1° Incontro – Prefazione – Primo Capitolo

Amor, che ne la mente mi ragiona.


 

Prefazione

 

Nella traduzione italiana, la prima parte della prefazione (alla seconda edizione del 1918) risulta alquanto oscura.

Il suo senso è comunque questo:

• abituati come siamo al linguaggio della filosofia e al suo modo di procedere, ci viene ormai spontaneo impostare i problemi in termini, ad esempio, di “spirito e materia”, di “conscio e inconscio” o di “Io e non-Io”, come cioè se riguardassero direttamente il mondo e solo indirettamente noi stessi.

In altri termini: noi, in qualità di “terzi” o di neutri spettatori, ci poniamo il problema di capire cosa sia, nel mondo che ci circonda, “spirito, conscio o Io” oppure “materia, inconscio o non-Io”.

Qui ci viene invece proposto di ricondurre tali problemi all’uomo: ossia a quell’essere che, nel momento stesso in cui li pone, solitamente non si avvede di allontanarli da sé e di alienarli nel mondo. Con ciò, si porta dunque in primo piano un’esigenza prettamente antropologica.

 

Dice infatti Steiner:

 

“La prima questione è se esista una possibilità di considerare l’entità umana

in modo che questa visione di essa si dimostri una base

per tutto ciò che viene all’uomo per via di esperienza o di scienza,

e di cui egli ha però la sensazione che non possa sorreggersi da sé

e, anzi, possa venir spinto dal dubbio o dal giudizio critico nella sfera dell’incertezza” (p.7).

 

 

Orbene, una simile esigenza non può essere invero soddisfatta da un’antropologia che si è ormai quasi del tutto ridotta a “zoologia” e che, invece di essere una scienza dell’uomo elaborata dall’uomo (antropocentrica), è una scienza dell’uomo fatta dal suo solo cervello o, per meglio dire, dal suo solo apparato neuro-sensoriale (cefalocentrica).

Nell’uomo vivono, al di sotto dell’elemento propriamente umano (lo spirito o l’Io), l’elemento animale (il corpo astrale), quello vegetale (il corpo eterico) e quello minerale (il corpo fisico).

Quando qualcuno dice (come si usa oggi) che si “vuole realizzare”, sarebbe perciò bene tenesse presente che, ove si realizzasse in lui il mondo animale, lui non si realizzerebbe, così come non si realizzerrebbe se si realizzassero in lui il mondo vegetale o quello minerale.

 

Ci si può infatti dire “realizzati”

soltanto quando, realizzando lo spirito o l’Io (il nostro vero essere),

realizziamo integralmente la nostra umanità.

 

Dunque chiediamoci: è possibile una scienza dell’uomo che – come dice Steiner –

“si dimostri una base per tutto ciò che viene all’uomo per via di esperienza o di scienza”?

 

È evidente che una simile esigenza può essere soddisfatta soltanto da un’antroposofia: ovvero, da una scienza pienamente umana dell’uomo, della quale questi sia quindi insieme oggetto e soggetto. Solo così, del resto, l’antropologia può essere, a un tempo, “scienza” e “autocoscienza”.

 

Subito dopo aver posto tale questione, Steiner ne pone però un’altra.

 

“Può l’uomo, in quanto essere volitivo, attribuire a se stesso la libertà,

oppure questa libertà è una semplice illusione

che gli proviene dalla circostanza che egli non scorge i fili della necessità,

ai quali la sua volontà è altrettanto sospesa quanto un fatto naturale qualsiasi?” (p.7).

 

 

È chiaro che la soluzione che si darà a questo secondo problema

dipenderà in toto da quella che si sarà data al primo.

Per questo, sarà allora opportuno affrontare

• prima la questione “antropologico-noetica” (relativa a la scienza della libertà)

• e poi quella “antropologico-etica” (relativa a la realtà della libertà).

 

Ancora Steiner dice:

 

“Si tenterà di dimostrare che esiste una concezione a proposito dell’entità umana

che è in grado di sorreggere tutto il resto della conoscenza;

e, inoltre, di indicare che con tale concezione

si acquista una piena giustificazione dell’idea della libertà del volere,

purché si trovi prima la sfera dell’anima in cui la libera volontà possa esplicarsi.” (p.8).

 

 

“Purché si trovi prima  la sfera dell’anima  in cui la libera volontà possa esplicarsi”:

• cosa significa questo? Per rispondere, vorrei proporvi uno schema.

Vi ricordo, tuttavia, che gli schemi vanno usati con accortezza onde evitare che si trasformino in trappole. Uno schema è come uno scheletro. Tutti noi ne abbiamo uno, ma ce ne serviamo in quanto non siamo solo uno scheletro. Così pure, per servirci di uno schema, dobbiamo far sì che questo non sia solo uno schema, ma un qualcosa che esige di essere opportunamente “rimpolpato” e, soprattutto, messo in movimento.

 

Spero proprio che questo schema possa esserci di aiuto nello studio della prima parte del libro: di quella dedicata, cioè, all’aspetto conoscitivo o noetico del problema.

 

Cominciamo dunque con l’osservare che

• tutti coloro che negano la libertà sono gli stessi che, proprio là dove altri credono di aver operato una libera scelta, sono pronti a scovare invece una causa o un motivo e, per ciò stesso, una costrizione.

• “Tu – dicono – credi di aver fatto liberamente ciò che hai fatto, ma t’illudi poiché posso dimostrarti che lo hai fatto per un preciso motivo. Credi di aver agito liberamente solo perchè non sei cosciente del motivo che ti ha spinto ad agire così”.

Già, ma qual è – domandiamoci – il presupposto antropologico di questa posizione?

Come si può vedere nello schema, tale presupposto è che l’uomo sia costituito soltanto dal sòma, dalla physis e dalla psiché.

 

E si deve riconoscere

che, in base a un simile presupposto, la libertà, non solo non c’è, ma nemmeno può esserci.

Il   m o t i v o   (posto come causa psichica) genera infatti nel  tempo  l’ a g i r e

e questo, a sua volta, genera nello  spazio  l’ a z i o n e .

 

Si tratta di una sequenza logica che ha però il torto di muovere da un presupposto sbagliato.

• Coloro che negano in questo modo la libertà credono infatti di negare la libertà umana,

mentre non fanno che negare, senza rendersene conto, la libertà della parte animale che vive nell’uomo.

E in questo hanno ragione; hanno perlomeno più ragione di tutti quelli che, pur muovendo dal medesimo presupposto, vorrebbero affermare la libertà. Ma la libertà, così affermata, è davvero un’illusione.

 

In fondo, dobbiamo imparare a vedere, nei deterministi, degli intelligenti e utili provocatori che ci stimolano a ricercare il vero luogo della libertà (o “la sfera dell’anima – come abbiamo sentito dire prima da Steiner – in cui la libera volontà possa esplicarsi”), e a non illuderci perciò che la stessa si dia laddove invece non si dà e non può darsi.

 

Osservando ancora il nostro schema, e tenendo conto di quanto abbiamo appena detto, potremmo cominciare dunque a intuire che

il problema della libertà non riguarda tanto i rapporti che sussistono tra il motivo, l’agire e l’azione,

quanto piuttosto il rapporto che sussiste tra il  s o g g e t t o  (l’Io) e il  m o t i v o  (il corpo astrale).

In altri termini, dando per scontato che, posto un motivo, questo determina prima l’agire e poi l’azione,

il vero problema è allora quello di stabilire  c o m e   è stato posto il motivo 

o, per meglio dire, da   c h i   è stato posto il motivo.

 

C’è da chiedersi, insomma, se ci troviamo di fronte

• a un motivo che è stato  p o s t o  dall’Io

• o a un motivo che, viceversa, è stato  i m p o s t o  all’Io.

 

In ogni caso, spero vi siate resi conto del ruolo che gioca, in tutta questa vicenda, il presupposto antropologico.

Non a caso, Steiner ricorda spesso il Concilio di Costantinopoli dell’869 d.C. poiché fu appunto in quell’occasione che venne formalizzata, dal cattolicesimo, la dottrina della costituzione “binaria” dell’uomo: di una costituzione fatta cioè di corpo e anima (il cosiddetto “composto”) e nella quale l’anima possiede alcune qualità spirituali. Da quello stesso momento cominciò a essere giudicata “eretica” ogni dottrina che attribuisse all’uomo un corpo, un’anima e uno spirito (immanente).

Ricorderete forse che Steiner dice pure, al riguardo, che molti nostri contemporanei non sono che degli inconsci seguaci della dottrina formulata da quel Concilio.

Pensate, tanto per fare un esempio, a Jung. Egli si allontana, sì, da Freud perché questi afferma la realtà del corpo (del bios) e nega, materialisticamente o naturalisticamente, quella dell’anima, ma non ha poi il coraggio di andare oltre e di affermare, al di là della realtà dell’anima (quella in cui si danno – a suo dire – le “immagini archetipiche”), la realtà dello spirito (quella in cui dovrebbero darsi, se si fosse conseguenti, i suoi “archetipi in sé”).

 

A questo punto, riflettiamo:

• e se fosse proprio lo spirito, in quanto soggetto (in quanto Io), a costituire tanto la libertà che la verità?

Ma se fosse così, eliminando lo spirito, non avremmo eliminato anche la verità e la libertà?

E non sarà allora che è proprio dalla eliminazione della “verità-libertà” che discendono

• tanto quella verità cattolica (ma non solo cattolica) che non è libertà,

• quanto quella libertà liberale (ma non solo liberale) che non è verità?

 

Dice Steiner (pensando a tutti quelli che conoscono i suoi lavori successivi):

 

“Ci si sforza, in questo libro, di giustificare una conoscenza della sfera spirituale

prima di penetrare nel campo dell’esperienza spirituale.

E questa giustificazione viene ricercata in modo che, nel corso di questi ragionamenti,

purché si possa e si voglia approfondire il modo in cui questi ragionamenti stessi vengono svolti,

non occorre mai richiamarsi, per trovare accettabile ciò che qui viene detto,

alle esperienze che più tardi ho fatto valere” (p.8-9).

 

 

Nella speranza di riuscire a chiarire quello che intende dire Steiner, allorché invita ad approfondire il modo in cui si svolgono i suoi ragionamenti, mi è capitato più volte di ricorrere a questo esempio. Pensate al classico indovinello. Uno chiede: “Cos’è quella cosa che odora di rosa, ma rosa non è?”. E un altro subito risponde: “Lo so, è la saponetta!”. Come vedete, la soluzione dell’indovinello consiste in una “rappresentazione” che si presta, come tale, a essere facilmente memorizzata.

Tuttavia, possono anche esserci degli indovinelli la cui soluzione non è altrettanto facile da fissare nella memoria. Uno di questi, ad esempio, è quello dei tre cappelli bianchi e dei due cappelli neri. Ve lo propongo perché possiate sperimentare tutta la diversità che c’è tra una soluzione che si dà in forma di “rappresentazione” e una che si dà invece in forma di “ragionamento”.

Dunque, ci sono tre condannati a morte cui viene offerta un’ultima possibilità di salvezza. Viene detto loro: “Qui ci sono cinque cappelli: tre bianchi e due neri. Ne prenderemo a caso tre e ve li metteremo in testa, in modo che ciascuno di voi possa vedere il cappello altrui, ma non il proprio. Vi chiederemo poi di dirci il colore del cappello che avete in testa. Se non risponderete o sbaglierete, morrete; se indovinerete avrete salva la vita”. Viene dunque interrogato il primo condannato. Risponde: “Non lo so”, e viene giustiziato. Viene interrogato il secondo. Risponde: “Non lo so”, e viene giustiziato. Viene interrogato il terzo che invece si salva perché risponde: “Il cappello che indosso è bianco, e non può essere che bianco!”. Come vedete, tutto il gioco consiste nel ricostruire il ragionamento che ha permesso al terzo condannato di indovinare, con assoluta certezza, il colore del proprio cappello. Purtroppo, non posso lasciarvi il tempo di ricostruirlo da soli e devo quindi darvi subito la soluzione.

Il terzo ha ragionato così: “Il primo avrebbe potuto indovinare soltanto se avesse visto, sulla testa del secondo e sulla mia, due cappelli neri. Il secondo poi, considerato che il primo non ha indovinato, poiché appunto non ha visto due cappelli neri, ove avesse visto sulla mia testa un cappello nero, avrebbe subito realizzato di averlo bianco. Così però non è stato e ciò significa allora che il mio cappello è bianco”.

Quale esperienza si fa dunque con questo tipo di indovinello? Quando uscirete da qui, provate a ripensare alla sua soluzione e vi accorgerete quanto sia più difficile da ricordare che non quella della saponetta. Vi accorgerete, volendo essere più precisi, che mentre la soluzione del primo indovinello si fissa, in quanto “rappresentazione”, nella memoria, quella del secondo deve essere invece, in quanto “ragionamento”, ogni volta ripensata e ritrovata.

 

Un ragionamento è infatti un movimento o uno svolgimento del pensiero.

Proprio perché si tratta di un’attività e non di una cosa,

ci accorgiamo appunto di doverla sempre tornare a svolgere

e di non poterla fermare una volta per tutte nella memoria, come facciamo normalmente con una rappresentazione.

 

Tornando al testo, osserviamo che Steiner dice appunto:

 

“Quella che verrà data non sarà una risposta teorica,

da portare poi con sé come una semplice convinzione conservata nella memoria (…)

Non vi sarà dunque una risposta di quel genere, compiuta, finita,

ma si indicherà un campo di esperienze dell’anima nel quale, in ogni momento in cui l’uomo ne abbia bisogno,

la domanda, per virtù dell’attività interiore dell’anima, tornerà ad avere una risposta viva” (p.7-8).

 

 

So bene che l’esempio di questi due diversi generi di indovinelli può apparire bizzarro o inadeguato, purtuttavia quanto abbiamo appena detto del loro rapporto con la memoria ricorda molto da vicino una delle principali caratteristiche delle esperienze spirituali. Queste non si prestano infatti a essere memorizzate come tutte le altre, ma devono ogni volta essere ripetute.

 

Riguardo alle esperienze spirituali, Steiner, ne La scienza occulta, così dice:

• “La via che conduce al pensare libero dai sensi, per mezzo delle comunicazioni della scienza dello spirito, è completamente sicura; ve ne è un’altra anche più sicura, e specialmente più esatta, sebbene sia per molti uomini più difficile. Essa è descritta nei miei libri Linee fondamentali di una teoria della conoscenza della concezione goethiana del mondo e La filosofia della libertà. Questi libri espongono i risultati a cui il pensiero umano può arrivare quando, invece di abbandonarsi alle impressioni esterne del mondo fisico sensibile, si concentra soltanto in se stesso. Soltanto il pensiero puro, come entità per sé vivente, e non il pensiero rivolto solo ai ricordi di oggetti sensibili, esplica allora la sua attività nell’uomo” (pp.278-279).

 

Vedete, il titolo del libro di cui ci stiamo occupando potrebbe a prima vista ingannare facendo pensare a un’opera “classicamente” o “tradizionalmente” filosofica. Ma non è così. Non solo Steiner – nella prefazione alla prima edizione (1894) – ha infatti precisato d’intendere la filosofia come una scientia scientiarum o un’arte del pensiero o del concetto, ma, in altre e successive occasioni, ha anche affermato che l’epoca propria della filosofia, coincidendo con quella dell’anima razionale o affettiva, è finita nel secolo XV.

 

Oggi ci troviamo nella fase evolutiva dell’anima cosciente

e questa – come ben sapete – si esprime più attraverso la scienza che non attraverso la filosofia.

Non a caso, il secondo dei sottotitoli che accompagnano il libro recita appunto:

Risultati di osservazione animica secondo il metodo delle scienze naturali.

 

Poco fa, ho paragonato la funzione assolta nello studio dagli schemi a quella assolta nel corpo dallo scheletro.

Ma tale funzione, per la verità, è svolta anzitutto dal pensiero.

In Filosofia e Antroposofia, Steiner osserva infatti:

• “Non saranno certo coloro che vogliono solo sentir narrare i fatti delle sfere superiori a far apprezzare nel mondo il nostro movimento scientifico-spirituale nelle sue parti più profonde, ma saranno coloro che hanno la pazienza di penetrare in una tecnica di pensiero che crea una base reale, quasi uno scheletro per il lavoro nel mondo superiore”.

Che non si tratti di semplici metafore lo testimonia il fatto che sempre Steiner ha detto, in un’altra occasione, che proprio a coloro che comprendono seriamente e profondamente La filosofia della libertà può facilmente capitare di sognare degli scheletri.

 

Orbene,

• come lo scheletro costituisce il sostegno del corpo,

• così la rigorosa elaborazione gnoseologica presentataci in questo testo

(ma anche in quelli che l’hanno preceduto e preparato)

dovrebbe costituire il sostegno di ogni sana indagine spirituale.

 

Vi dico questo in modo particolarmente sentito, perché mi è successo spesso di notare che, alla legittima preoccupazione dei nostri compagni di strada di non presentare al mondo un’antroposofia “devitalizzata” o “sclerotizzata” dall’intellettualismo, non sempre si accompagna l’altrettanto legittima, se non doverosa, preoccupazione di non presentare al mondo un’antroposofia “disossata” o “rammollita” dal sentimentalismo.

Si dovrebbe sempre ricordare, infatti, che l’Essere vivente dell’antroposofia non si rivela né a chi lo accosta in modo troppo “freddo”, né a chi lo accosta in modo troppo “caldo”, né tantomeno a chi lo accosta (per dirla con l’Apocalisse) in modo troppo “tiepido”.

 

Da qualche anno a questa parte capita inoltre, e sempre più spesso, di incontrare persone che, sulla scia della New age, si avvicinano alla scienza dello spirito in modo superficiale, ludico o sognante.

E’ però impossibile seguire la “via del pensiero” senza il pensiero.

 

Si ricordi che Steiner afferma che

l’antroposofia è “un’alta scuola di pensiero”

e che è solo da una superiore educazione dello stesso che può oggi scaturire una vera e sana “veggenza”.

 

Allorchè si parla di veggenza, sarebbe bene altresì ricordare che i non-veggenti, com’è naturale, s’immaginano i veggenti da “non-veggenti”, e quindi in modo necessariamente improprio, inadeguato o grossolano.

Dico questo perché i primi segni dello sviluppo di una sana veggenza possono passare inosservati proprio a causa dell’interferenza di queste previe e scorrette rappresentazioni.

Soprattutto all’inizio, la vera esperienza spirituale è invero estremamente sottile e delicata.

Non avendo nulla a che fare, ad esempio, con quella “spiritistica”, non prevede che ballino i tavolini né che si diano altri fenomeni sensibili, eclatanti o clamorosi.

 

• In realtà, chiunque riesca a sperimentare la vivente realtà del pensare

è già sulla via della più pura e sicura conoscenza dello spirito.

 

Siate pur certi che chi procede su questa via (sulla via dell’Arcangelo Michele) impara presto a diffidare delle proprie fantasie e a sbarazzarsi delle proprie illusioni.

 

Certo, si tratta di una via “faticosa”. Steiner stesso – come abbiamo sentito – riconosce che essa è, per molti uomini, “più difficile”. Non è tale, però, perché si sia costituzionalmente degli inetti, ma perchè si è divenuti interiormente pigri e impazienti. Sono queste “debolezze”, infatti, a far preferire, a molti, quegli insegnamenti, sedicenti “spirituali”, che tutto richiedono fuorché un serio e profondo impegno del pensiero.

• “Al nostro tempo – dice a tale proposito Steiner, in Iniziazione e misteri non c’è vera iniziazione, che non passi per l’intelletto. Chi vuole oggi giungere agli “arcani superiori” evitando di passare per l’intelletto, non capisce nulla dei “segni dei tempi” e non può far altro che porre suggestioni nuove al posto delle antiche”.

 

Primo capitolo

 

Si chiede Steiner:

 

“È l’uomo, nel suo pensare ed agire, un essere spiritualmente libero,

o sta egli sotto la costrizione di una ferrea necessità basata su leggi puramente naturali?” (p.13).

 

 

Schopenhauer non ha alcuna esitazione a far sua la seconda di queste due ipotesi.

Egli è infatti convinto che sia la natura del nostro carattere a determinare quella delle nostre azioni.

Quali soggetti, noi saremmo sottomessi al carattere.

Sarebbe perciò questo a farsi motivo dell’azione, e noi non potremmo far altro che quello che esso c’impone.

Come vedete, siamo in pieno nel “determinismo”: ossia,

nella convinzione che ogni nostra azione non sia che l’effetto di “una causa interamente determinata”.

 

Il vero problema – come abbiamo già detto – è però un altro:

• è quello di sapere, cioè, quale sia, per così dire, la “causa della causa”;

di sapere, in altri termini, se tale causa (in veste di motivo) sia stata posta dall’Io a partire da sé,

o sia stata imposta all’Io a partire dalla natura (vale a dire, dalla psiché, dalla physis o dal sòma).

 

In questo secondo caso, risulta comunque evidente che la natura (in primo luogo la psiché) in tanto può riuscire ad agire come un Io in quanto l’Io stesso, per insufficiente coscienza di sé, vi si è identificato.

 

Ciò significa che

• una cosa è porre l’Io nell’Io,

• altra porlo nell’anima (come fa ad esempio Jung),

• nella vita (come fa ad esempio W.Reich)

• o nel corpo (come fa ad esempio Freud).

In tutti questi casi, infatti, lo spirito o l’Io, che si crede coscientemente di negare,

viene invece inconsciamente proiettato, e quindi impropriamente “dislocato” nella natura.

 

Va però ricordato che, dal punto di vista della medicina antroposofica,

• ogni stato patologico non è altro che il risultato di una “dislocazione”, nel tempo o nello spazio,

di una funzione altrimenti fisiologica.

• Essere alimentati col poppatoio, ad esempio, è fisiologico a sei mesi, patologico a vent’anni.

In un caso del genere – come vedete – si ha una “dislocazione” nel tempo, e quindi un “anacronismo”.

 

Volendo esemplificare anche la “dislocazione” nello spazio, potremmo considerare il fatto che, nel corpo umano sano, la temperatura dei polmoni si aggira intorno ai 35°, mentre quella del fegato intorno ai 40°. Ebbene, provate a pensare a ciò che accadrebbe se i polmoni cominciassero ad avere una temperatura di 40° e il fegato di 35°. Ci troveremmo di fronte a un grave stato patologico. In tutti i modi, questa chiave della patologia è valida tanto sul piano corporeo che su quello animico. Ad esempio, la “malattia” dei deterministi e dei sostenitori del “libero arbitrio” deriva proprio dal fatto che entrambi “dislocano” l’Io nella natura (soprattutto nel sòma o nella physis i primi, e nella psiché i secondi), per giudicarlo poi erroneamente “non-libero” gli uni e illusoriamente “libero” gli altri.

 

• C’è comunque da dire che alle tesi dei deterministi ha portato un rilevante contributo la psicoanalisi. Infatti, con la cosiddetta “scoperta dell’inconscio”, ci si è sentiti ancor più in diritto di dire: “I motivi determinanti della nostra condotta sono attivi nell’inconscio. Ci crediamo liberi perché normalmente li ignoriamo. Un’analisi del profondo potrebbe però portarli alla luce, e distruggere così ogni nostra illusione”.

 

In ogni modo, Steiner, per meglio illustrare e riassumere il punto di vista del determinismo, cita un lungo brano di una lettera di Spinoza. In questo, c’è soprattutto da notare la seguente affermazione:

• “Io – dice Spinoza – faccio consistere la libertà non in una libera decisione, ma in una libera necessità”(p.15).

 

Orbene, per capire cosa significhi una “libera necessità” occorre distinguere la libertà cosiddetta “negativa” (la libertà da) da quella cosiddetta “positiva” (la libertà per).

• Non è difficile infatti accorgersi che ci rappresentiamo quasi sempre la libertà più come un vuoto o un’assenza (di determinazione o di costrizione) che non come un pieno o una presenza (di Io o di spirito).

• “Libertà? – scrive appunto Paul Nizan, in Aden Arabie – Non era questo vuoto che cercavo, ma una facoltà vera”;

• e perfino Hegel, nella sua Enciclopedia delle scienze filosofiche, dice: “La più alta forma del niente per sé sarebbe la libertà”.

 

Questo non è però che un sintomo del particolare stato interiore in cui vive l’uomo moderno: ovvero,

• un uomo che, per sviluppare appieno la coscienza della propria esistenza,

• si è progressivamente svuotato della coscienza della propria essenza.

Non a caso, è appunto l’“esistenzialismo” a vedere nella libertà una “condanna” o una fonte di “angoscia”.

 

Orbene, se un supremo valore come quello della libertà viene a trasformarsi addirittura in una fonte di dolore o di sofferenza (di quel dolore o di quella sofferenza dai quali i deterministi si difendono negando la libertà), si dovrebbe avere allora il coraggio di riconoscere che il nostro attuale rapporto con tale valore è sbagliato.

 

• Ma è sbagliato il nostro attuale rapporto con la libertà

• perché è sbagliata la nostra attuale coscienza della libertà,

• ed è sbagliata la nostra attuale coscienza della libertà

• perché è sbagliato (o inadeguato) il tipo di pensiero con cui la pensiamo

(“La verità – dice infatti il Vangelo – vi farà liberi”).

 

Non è certo l’ordinario pensiero astratto, ossia un pensiero asservito all’apparato neuro-sensoriale,

che può pensare realisticamente la libertà.

Pensare realisticamente la libertà significa infatti pensare la libertà “positiva” (o la libertà per): ossia,

una libertà che è gioiosa presenza e pienezza di spirito.

 

Dice Spinoza:

• “Io chiamo libera una cosa che esiste e agisce per semplice volontà della sua natura, e forzata quella che viene invece determinata all’esistenza e all’azione, in modo preciso e fisso, da qualcos’altro” (pp.14-15).

 

Ciò significa dunque che

l’Io è libero quando esiste e agisce quale Io (vale a dire, “per semplice volontà della sua natura”),

• e non libero (o “forzato”) quando viene invece determinato “all’esistenza e all’azione”

dalla psiché, dalla physis o dal sòma.

 

L’Io, in definitiva,

• non tanto deve essere libero per essere l’Io,

• quanto piuttosto deve essere l’Io per essere libero.

 

Quale soggetto, infatti,

la libertà è lo spirito libero    •  e lo spirito libero è l’essenza dell’uomo.

 

Lo spirito libero non ama obbedire né comandare;

ama la libertà e la sua massima gioia è quella di potersi incontrare con altri spiriti liberi.

Egli perciò patisce tanto la costrizione quanto la ricorrente tentazione, offertagli dall’altrui debolezza,

di erigersi a giudice o dominatore.

 

In ogni caso, tornando al brano di Spinoza, osserviamo la sua conclusione: gli uomini si credono liberi perchè “vi sono cose che essi desiderano di meno” e perché “certi desideri si possono facilmente domare per mezzo del ricordo di altri, a cui si pensa spesso” (p.16).

La stessa cosa – detta da Schopenhauer – suonerebbe invece così: quando si tratta di scegliere, è sempre il motivo più forte a imporsi.

 

Ma qual è – domandiamoci – la funzione del motivo?

Per rispondere a questo interrogativo, dobbiamo ricordarci che

• l’Io, il corpo astrale (la psiché), il corpo eterico (la physis) e il corpo fisico (il sòma)

rappresentano quattro diverse realtà gerarchicamente ordinate.

 

Teniamo infatti presente che,

• parlando dell’anima, parliamo delle tre facoltà del pensare, del sentire e del volere,

• mentre, parlando dello spirito, parliamo di gradi o stati di coscienza: ovvero,

di quelli di veglia, di sogno, di sonno e di morte.

Riprendiamo dunque il nostro schema per osservare le cose da questo nuovo punto di vista.

 

 

Adesso domandiamoci: quale funzione ha il tempo?

Per rispondere, è sufficiente osservare che esso si trova situato tra la forma e lo spazio. Ricordiamoci, a tale proposito, che quando Steiner ci parla della “soglia” ci parla di un limite che passa esattamente tra la forma e il tempo e che ciascuno di noi attraversa, in un senso, quando si addormenta e, in quello opposto, quando si sveglia. Tale soglia divide infatti le sfere dell’essere e della forma da quelle del tempo e dello spazio: da quelle, cioè, dell’esistenza. Orbene, una forma che intenda realizzarsi nello spazio non può, in prima istanza, che calarsi nel tempo. Il tempo ha dunque una funzione di mediazione.

Rammentate cosa succedeva a scuola quando ci veniva assegnato un “tema”? Prima c’era il tema quale pura forma, poi il suo “svolgimento” nel tempo, e infine il tema “svolto” e, per ciò stesso, spazializzato. Tutto ciò che intende realizzarsi nello spazio deve dunque servirsi della mediazione del tempo.

 

• Un discorso analogo, tuttavia, deve essere fatto per la forma (o per il motivo).

Anch’essa svolge infatti un ruolo di mediazione tra l’essere e il tempo (o tra l’agente e l’agire).

Ma a qual fine si svolge tale attività mediatrice?

 

Al fine appunto di dar “forma”,

• a un primo livello, alla pura e indeterminata forza dell’agente (dell’Io)

• e, a un secondo, al puro e indeterminato movimento del tempo (dell’agire).

 

Ad esempio, quando sentiamo qualcuno esprimere il proprio disagio dicendo: “Non so neppure io quello che voglio”, ci troviamo appunto in presenza di un Io che, non riuscendo a dar forma alla propria volontà, si vede frenato nell’agire e paralizzato nell’azione.

 

Spero vi sia chiaro, a questo punto, che le mediazioni che consentono allo spirito di incarnare la propria volontà nell’azione non possono essere saltate.

• Tutto il problema della libertà consiste dunque nel vedere da “dove” o da “chi” parta l’iniziativa.

 

• “Quello che importa – scrive infatti Steiner –

non è se io possa portare ad effetto una decisione presa, ma come sorge in me la decisione (p.19).

 

Risposta a una domanda

Vede, tutto sta nell’intendersi sul concetto di “soggetto”.

• Difatti, se per soggetto intendiamo l’io abituale (o ego),

quello – vale a dire – che in tanto sa di sé come “soggetto” o “Io”

in quanto si contrappone sempre a un “oggetto” o a un “non-Io”,

ci troviamo allora sul piano di quella coscienza ordinaria che Steiner chiama anche “materiale” od “oggettiva”.

 

Questo, però, non è il nostro reale Io: non è ancora, cioè, un Io spirituale.

Lo spirito, del resto, va sempre concepito in termini di “soggettività” (i teologi cattolici direbbero forse di “persona”):

di certo, nei termini di una soggettività superiore

che si dà, a un tempo, quale unificazione e trascendimento di soggetto e oggetto, di Io e non-Io.

 

Dobbiamo dunque conquistarci un pensiero in grado di sperimentare, simultaneamente,

l’Io come essere (come oggetto)    • e l’essere come Io (come soggetto).

 

• Abbiamo detto, in precedenza, che la verità è un “essere” e non un “avere”.

• Non si può avere infatti la verità, ma si può avere un’opinione.

• Ma è appunto l’ego ad avere le “proprie” opinioni o i “propri” punti di vista.

 

D’altro canto, ove si sia incapaci di elevarsi alla verità (all’Io spirituale) e si sia quindi prigionieri dell’opinione (dell’ego), ben venga allora una dottrina, quale quella liberale, che, riconoscendo la relatività delle opinioni, si sforzi di indurci alla reciproca tolleranza. L’appello di Locke e di Voltaire alla tolleranza va visto dunque come il frutto di un’epoca, o di una fase evolutiva, in cui l’antica capacità dell’uomo di sperimentare in modo vivo la realtà dello spirito si era ormai atrofizzata.

 

L’attuale appello di Giovanni Paolo II è invece diverso. In parole povere, infatti, è come se il Papa ci dicesse:

• “Voi, uomini moderni, sentite molto il problema della libertà, ma molto meno quello della verità.

Rischiate perciò di realizzare una falsa libertà poiché, fuori della verità, non c’è vera libertà”.

 

Dobbiamo riconoscere che si tratta di una diagnosi ineccepibile. Il problema nasce, tuttavia, allorchè si passa dalla diagnosi alla terapia. Nell’incapacità di comprendere le ragioni per le quali l’uomo moderno si è reso sempre meno sensibile al tema della verità (sempre meno capace, ossia, di pensarla veracemente), cosa fa infatti il Papa?

Si sforza di ricordarci che della verità è depositaria la Chiesa cattolica, e che si può perciò tornare alla verità soltanto tornando al suo insegnamento. Si sforza di ricordarcelo, oltretutto, come se ce lo fossimo semplicemente dimenticato, senza affatto spiegarci, ammesso che così fosse, il perché ciò sia potuto accadere.

All’uomo moderno, in realtà, non occorre una via della memoria (che lo ricondurrebbe, in quanto tale, al passato), bensì una via della conoscenza che sappia restituire al pensiero la forza e la capacità di sperimentare modernamente (e quindi liberamente e individualmente) la realtà della verità o dello spirito.

 

Ma davvero si crede che l’uomo moderno (l’uomo dell’ego) sia disposto, rinnegando se stesso, a delegare ad altri l’amministrazione e la gestione del pensiero, della coscienza e della verità? No, l’uomo moderno in tanto è “moderno” in quanto la verità vuole conquistarla, come Faust, con le proprie forze, assumendosi tutti i rischi e tutte le responsabilità che un’impresa del genere comporta.

 

L’uomo moderno, insomma, va aiutato, non a “ricordare” o ad “apprendere” la verità, bensì a “pensarla”

(cominciando perciò col liberare il pensiero stesso da tutto ciò che limita o impedisce il suo vivo movimento).

Più che di una “dottrina”, abbiamo pertanto bisogno di un “metodo”.

• Sarebbe un vero peccato, quindi, se qualcuno credesse

che La filosofia della libertà esponga una dottrina o un sistema.

 

Nella prima delle sue massime antroposofiche, Steiner dice infatti:

• “L’antroposofia è una via della conoscenza

che vorrebbe condurre lo spirituale che è nell’uomo allo spirituale che è nell’universo”.

 

Come vedete, l’antroposofia è appunto una “via”, un metodo o un cammino. Un cammino che ciascuno può liberamente intraprendere e seguire nella speranza di poter un giorno incontrare quella verità che, sola, potrà condurlo verso la bellezza e verso la bontà.

 

• Il vero è infatti la manifestazione dello spirito nel pensare,

• il bello è la manifestazione dello spirito nel sentire,

• e il bene è la manifestazione dello spirito nel volere.

Tre diverse manifestazioni, dunque, di uno stesso spirito.

 

Da dove prendere allora le mosse? Questo è il problema.

Pensate, ad esempio, al metodo ipnotico. A cosa mira l’ipnotizzatore? Mira ad agire direttamente sulla volontà (incosciente) e, proprio per questo, la presenza della coscienza gli è d’impaccio. Pensate poi alla suggestione pubblicitaria. Questa agisce direttamente sul sentire (subcosciente) e, proprio per questo, un sia pur minimo atteggiamento critico non può che esserle d’intralcio. Anche la suggestione vuole comunque arrivare alla volontà (per influenzare, nel caso specifico, le nostre scelte di consumo): vuole però arrivarvi indirettamente (attraverso il sentire), e non direttamente come fa l’ipnosi.

 

Vi ho proposto questi due esempi perché consideriate come possano darsi metodi diversi.

• Quelli che s’indirizzano direttamente verso la volontà sono una cosa; quelli che s’indirizzano direttamente verso il sentire e indirettamente verso la volontà sono un’altra;

• quello che infine s’indirizza direttamente verso il pensare, indirettamente verso il sentire, e ancor più indirettamente verso il volere,

• è un altro ancora: quello appunto dell’antroposofia o della scienza dello spirito.

 

Essendo l’unico metodo che si rivolge direttamente al pensare e alla coscienza di veglia,

è per ciò stesso l’unico – com’è facile capire – che rispetti integralmente la nostra autonomia o libertà.

Steiner ha infatti detto, e più volte:

“Non desidero che crediate a quel che vi dico, desidero che pensiate quel che vi dico”.