Valori trasmissibili nelle condizioni economiche

O.O. 340 – I capisaldi dell’economia – 01.08.1922


 

Sommario: Valori trasmissibili nelle condizioni economiche. Il prezzo della segale. Le prestazioni del medico. Economia interna. Triplice produttività dell’accumulazione di capitale mediante acquisto, prestito e donazione. Quest’ultima è la più produttiva. Capitale commerciale in Inghilterra, di prestito in Francia, industriale in Germania, con le relative capacità umane. Le banche e l’economia monetaria impersonale.

 

Le formule che ho provato ad esporre ieri non sono naturalmente formule matematiche, ma sono formule simili a quelle di cui ho già parlato prima, e che devono venir verificate a contatto con la vita; non solo, ma vanno intese come realmente viventi nell’ambito dell’economia.

 

Oggi dovrò esporre qualcosa che potrà gradatamente condurre a comprendere appunto come queste cose vivano nell’economia. Se pure abbiamo osservato che tutto quanto circola nel processo economico deve avere un certo valore, dobbiamo d’altra parte renderci ben conto che in esso possono sorgere fatti che nell’organismo economico non esprimono direttamente il proprio valore.

 

Voglio chiarirlo con un esempio che ci guiderà in seguito a prospettarci anche altri concetti economici. Simili fatti, che in certo modo indicano delle connessioni economiche più recondite, sono stati ottimamente descritti da Unruh nei suoi trattati di economia. Qui cito soltanto quel che io stesso ho controllato, e di cui posso dire che è giusto come pura osservazione, benché Unruh sia un pensatore che poggia assolutamente sull’economia statale, e che in fondo, pensando secondo direttive non economiche ma politiche, non è in grado di porre le cose nella loro giusta concatenazione.

 

Ciò che può attirare la nostra attenzione sul modo complicato in cui si svolgono i fatti nel processo economico, è per esempio il prezzo della segale in certe regioni dell’Europa centrale. Parlando con grandi agricoltori, avviene spesso di sentir dire che sul prezzo della segale non si guadagna nulla; anzi, ci si rimette. Che cosa significa veramente? Innanzi tutto significa che, a parere degli agricoltori, la segale non può essere venduta come si devono vendere i prodotti il cui prezzo è oggi generalmente costituito, almeno nei suoi elementi principali, dal costo delle materie prime, dalle spese di lavorazione e da un certo guadagno. Esaminando in questo modo i prezzi della segale, si troverebbe semplicemente che non corrispondono a quello che importano le spese di lavorazione e il guadagno, ma ne sono molto al di sotto. Volendo quindi compilare il bilancio di un’azienda agraria calcolando i prezzi della segale alle quotazioni del mercato, si segnerebbero appunto dei valori che influirebbero sul bilancio in senso negativo. Ripeto che si possono controllare questi dati, ed è proprio vero che la segale viene venduta, come si suol dire, sottocosto. Naturalmente è in realtà impossibile che ciò accada davvero; eppure in apparenza è proprio così. La ragione sta nel fatto che la segale non fornisce soltanto il frutto, ma anche la paglia; gli agricoltori, che cedono a sottocosto il frutto della segale, vendono la paglia solo in minima parte, e il resto lo utilizzano nella propria azienda agricola, in particolare come strame. Quando poi compilano il loro bilancio, pareggiano con lo stallatico che ricavano dal bestiame ciò che perdono con la segale. Ora questo stallatico, per la straordinaria ricchezza di batteri, è il migliore che ci sia per l’agricoltura. Così si ottiene lo stallatico gratuitamente, almeno nei confronti del bilancio, e così si può in effetti creare il pareggio.

 

Come si vede, qui v’è un fatto che ci costringe a considerare un concetto economico estremamente importante, di cui non si tiene abbastanza conto nella letteratura economica.

Il concetto che vorrei considerare è quello dell’economia interna in seno all’economia sociale. Quando un’azienda svolge azione economica nel proprio seno, quando dunque esercita lo scambio dei prodotti internamente, senza vendere né acquistare nulla da fuori, bensì facendo circolare i prodotti in seno all’azienda stessa, si ha ciò che vorrei chiamare economia interna, in confronto all’economia generale. Là dove si pratica l’economia interna, è senz’altro possibile che certi prodotti vengano ceduti perfino al di sotto del prezzo altrimenti necessario nel processo economico. In tal modo la formazione del prezzo, nell’àmbito d’un dato settore economico, diventa naturalmente una categoria di fatti molto complicata.

 

Ora da questi fenomeni che, ripeto, sono già stati osservati come realtà da certi economisti, possiamo passare a un altro ordine di fatti a cui ho già accennato, ma che dobbiamo considerare anche da un altro punto di vista. Ho rilevato alcuni giorni or sono come non sia facile abbracciare senz’altro con lo sguardo le concatenazioni economiche; ho citato l’esempio del calzolaio ammalato che, capitato in cura di un medico inetto, è obbligato al letto per tre settimane, e non può allestire nemmeno un paio di scarpe; sicché i prodotti ch’egli avrebbe forniti in quelle tre settimane vengono a mancare nella circolazione economica. Se invece quel calzolaio ricorre alle cure di un medico abile, che lo guarisce in una settimana, sì ch’egli possa allestire le scarpe durante le altre due settimane, è lecito porre il quesito: chi, dal punto di vista economico, ha fabbricato le scarpe? Pensando «economicamente» non v’è dubbio che, in questo punto del processo economico, si dovrebbe dire: le ha fabbricate il medico.

 

Ma qui può sorgere un’altra domanda: sono state pagate al medico quelle scarpe? No, non gli sono state pagate. Si potrebbe infatti calcolare quanto valgono al prezzo corrente le scarpe fabbricate, per così dire, dal medico; compilando poi un bilancio molto circostanziato, si potrebbe conguagliare questa somma con le spese di educazione professionale da lui incontrate; si vedrebbe allora che tali sue spese non sarebbero probabilmente molto diverse dall’importo di tutte le scarpe da lui fabbricate (poiché i medici non hanno sempre la specialità di liberare in otto giorni da una malattia chi, altrimenti, sarebbe malato e sottratto alla vita attiva per tre settimane). In ogni modo, quali fossero le risultanze del bilancio totale, non faremmo un calcolo economico veritiero se non si conguagliassero le spese dell’educazione professionale del medico con le scarpe ch’egli allestisce, i cervi che abbatte (se guarisce più rapidamente un cacciatore), il grano che raccoglie, e così via. Naturalmente il processo economico è qui assai complicato, e il pagare sarebbe anch’esso complicatissimo.

 

Da quanto abbiamo detto si potrà dunque rilevare che non è tanto sicuro stabilire da qual punto provenga in realtà il pagamento di una cosa qualsiasi nel processo economico. Bisogna talvolta risalire assai lontano per scoprire donde una data cosa venga pagata. Chi nel processo economico vuol trovar tutto semplice e liscio, non potrà mai raggiungere vedute economiche che comunque si accordino con la realtà; non si inoltrerà mai, come bisognerebbe fare, fino a ciò che ho detto celarsi veramente dietro le formule: prezzo, offerta, domanda e così via. Ma per tale ragione diventa particolarmente difficile valutare il processo economico nel modo giusto: trovandosi talvolta infatti gli introiti tanto lontani dagli esborsi, non si arriva facilmente a scorgere nel processo economico generale che cosa venga pagato o comprato, che cosa venga prestato e che cosa venga donato.

 

Supponiamo infatti che si realizzi quello che ho menzionato alcuni giorni or sono, e cioè che non si permetta ai capitali, che in qualsiasi modo si sono formati, d’ingorgarsi nell’impiego fondiario, ma si portino a riversarsi invece nel campo della cultura spirituale, per esempio a mezzo di fondazioni, largizioni, borse di studio, ecc.; ecco che si avranno delle donazioni. Solo ora si potrà vedere, in una specie di una contabilità vastissima (ma che solo così può abbracciare l’economia nella sua realtà), che per quello che il medico produce, per le scarpe allestite durante quelle due settimane, esiste forse una contropartita che si dovrà cercare sotto la rubrica delle donazioni, in qualche borsa di studio o in qualche elargizione di cui egli può aver beneficiato.

 

In poche parole, partendo da questo punto, si potrà sollevare il grave quesito: quali sono veramente le più produttive accumulazioni di capitale nel processo economico? Seguendo più a fondo le connessioni che ho esposte, e specialmente i capitali disponibili che possono riversarsi in fondazioni, dotazioni, prebende, borse di studio e istituzioni culturali e spirituali in genere, le quali a loro volta operano poi fruttuosamente sulle imprese, sull’intera produzione spirituale, allora si vedrà che proprio le donazioni costituiscono l’elemento più fruttifero nel processo economico, si vedrà che si può avere un processo economico intrinsecamente sano soltanto se, in primo luogo, vi siano uomini che abbiano qualcosa da donare, e in secondo luogo se essi abbiano anche la buona volontà di devolvere i loro mezzi in una maniera ragionevole. Arriviamo qui a qualcosa che s’inserisce in modo singolare nell’economia.

 

Il curioso in proposito è qualcosa che non si può ricavare da concetti, ma che soltanto una vasta esperienza ci può dare; una vasta esperienza (oltremodo consigliabile), che senza dubbio si acquisisce quanto più la si cerchi. Vorrei anzi consigliare di orientare molti studi appunto verso il problema: che cosa avviene delle donazioni nel processo economico? Si scoprirà allora che le donazioni sono quanto di più fecondo possa esistere, che i capitali devoluti a donazioni sono i più produttivi nel processo economico. Meno produttivi sono i capitali dati a prestito; improduttivo al massimo è tutto ciò che si svolge nella sfera diretta della compra-vendita. Quel che viene pagato direttamente nell’ambito della compra-vendita costituisce la parte meno feconda del processo economico. Ciò che si basa sul prestare, che penetra nel processo economico attraverso la funzione del capitale di prestito, ha un grado medio di produttività, si potrebbe dire. Quanto vi penetra attraversò le donazioni è della massima produttività, non foss’altro perché vi viene in effetti risparmiato il lavoro, ossia la prestazione di lavoro, che altrimenti dovrebbe effettuarsi per procacciare quanto viene donato. Vien donata la disponibilità che proviene dal processo economico e che lo pregiudicherebbe ove si fissasse nei terreni.

 

Possiamo vedere così che, esaminato in un momento qualsiasi del suo svolgimento, il processo economico non si spiega da sé; per spiegarlo, occorre assolutamente prendere in considerazione il prima e il poi di ogni fenomeno. Il prima e il poi non possono però esser considerati se non attraverso il giudizio degli uomini che si riuniscono in associazioni e che sono quindi in grado di avere un’adeguata visione anche del passato e dell’avvenire. Occorre davvero basare il processo economico sulla visione, sulla comprensione di coloro che vi partecipano, come risulta dalle cose stesse. È in genere difficile valutare così senz’altro quale partecipazione abbiano nel complesso della vita umana, in quanto vita materiale, i singoli fattori del processo economico.

 

In una certa prospettiva distinguiamo nel processo economico il capitale commerciale, il capitale di prestito e il capitale industriale. Si considera il capitale circolante all’incirca nella sua totalità, dividendolo in capitale commerciale, capitale di prestito e capitale industriale. Questi tre elementi sono inseriti nel processo economico in maniera molto diversa. Dato poi che nel processo economico sono ovunque frammischiate le economie interne delle quali ho dato oggi un esempio, in un processo economico che si svolge in seno a un vasto complesso è difficilissimo stabilire quale parte, espressa quantitativamente, abbiano il capitale di prestito, il capitale industriale e quello commerciale per la prosperità dell’economia. Si possono tuttavia raggiungere a poco a poco dei concetti validi, osservando queste cose in un orizzonte più vasto.

 

Osserviamo ora le grandi economie sociali, le economie statali (come dobbiamo chiamarle in conformità alla vita economica moderna). Osserviamo un po’ (la scelgo soltanto come esempio) la Francia: in tutta la sua compagine economica-mondiale, qual era principalmente prima, e come poi si è mostrata nei suoi effetti durante la guerra mondiale (1914-18), essa ci dà occasione di osservare come operi in grande nel processo economico il capitale di prestito. La Francia ha veramente sempre avuto, si potrebbe dire, una certa inclinazione a impiegare i propri capitali in prestiti, a trattare dunque il capitale di prestito come tale. È noto che in ultima analisi tutto ciò che è scivolato poi nel campo politico, tutto ciò che potè far constatare all’evidenza i danni dell’accoppiamento della vita economica col diritto, dunque in realtà con la vita politica, tutto ciò, per quanto si riferisce alla Francia, si è estrinsecato nella concessione di prestiti tanto alla Russia quanto alla Turchia. La Francia esportò forti masse di capitale di prestito in Russia e in Turchia; perfino in Germania (sebbene per altri riguardi in Francia non si fosse troppo propensi verso la Germania), fu esportato capitale francese di prestito, per esempio all’inizio della costruzione della ferrovia di Bagdad, quando l’Inghilterra si ritirò; la Francia concesse prestiti per esempio a Siemens e Gwinner che si trovavano alla testa di quell’impresa. La Francia era un paese essenzialmente prestatore, dove si poteva osservare come venga inserito nell’intero processo economico il capitale di prestito.

 

Non intendo ora parlare né pro né contro alcuna cosa, ma esporre solo i fatti in modo obiettivo; da tale fenomeno storico si può in effetti rilevare quali interessi abbia veramente il capitale di prestito. Se guardiamo alle economie private e quindi alle banche, troveremo in generale che il privato è un uomo amante della pace, poiché in ogni caso egli sa che le condizioni del suo reddito verrebbero a scompigliarsi se, dopo aver collocato il suo capitale in qualche prestito, la guerra travolgesse ogni relazione economica. Tutti gli economisti contano sul fatto che i prestatori di denaro sono persone pacifiche. Parlando della Francia, questa è la ragione per cui si può sempre affermare ch’essa non ha voluto la guerra del ’14. Chi voglia dimostrare che in Francia non si voleva la guerra, basta che accenni agli interessi dei petits rentiers, astenendosi dal menzionare gli interessi di coloro che invece spingevano davvero alla guerra. In Francia ci furono sempre, nello sfondo, persone che non volevano la guerra. Proprio questa realtà storica può mostrarci in grande quel che però esiste certo anche in piccolo, e cioè che il prestatore di denaro, quegli dunque che ha la fortuna di possedere del capitale di prestito e che può investirlo, è una persona che vorrebbe possibilmente impedire che l’economia fosse sconvolta da avvenimenti che non fanno parte dell’economia stessa e che provocano forti scosse nella compagine economica.

 

Chi ha da investire capitale di prestito, ama in genere un andamento di vita normale e tranquillo; tanto più in quanto, ih fondo, vorrebbe risparmiarsi di giudicare egli stesso delle cose, e preferisce che altri gli dica che qui o là c’è da investire bene il suo denaro. Oggi si può constatare che sia nell’economia, sia nella vita in genere, la possibilità di collocare capitale di prestito è per lo più collegata con una tendenza a seguire ciecamente le opinioni invalse, e questo offusca molto il giudizio economico. Il credito personale viene concesso spesso e volentieri a chi è ufficialmente segnalato, insignito di titoli e così via; a questa stregua si decidono le cose. Ma a seconda che tale principio d’autorità venga coltivato o no, vediamo anche inserirsi produttivamente nella compagine economica o gli uomini personalmente più idonei oppure quelli che sono in auge, non in virtù delle loro attitudini, ma per altre ragioni. Se a queste persone è data facoltà di ingerirsi nella vita economica, le cose andranno ben diversamente che non se le sole persone che hanno le volute capacità personali vengano riconosciute dall’opinione pubblica e da questa designate a disporre delle cose. Qui agisce di nuovo nella vita economica qualcosa che non è facile capire. In certi ambienti è divenuta frequente negli ultimi tempi una parola che è usata spesso, ma che non si accorda del tutto con dei concetti. Mi riferisco alla parola «imponderabile» che risuona spesso nelle orecchie e in luoghi diversi. Desidero sottolineare che qui intendo evitare quella parola, e che invece desidero indicare come ciò che è rettilineo possa biforcarsi e mostrarsi come qualcosa che noi dovremo seguire anche per vie traverse; non è comunque necessario usare subito la parola «imponderabile», come la si sente negli ultimi tempi fino alla noia. Abbiamo così osservato un poco il comportamento del capitale di prestito.

 

Passando ora al capitale industriale, se vogliamo comprenderlo nella sua vera natura, potremo studiarne bene la funzione specialmente osservando lo slancio preso dall’industria tedesca durante i decenni che precedettero la guerra, poiché allora, in Germania più che in qualunque altra nazione del mondo, sotto l’influsso dello spirito di iniziativa, dal capitale di prestito si sviluppò direttamente il capitale industriale. Invece in Inghilterra, come ho già detto nella prima conferenza, il capitale commerciale si era trasformato gradatamente in capitale industriale, perché ivi l’industrialismo si era sviluppato dal commercio, con un ritmo assai più lento che non in Germania. Nell’economia sociale tedesca, nella .quale l’industrialismo si sviluppò con una velocità portentosa, possiamo dunque studiare nel modo migliore l’industrialismo puro che si ha appunto là dove il capitale di prestito, e non il capitale commerciale, si trasforma in capitale industriale.

 

Ora, il capitale industriale è posto in effetti in mezzo, vorrei dire, tra due respingenti, di cui l’uno è la materia prima e l’altro i mercati. Il capitale industriale tende a cercare il più possibile le fonti delle materie prime, e ad organizzare i mercati. Ciò non è tanto facile a studiarsi nell’industria tedesca. Nell’industrialismo tedesco si può studiare, piuttosto sotto l’aspetto puramente economico, come il capitale industriale lavori in se stesso: però si può comunque studiare qui come altrove questa posizione di mezzo tra i due respingenti menzionati; in tutti i paesi la comparsa dell’industrialismo, nel corso del secolo diciannovesimo e del ventesimo ha infatti importanza per la vita economica. Solo occorre mettere in rilievo i fatti essenziali. Considerando campi economici ristretti, risulterà allora che è straordinariamente difficile dover cercare la via verso determinazioni o caratteristiche concettuali, ma come ho detto è bene considerare proprio la direzione, l’orientamento che occorre per i propri concetti relativi a questi problemi generali.

 

La via risulta più facile osservando campi economici più vasti. Osservando grandi complessi economici ci si forma un’idea di come concetti di dominio e di forza, talvolta sotto la maschera del diritto, si esplichino di regola nel modo più energico quando si tratta di aprirsi l’accesso alle fonti delle materie prime. Lo si può studiare su vasta scala nella guerra contro i Boeri, dove si trattava in sostanza d’aprirsi la via ai metalli preziosi. Quella è stata una vera guerra per la conquista di materie prime, sebbene tale suo aspetto sia stato sempre alquanto mascherato. Poi, un esempio di come la vita economica, con sistemi politici, s’insinui nel campo politico, nella volontà di potenza, si ha nella guerra intrapresa dal Belgio per ottenere l’avorio e la gomma del Congo. Anche qui si può vedere come nell’economia ci si conquisti l’accesso alle fonti delle materie prime. Così pure lo si osserva nel modo in cui gli Stati Uniti si sono impadroniti dei possedimenti spagnoli dell’India occidentale, per appropriarsi delle fonti dello zucchero. Dovunque possiamo vedere come la ricerca delle materie prime spinga l’economia pura alla politica, all’esercizio della forza. Questo è uno dei lati, uno dei due respingenti.

 

Diverso è il caso per quanto riguarda la ricerca dei mercati. Si può dimostrare con facilità, anche storicamente, che la ricerca dei mercati non porta allo stesso modo verso la vita politica. Qui lo sviluppo della potenza non avviene nella stessa maniera, per impulso della natura umana. Grosso modo, si può trovarne un esempio nel secolo diciannovesimo quando l’Inghilterra conquistò il mercato cinese dell’oppio, nella cosiddetta guerra dell’oppio. Anche qui tuttavia la guerra non fu tanto facile, e ci mise lo zampino anche la politica di pace. Quando infatti l’affare prese odor di bruciato, si trovarono ben 141 medici i quali dichiararono perizialmente che l’uso dell’oppio non ha conseguenze più dannose del tabacco e del te! Qui dunque fece il suo gioco la politica di pace. La politica è comunque sempre diffìcile a tenersi lontana!

 

Se osserviamo l’altro «respingente», la ricerca dei mercati, dobbiamo dirci: qui ha una parte essenziale l’accortezza umana fra i poli della scaltrezza e del saggio governo economico. Tutte e tre queste qualità hanno molta parte nell’organizzare i mercati, specialmente quali li organizzarono le grandi sfere economiche che divennero esse medesime Stati, dopo che la politica si fu congiunta con l’economia; gli stessi Stati spiegarono in questo campo gran copia sia di saggezza direttiva, sia di scaltrezza, prudenza, furberia e così via. Se quindi vogliamo formarci dei concetti, relativamente ai singoli campi economici minori, sui collegamenti fra le singole imprese industriali e i loro rapporti con le sorgenti delle materie prime e coi mercati, non potremo veramente arrivare a formarceli in modo evidente se non considerando le cose molto in grande.

 

Se si vuol comprendere la funzione del capitale commerciale, sarà bene studiare l’Inghilterra, e specialmente l’epoca in cui questo paese realizzò il suo grande progresso economico mediante il commercio, attraverso il quale il capitale commerciale fu sempre aumentato, sicché il paese entrò con tranquillità e gradatamente nell’industrialismo moderno. Allora, quando l’industrialismo trasformava ogni cosa, l’Inghilterra già possedeva il proprio capitale commerciale; così per epoche più antiche si può studiare in Inghilterra il capitale commerciale. Per epoche più recenti, specialmente Marx volle studiare in Inghilterra la funzione economica dell’industrialismo: ma se risaliamo ad epoche più remote, che appunto precedettero la creazione del moderno industrialismo, cioè agli ultimi decenni del secolo diciottesimo, constatiamo la funzione del capitale commerciale in modo del tutto particolare nelle vicende economiche inglesi.

 

Qui bisogna proprio dire che in ultima analisi, in modo più o meno manifesto o larvato, tanto nell’economia sociale in grande, allorché si fonda specialmente sul commercio, quanto in seno al commercio stesso, l’essenziale è sempre la concorrenza. Questa, avendo accolto in sé ogni sorta di concetti d’onorabilità, potrà fors’anche essere molto corretta; ma resta sempre concorrenza. Infatti, ciò su cui si fonda la produttività nel commercio, ciò per cui proprio il capitale commerciale può essere trattato nel processo economico così da diventare attivo, per esempio, come capitale industriale, poggia in ultima analisi sul fatto che il capitale commerciale porta all’accumulo e che l’accumulo non è concepibile senza la concorrenza. Si potrà dunque studiare in modo molto favorevole la funzione del capitale commerciale tenendo presente la funzione della concorrenza nella vita economica.

 

Con questi fatti sono però collegate al tempo stesso anche le metamorfosi storiche. Si può proprio dire che, considerando come una totalità l’economia mondiale che andava sorgendo a poco a poco (ed era à carattere spiccatamente mondiale prima della guerra) fino al primo trentennio del secolo diciannovesimo i processi economici del commercio e dell’industria avevano la parte dominante nella vita economica.

 

Il periodo fiorente, direi quasi il periodo classico del capitale di prestito, subentrò veramente soltanto nel secolo diciannovesimo, e più precisamente verso la metà del secolo. Con ciò è da registrare nell’evoluzione storica il sorgere delle istituzioni che provvedono in sostanza al finanziamento: le banche. L’epoca classica del capitale di prestito, e con essa lo sviluppo dell’ente bancario, cade quindi nei due ultimi terzi del secolo diciannovesimo e nei primi decenni del ventesimo. Di pari passo con lo sviluppo dell’istituzione bancaria, procede con sempre maggiore intensità quello del finanziamento, del prestito che s’inserisce ormai nel processo economico come fattore primario. Ma in pari tempo si manifesta un risultato del tutto peculiare, e cioè che, attraverso il finanziamento in grande stile e l’espansione degli enti bancari, il dominio sulla circolazione monetaria si sottrae all’uomo, e il processo di circolazione del denaro diviene a poco a poco tale da svolgersi (non trovo altra espressione) impersonalmente; come ho già rilevato nella prima conferenza, sorge così un’epoca in cui il denaro stesso governa l’economia, e l’uomo ne è sballottato qua e là, ora sopra ora sotto, a seconda di come è trascinato dalla grande corrente dell’economia monetaria. Egli ne viene trascinato in effetti assai più di quanto non pensi, poiché la circolazione monetaria, appunto negli ultimi decenni del secolo diciannovesimo, si è oggettivata, spersonalizzata. Con questo (dato che in economia si tratta di considerare tutta la vita in modo spregiudicato, bisogna rivolgere lo sguardo a tutta quanta la vita) si arriva a un fenomeno peculiare del secolo diciannovesimo, specialmente verso il suo termine; a un fenomeno da prima psicologico, ma che poi assume una parte economica importante: al fatto cioè che certe manifestazioni,, originate da forze che sono davvero forze reali nell’insieme della vita, continuano poi a svolgersi grazie a una specie di inerzia sociale, come una palla, a cui si sia impresso uno slancio, continua a rotolare anche quando non siano più attivi gli impulsi originari. Dunque, se già fino al primo terzo del secolo diciannovesimo c’erano stati impulsi economici nel sistema di prestito, poi, grazie alle banche, tali impulsi economici cominciarono a diventare impulsi puramente finanziari. Con ciò, tutto diventa non solo impersonale, ma addirittura innaturale; tutto viene così trascinato nella corrente semovente del denaro.

 

Economia monetaria, priva di soggetto naturale e personale: ecco a che cosa tende, verso la fine del secolo diciannovesimo, quel che in origine era stato assolutamente guidato da un soggetto personale e naturale.

È poi strano osservare come tale economia priva di soggetto, tale circolazione impersonale del denaro, vada accompagnata da un altro fenomeno. Gli Stati hanno iniziato l’esercizio delle loro economie secondo impulsi economici; per esempio tentando di colonizzare, mossi da impulsi economici. Vedremo domani quale influenza abbia la colonizzazione sulla vita economica; e bisognerà osservare anche la decolonizzazione. Possiamo benissimo osservare in un processo economico reale quale importanza abbia la colonizzazione per l’Inghilterra, paese che in sostanza è sempre rimasto nei limiti della colonizzazione, diciamo, di un imperialismo avente sostanza oggettiva. Per «imperialismo» intendo l’aggregazione di reali contenuti economici. Ma osservando per esempio la colonizzazione tedesca (basterà esaminare i bilanci delle colonie), vediamo che essa ebbe un bilancio del tutto passivo. Solo piccolissimi territori spiccavano per il loro bilancio attivo. Ma anche in altri Stati si è insinuata a poco a poco la semplice tendenza a ingrandirsi mediante le colonie. Tale fatto, anche da singole personalità come Hilferding nel suo libro Capitale finanziario apparso a Vienna nel 1910, è stato definito imperialismo senza oggetto.

 

Possiamo dunque parlare di questi due fenomeni come di fenomeni straordinariamente istruttivi dei tempi moderni: da un lato la circolazione del denaro priva di soggetto, tanto nei riguardi naturali quanto in quelli personali, e dall’altro lato l’imperialismo senza oggetto nell’economia in grande. Si tratta in effetti di due fenomeni che esistono nell’epoca attuale, come se l’uno avesse condizionato l’altro nella concatenazione complessiva. Si parte da motivi puramente psicologici che in seguito divengono fatti economici, poiché quando si possiedono colonie improduttive, lo si sconta poi in senso negativo, e tutto ciò si riversa poi realmente nella vita economica.

Questi erano gli argomenti che dovevamo esaminare oggi.