; sebbene in base alla scienza che ci si può conquistare si sappia che ciò non è giustificato. Ci si sente indotti a fare questa distinzione. Che cos’è questo in realtà? Mach si chiede come avvenga che tutto ad un tratto si debba supporre che nel proprio interno ci sia qualcosa di animico e all’esterno qualcosa di esteriore all’anima. Si sa invero che questa non è una distinzione. Si è indotti a pensare qualcosa di diverso rispetto a quel che dice la scienza. Così pensa a volte Mach quando si ritrae dinanzi alle cose, così si legge nei suoi libri. Egli fa un’altra osservazione, sostenendo che talvolta si ha la sensazione, il dubbio, di venir presi in giro da uno spirito maligno. E crede che sia così.

 

So che molta gente sorvola su questo passo come su una semplice frase. Ma un passo come questo è sintomatico. Talvolta dall’anima fa capolino lo stato di fatto reale. È lo spirito arimanico che porta in giro gli uomini, e così essi pensano come Avenarius e Mach. In tali momenti Mach si accorge dello spirito arimanico. È il medesimo spirito arimanico che agisce nel modo di pensare bolscevico, e non c’è quindi da meravigliarsi che la logica della realtà abbia dato questo risultato. Si vede però che volendo comprendere le cose della vita, bisogna guardare più profondamente nella vita stessa. Proprio sul terreno sociale ciò non è di poco rilievo per il presente e per il prossimo futuro, perché le conclusioni non sono quelle tratte da Schmoller, Brentano, Wagner, Spencer, John Stuart Mill o da chiunque altro; sul terreno sociale bisogna trarre conclusioni corrispondenti alla realtà, conclusioni logicamente corrispondenti alla realtà. Il male è che nelle attuali tendenze agitatorie, e in ciò che esse hanno creato, nelle conclusioni meramente logiche, vivono delle illusioni; e le illusioni sono diventate realtà esteriore. A questo proposito voglio fare due esempi. Uno di questi è ben noto, ma va visto nella luce in cui lo pongo ora.

 

I socialisti di tendenza marxistica — spesso ed anche ieri ho detto che si tratta di quasi tutto il proletariato — influenzati da Marx dicono che l’economia, i contrasti economici, le opposizioni di classe che derivano da contrasti economici, sono la vera realtà; il resto è sovrastruttura ideologica. Ciò che l’uomo pensa ed esprime in poesia, che crea artisticamente, ciò che pensa dello Stato, della vita, di tutto, è soltanto il risultato del modo in cui vive l’economia. È per questo che il proletario, volendo creare un ordine nuovo, dice che non occorre un’assemblea nazionale costituente, perché in tal caso in essa si tornerebbe a avere borghesi e vi sarebbero anche sempre discorsi economicamente determinati dalla borghesia. E questo non serve ai proletari. Servono solo coloro che parlano come possono parlare menti proletarie, perché al giorno d’oggi sono costoro che devono strutturare il mondo. Per questo non è affatto necessario incominciare a convocare un’assemblea, ma bastano i pochi proletari che sono alla testa del movimento; essi devono esercitare la dittatura perché hanno la concezione proletaria e pertanto pensano quel che è giusto. Così Lenin e Trotzki in Russia, e Karl Liebknecht a Berlino respingono l’assemblea nazionale. Liebknecht sostiene che essa non diventerebbe altro che una nuova edizione della vecchia banda di chiacchieroni del parlamento.

 

Ebbene, che cosa sta alla base di tutto questo? Alla base vi è principalmente lo stesso motivo per il quale sedici anni fa venni cacciato dalla Scuola operaia di Berlino; ho raccontato l’episodio ricordando la storia della mia Filosofia della libertà. Vi insegnavo materie scientifiche, dirigevo esercizi di oratoria, ma insegnavo anche storia. La insegnavo come ritenevo dovesse essere insegnata obiettivamente, e questo soddisfaceva senz’altro i miei allievi. Se la mia attività avesse potuto continuare non sarebbe finita in modo innaturale, e so che avrebbe potuto portare buoni frutti. Ma i capi socialdemocratici scoprirono che non insegnavo il marxismo, la concezione marxistica della storia, ma che stranamente facevo perfino le eccentricità di cui ora voglio riferire, e che piacevano molto ai miei allievi. Dicevo per esempio che gli storici non possono capire la storia dei sette re di Roma: la considerano addirittura un mito, perché la successione dei sette re, come viene riferita da Livio, è come un sorgere ed un tramontare, una specie di salita fino al quarto re: Marzio, e poi una discesa fino alla decadenza, al settimo re: Tarquinio il Superbo. Spiegavo anche alla gente che si risale così ai più antichi tempi dell’evoluzione romana, ai tempi precedenti la repubblica e che il passaggio a questa consistette nella trasformazione degli antichi atavici regolamenti spirituali in un certo caos popolare, mentre in effetti nei tempi più antichi esisteva una saggezza come quella che si può chiaramente riscontrare presso i faraoni egizi. Non per niente si raccontava che Numa Pompilio fosse stato influenzato dalla Ninfa Egeria per porre in atto tutti gli ordinamenti. Spiegavo poi come allora la gente ricevesse delle ispirazioni per disporre effettivamente le successioni secondo le leggi attinte al mondo spirituale, non come accadde dopo, quando un potente seguì l’altro. Da qui la regolarità delle successioni dei faraoni ed anche quella dei re romani, che di conseguenza si susseguirono con Romolo, Numa Pompilio, e così via fino a Tarquinio il Superbo. Se ora si considerano uno dopo l’altro i sette princìpi, come li ho riassunti nel mio libro Teosofia, li possiamo ritrovare nella successione dei sette re. È qualcosa di cui ora accenno soltanto; qui basta che ne accenni; si tratta di qualcosa che, adeguatamente impostato, deve senz’altro essere considerato come una verità del tutto obiettiva; essa getta luce su questo elemento caratteristico che il comune storico materialista non può capire. Per questo motivo uno storico sincero, anzi uno storico scientifico, non considererà mai i sette re di Roma come realmente esistiti, ma come miti. Fino a questo punto ero arrivato, e la mia esposizione si valeva anche di altro; se si fanno le cose in modo adeguato esse hanno naturalmente anche un effetto che corrisponde alla realtà. Ma questa non è una concezione storica materialistica perché tale concezione richiede l’indagine sulle condizioni economiche, sulle relazioni fra coltivazione, allevamento e commercio, sulla fondazione delle città, sull’economia degli Etruschi, sul modo in cui essi commerciavano con i Romani in via di affermazione, e sullo sviluppo della situazione sotto l’influsso dell’elemento economico ai tempi di Romolo, Numa Pompilio, Tulio Ostilio e così via.

 

Naturalmente questo insegnamento non avrebbe potuto affermarsi così senz’altro. Ma la vera realtà mi venne in soccorso; appunto perché cercavo la vera realtà essa mi venne in soccorso. Certo non erano solo giovanissimi quelli che costituivano il mio uditorio. Fra di loro alcuni avevano già assorbito fino ad un certo grado il pensiero proletario, alcuni erano già saturi di tutti i preconcetti; non è affatto facile convincere gente come questa, anche quando si tratta di problemi che sono al di fuori del loro interesse. Una volta parlai per esempio di arte, spiegando che cosa sia l’arte, come essa agisca, e una signora dal fondo gridò improvvisamente: «Ebbene, il verismo, non è forse arte? ». Era cioè gente che non accettava le cose così, per autorità. Si trattava di trovare la via d’accesso a quelle persone, non già furbescamente, per vie oblique, ma attraverso il senso della realtà e della verità. Venne anche il momento di dover dire, non di potere ma di dover dire, che loro erano imbevuti dei concetti che corrispondono alla concezione materialistica della storia; secondo tale concezione tutto dipende dalle condizioni economiche, tutta la vita spirituale si basa solo sull’ideologia: una fata morgana che si afferma fondandosi sulle condizioni economiche. Marx lo ha spiegato in modo molto acuto ed ingegnoso. Ma perché è accaduto tutto questo? Perché lo ha spiegato e perché lo crede? Per il fatto che Marx ha considerato solo il suo immediato presente e non i tempi più antichi! Marx si basa solo sull’evoluzione storica umana a partire dal secolo sedicesimo. Era appunto l’epoca dell’evoluzione umana in cui la vita spirituale, in gran parte del mondo, era diventata espressione di condizioni economiche, anche se non esattamente come viene esposto da Marx. Non si può far derivare il goetheanismo dalla vita economica, e Goethe viene considerato anche da quella gente come uno che non ha nulla a che fare con la vita economica. Si potrebbe quindi dire che l’errore sta nel generalizzare ciò che vale per un certo periodo, in particolare per quello più recente. Spiegandoli nel senso della concezione materialistica della storia, si potevano comprendere soltanto gli ultimi quattro secoli.

 

Ma ora viene l’importante, e l’importante sta nel non procedere meramente con la logica concettuale; con questa logica è infatti difficilissimo aggirare i princìpi precisi di Marx; bisogna invece procedere con la logica della vita, della realtà, con la logica basata sull’osservazione. Risulta allora che nel corso dell’evoluzione, che dal secolo sedicesimo si è svolta in modo da poter essere interpretata secondo il materialismo storico, si ha un’importante involuzione, qualcosa che si compie invisibilmente, soprasensibilmente, al di sotto del sensibile visibile. Ed è appunto il contrapposto del materialismo che vuol venire alla superficie, che vuol trovare la via d’uscita dalle anime umane.

 

Il materialismo diventa tanto forte ed agisce con tanta energia solo perché nel periodo dell’anima cosciente l’uomo insorga contro di esso, perché trovi la possibilità di cercare in se stesso lo spirituale e di portarlo all’autocoscienza. Non si tratta pertanto di osservare semplicemente la realtà, conformemente al pensiero di Marx, e dedurre da essa che l’economia è la base reale dell’ideologia; bisogna invece dirsi che dal secolo sedicesimo la realtà non ci offre quel che è effettivamente vero; che occorre cercare la vera realtà nello spirito. Bisogna trovare un ordine sociale tale che appunto esso prevalga su quanto esteriormente appare, su quanto può essere osservato esteriormente a partire dal secolo sedicesimo. Il tempo stesso costringe a non osservare soltanto i processi esteriori, ma a trovare qualcosa che possa intervenire in tali processi, correggendoli. Bisogna rimettere in piedi ciò che il marxismo ha sovvertito.

 

È straordinariamente importante sapere che in questo caso la logica della realtà ribalta addirittura la dialettica meramente sottile di Marx. Dovrà scorrere ancora molta acqua sotto i ponti prima che un sufficiente numero di persone si avveda che si deve arrivare alla logica della realtà, alla logica basata sull’osservazione. Ma è necessario che lo si comprenda. È necessario appunto per l’urgente questione sociale. Questo è uno degli esempi.

 

L’altro può essere collegato ad alcune cose da me dette ieri. Ho detto che a partire da Ricardo, da Adam Smith, è caratteristico che si sia osservato come l’ordinamento sociale avesse per conseguenza che nella convivenza sociale umana veniva impiegata la forza umana di lavoro, che essa venisse portata sul mercato come merce e che fosse trattata come merce secondo l’offerta e la domanda. Ieri ho spiegato come questo sia appunto il fatto stimolante, il vero e proprio motore nella concezione proletaria. Chi pensa solo in base alla logica concettuale, osserva che è così e si dice che bisogna dunque avere una dottrina economica, una dottrina sociale, una concezione di vita sociale che tenga conto, che risponda nel miglior modo possibile all’opportunità di difendere la merce forza-lavoro dallo sfruttamento dell’uomo, dato che la forza-lavoro è merce. Il problema è mal posto, non solo da un punto di vista teorico, ma anche dal punto di vista della vita. Il porre oggi i problemi in modo errato ha effetti distruttivi, devastanti. Se non si avrà un’inversione, questo fatto avrà sempre più un effetto di rapina. Anche in questo caso bisogna rimettere in piedi ciò che è sovvertito. Non si può chiedere come si debba configurare la struttura sociale perchè l’uomo non possa essere sfruttato, anche se la sua forza-lavoro viene portata al mercato come un’altra merce, secondo la domanda e l’offerta, perché ciò contraddice ad un impulso interiore dell’evoluzione che risulta dalla logica della realtà. Corrisponde invece a quell’’impulso interiore che non viene affatto enunciato, ma che tuttavia corrisponde alla realtà e può essere espresso dicendo che si può concepire perfino il periodo greco antico, la civiltà greca divenuta tanto importante per noi, soltanto per il fatto che una gran parte della popolazione era in stato di schiavitù. La schiavitù era la premessa di quella civiltà che ha tanta importanza per noi. La schiavitù era in tal misura la premessa della civiltà greca che un filosofo dal pensiero eminentemente lucido come Platone considerava la schiavitù giustificata e necessaria per la civiltà umana.

 

Ma l’evoluzione umana procede. La schiavitù esistette nei tempi antichi, e si sa che l’umanità si sollevò contro la schiavitù, si sollevò istintivamente contro il fatto che l’uomo potesse essere venduto e comperato. Non si può comperare o vendere tutto l’uomo. Oggi si può dire che questo è un assioma; se esiste ancora da qualche parte, la schiavitù è considerata barbarie. Per Platone non si tratta di barbarie, ma di una cosa ovvia. Per lui, come per ogni greco di atteggiamento platonico, per ogni greco che pensasse da statista, la schiavitù era ovvia. Lo schiavo non pensava diversamente. Anche per lui era ovvio che degli uomini potessero essere venduti, che degli uomini venissero portati al mercato secondo l’offerta e la domanda, naturalmente non come delle mucche. Ma era solo una maschera, un paravento, perché questa situazione venne trasferita ad una schiavitù più attenuata, alla servitù della gleba. Quest’ultima è durata moltissimo. Ma anche contro di essa l’umanità si è sollevata. È rimasto, e si estende fino nel nostro tempo, il fatto che non tutto l’uomo possa essere venduto, ma solo una sua parte: la forza-lavoro. Oggi però l’uomo si solleva contro la vendita della forza lavoro. Nel rifiuto della possibilità di acquistare e di vendere la forza-lavoro si ha solo la continuazione del rifiuto della schiavitù. È pertanto del tutto ovvio che nel corso dell’evoluzione dell’umanità si manifestasse l’opposizione a che la forza-lavoro venisse considerata merce, che nella struttura sociale funzionasse come merce. Partendo quindi dalla premessa assiomatica, divenuta usuale dal tempo di Ricardo, di Adam Smith c di altri, circa il carattere mercantile della forza lavoro, carattere considerato anche da Karl Marx e da tutta la concezione proletaria, non si può porre il problema della difesa dell’uomo dallo sfruttamento. Infatti si considera già come assioma che la forza-lavoro sia merce. Però, malgrado sia merce, la si vuol soltanto difendere dallo sfruttamento, si vuol difendere il lavoratore dallo sfruttamento della su forza-lavoro. Secondo il pensare vigente, più o meno istintivamente, o anche non istintivamente come da parte di Karl Marx, quella dozzina di professori di economia, attivi nelle università, accettanti come assioma l’idea che la forza-lavoro sia da considerarsi merce.

 

In cose del genere dominano solo preconcetti, ed i preconcetti agiscono. Proprio in questo campo i preconcetti sono terribili. Non so quanti, forse perfino dei presenti, considerino sia troppo pretendere che ci si occupi di queste cose, che le si esaminino. Ma non si può considerare la vita stessa, e si finisce per prendere lucciole per lanterne, se non si è in grado di pensare su questi argomenti. Gli ultimi quattro anni lo hanno dimostrato in modo evidente. Che cosa non hanno portato mai questi quattro anni! Si sono potute sperimentare le cose più strane. Voglio fare un solo esempio. Avendo occasione di ritornare spesso in Germania — e altrove non era diverso — si poteva notare che ad ogni momento si verificava qualcosa di nuovo per alimentare il patriottismo. Proprio quando ci siamo ritorna l’ultima volta aveva preso piede un nuovo slogan patriottico sulla circolazione monetaria senza contanti. Non si sarebbe più dovuto pagare per contanti, ma favorire la circolazione di assegni, possibilmente non far circolare denaro ma assegni. Si diceva alla gente che il favorire la circolazione senza contanti era particolarmente patriottico perché si credeva che ciò fosse necessario per vincere la guerra. Nessuno aveva capito che una simile affermazione era un evidente nonsenso. E non solo lo si diceva ma lo si propagandava realmente; la gente si orientava in questo senso, anche gente di cui meno lo si sarebbe aspettato, gente di cui si doveva presumere che capisse qualcosa di economia in quanto dirigeva fabbriche, imprese industriali! Si sosteneva che una circolazione senza contanti fosse patriottica!

 

La circolazione senza contanti sarebbe patriottica in un solo caso: se ogni volta si facesse il calcolo del tempo risparmiato per la circolazione senza contanti; ma questo solo certa gente può farlo, la maggior parte non ne è capace. Bisognerebbe fare la somma dei tempi, e poi si dovrebbe dire che a seguito della circolazione senza contanti si è risparmiato una certa quantità di tempo utilizzabile per una determinata attività, per un determinato lavoro. Soltanto in tal caso sarebbe un reale risparmio. Ma la gente non l’ha fatto, non ha neppure pensato che solo con questa premessa l’iniziativa avrebbe potuto avere economicamente un valore patriottico. E negli ultimi quattro anni e mezzo, perché tutto andava cambiando, si diceva questo genere di roba nel modo più inconsulto. Si sono realizzati i dilettantismi più incredibili. Cose impossibili sono diventate realtà perché la gente, anche coloro che le disponevano, non sapeva affatto quali nessi esistono nella realtà in questo campo.

 

In merito ai problemi che ho trattato or ora, l’indagine deve avere per obiettivo la configurazione della struttura sociale, della convivenza sociale, al fine di staccare la merce oggettiva, il bene, il prodotto, dalla forza-lavoro. In ogni attività rivolta al settore economico si tratta di portare sul mercato e di far circolare il prodotto, la merce, di modo che il prodotto sia staccato dalla forza-lavoro. Questo problema deve essere proprio risolto economicamente. Ma se si considera come assioma il fatto che la forza-lavoro è cristallizzata nella merce, che non è possibile separare questi due fattori, ci si occulta proprio il problema principale, si capovolge ciò che invece deve stare sui piedi. Non si osserva affatto che il problema principale, da cui dipende la felicità e l’infelicità del mondo civile in campo economico ed al quale si deve indirizzare ogni impulso dello studioso, è di trovare la maniera di dissociare dalla forza-lavoro la merce oggettiva, il bene, di modo che la forza-lavoro non possa più essere merce. Vi si può arrivare. Se si prendono le misure necessarie nel senso della triarticolazione da me esposta, si ha la maniera per dissociare dalla forza-lavoro quanto obiettivamente è una merce, un bene distaccato dall’uomo.

 

Ad ogni modo oggi si riscontra poca comprensione p queste cose attinte alla realtà. Nel 1905 pubblicai nella rivista « Luzifer Gnosis » il saggio Scienza dello spirito e problema sociale. Allora facevo presente il principio fondamentale da applicare per dissociare il prodotto dal lavoro, e dicevo che via d’uscita del problema sociale poteva essere solo nel pensare in maniera giusta sulla produzione e sul consumo. Oggi si pensa soltanto alla produzione. Bisogna cambiare modo di pensare. Bisogna cessare di fare oggetto del problema la produzione, considerare il consumo. Fu possibile fare qualche singola proposta che però non potè avere reali ed effettive conseguenze in seguito all’inadeguatezza delle circostanze ed a seguito di varie insufficienze. Cose di questo genere sono già accadute. Oggi avviene effettivamente che la gente, per fede in determinate conclusioni logiche che considera conclusioni reali, non capisce che bisogna osservare la realtà. E proprio in campo sociale solo dalla realtà deriva la giusta impostazione del problema. È naturalmente facile sentir dire oggi che bisogna lavorare perché vi sia della merce. Certamente, bisogna lavorare per avere della merce. Logicamente la merce proviene dal lavoro. Ma la realtà è qualcosa di diverso dalla logica.

 

Ho ripetutamente chiarito tutto questo da punti di vista diversi. Ho suggerito di osservare soltanto come il problema si manifesti nel pensiero dei materialisti darwinisti. Ho vivo il ricordo del modo in cui cercai di spiegarlo per la prima volta molti anni fa agli amici del gruppo di Monaco — e da allora l’ho ripetuto spesso — proponendo di immaginare un haeckeliano convinto. Egli pensa che da un animale simile alla scimmia sia derivato l’uomo. Da scienziato naturalista, egli deve formarsi il concetto dell’animale simile alla scimmia e poi il concetto dell’uomo. Se non esistesse ancora nessun uomo, e se egli possedesse solo il concetto dell’animale simile alla scimmia, quello scienziato non sarebbe mai capace di ricavare, di estrarre dal suo concetto il concetto dell’uomo. Egli crede soltanto che il concetto dell’uomo provenga dalla scimmia, perché ne è effettivamente derivato nella realtà. Nella vita reale la gente distingue fra logica concettuale, logica di pensiero e logica derivata dall’osservazione. Ma tutto ciò va approfondito, altrimenti non si perverrà mai ad un ordinamento sociale ed alle condizioni politiche che sono necessarie per il presente e per il prossimo avvenire. Se non ci si vuol indirizzare verso il pensiero conforme alla realtà, come oggi ho di nuovo esposto, non si perverrà mai al goetheanismo. Che il goetheanismo possa entrare nel mondo dovrebbe essere indicato dal fatto che su questa collina esiste già un Goetheanum.

 

Solo per scherzo consiglierei di leggere la grande inserzione apparsa oggi sull’ultima pagina delle « Basler Nachrichten » con la quale si chiede di fare il possibile per realizzare il più gran giorno della storia con la fondazione dell’Istituto per gli studi wilsoniani! Si tratta soltanto di un’inserzione, ed ho voluto accennarvi solo per scherzo. Ma così viene costruito nelle anime degli uomini l’« Istituto per gli studi wilsoniani ».

 

Recentemente ho spiegato che ha già un certo valore l’esistenza di un Goetheanum, ed ho indicato questo fatto come una « viltà negativa ». In questo modo volevo indicare il contrario della viltà. Anche se questa inserzione ne è solo un’anticipazione scherzosa, in avvenire si verificheranno degli avvenimenti che, in base ad una certa concezione del mondo, profeticamente faranno apparire giustificata questa contestazione. Anche non prendendo sul serio l’inserzione di mezza pagina a proposito dell’Istituto per gli studi wilsoniani, è bene sapere che verrà il tempo in cui Istituti per gli studi wilsoniani saranno fondati. Per questo motivo deve esistere come contestazione un Goetheanum!