10° Incontro

Amor, che ne la mente mi ragiona.


 

Continua il quarto capitolo

 

Stasera, prima di riprendere l’esame del testo, vorrei invitarvi a osservare questo schema:

 

soggetto (ego)

Io

oggetto (non-ego)

 

Vi prego però di ricordare che gli schemi hanno il difetto di essere statici,

e ciò può risultare particolarmente limitante per chi voglia affrontare una dinamica del pensiero, o una logodinamica.

 

Veniamo comunque a noi. Abbiamo udito Steiner affermare che “il pensare è al di là di soggetto e oggetto”. Ciò vuol dire dunque che il soggetto al quale facciamo normale e costante riferimento (l’ego) è “parte” del soggetto, ma non tutto il soggetto. Vedete infatti che, nello schema, ho messo l’Io al centro tra l’ego e il non-ego.

Se proprio volessimo dargli una collocazione, dovremmo immaginarlo là dov’è il cuore: non il cuore fisico, s’intende, ma quello spirituale (il “sacro cuore”). Da questo centro, l’Io irradia come un sole la sua forza e, in questa, sarebbe invero arduo distinguere la luce dal calore. A questo livello, infatti, la luce è calore e il calore è luce.

Nell’uomo, però, si verifica qualcosa di molto particolare. Egli è infatti strutturato in modo tale da intercettare la luce e respingere il calore nella sua organizzazione superiore (neuro-sensoriale), e intercettare il calore e respingere la luce in quella inferiore (metabolica). E laddove viene intercettata la luce e respinto il calore nasce, col pensare, la coscienza dell’Io, nella forma dell’ego (o del soggetto pensato), mentre laddove viene intercettato il calore e respinta la luce nasce, col volere, la coscienza del non-ego (o dell’oggetto percepito). Ciò significa che l’Io centrale è il vero essere tanto del soggetto pensato che dell’oggetto percepito, e perciò il vero soggetto tanto del pensare o del conscio quanto del volere o dell’inconscio.

 

 

Anche questo modo di esprimere la cosa è naturalmente schematico. Volendo essere precisi, dovremmo infatti dire che,

• nella sfera superiore (in quella che Steiner chiama, in Una fisiologia occulta, l’“organizzazione cosciente dell’io”)

viene alla coscienza la luce, in veste di pensiero (di forma), e rimane nell’incoscienza il calore,

• mentre in quella inferiore (in quella che Steiner chiama, nello stesso testo, l’“organizzazione incosciente dell’io”)

viene alla coscienza il calore, in veste di volontà (di forza), e rimane nell’incoscienza la luce.

• Nella prima, siamo perciò alle prese col volere nel pensare;        •  nella seconda, col pensare nel volere.

 

In ogni caso, se fate attenzione al rapporto illustrato dallo schema tra il soggetto (l’ego) e l’oggetto (il non-ego), potete quasi toccare con mano il paradosso di questa situazione. Notate infatti che l’Io, in quanto prende coscienza di sè come “soggetto”, non è più solo un Io che è, ma anche un Io che comincia a sapere di essere.

Ma come comincia a saperlo? Forse in modo che questo sapere corrisponda al suo vero essere? No.

Questo suo primo sapere non fonda infatti che la prima forma dell’autocoscienza (riflessa): ovvero, quella che si basa cartesianamente sul pensare (sul cogito) e non anche sul volere. Si potrebbe anche dire, volendo, che l’autocoscienza nasce così come nasce un uomo. Si dice: “In puero, homo”, ma l’uomo, nel bambino, c’è e non c’è: ossia, c’è in potenza, ma non ancora in atto.

Orbene, se qualcuno, deluso dal fatto di non avere a che fare con un uomo, invece di aiutare il bambino a crescere e a maturare, tentasse di sopprimerlo, non farebbe cosa granché diversa da quella che fanno tutti coloro che, in nome della fraternità, della socialità o della solidarietà, praticano metodi educativi tendenti, più o meno scientemente, a una mortificazione o a un’evirazione dell’io abituale (dell’ego).

 

Abbiamo comunque visto che l’Io, nella parte superiore dello schema, si riconosce come “soggetto” (come ego), mentre, in quella inferiore, si ritiene paradossalmente un “oggetto” (un non-ego): un oggetto ignoto e trascendente giudicato da alcuni “fisico” e da altri “metafisico” (avverte tuttavia Hegel: “Ogni sforzo di conoscere e d’apprendere, ogni scienza e perfino ogni attività pratica non mira ad altro se non a far sì che ciò ch’è internamente o in sé sia tratto fuori di sé, e quindi si oggettivi a se stesso (…) Lo spirito è sdoppiamento, estraniamento, ma soltanto per poter trovare se stesso, per venire a se stesso”).

 

In tutti i casi, avendo finora parlato del pensare, ci siamo per lo più occupati della parte superiore dello schema;

adesso, parlando della percezione, ci occuperemo invece della parte inferiore.

È qui che l’Io, nella massima incoscienza di sé, incontra il proprio essere (o la propria forza) come un essere (o una forza) che giudica altro da sé. È qui che l’Io dunque si aliena e, alienandosi, dà la stura a tutte quelle concezioni che pongono a loro unilaterale e trascendente fondamento l’“oggetto” (metafisico o fisico).

Col porre il dualismo di “soggetto-oggetto” (“Dico la verità: – ha scritto Croce – se io, filosofo, fossi in condizioni di dualismo, mi vergognerei e starei zitto”), si dà infatti sfogo alle simpatie e alle antipatie personali: ovvero, a tutte quelle preferenze (se non addirittura a tutti quei “gusti”) che dipendono, in prevalenza, dalla costituzione, dal temperamento e dal carattere. Ad esempio, i caratteri “astenici” (o neuro-sensoriali) saranno per lo più inclini a dipendere antipaticamente dall’“oggetto” (temuto), mentre quelli “stenici” (o metabolici) saranno per lo più inclini a dipendere simpaticamente dal “soggetto” (amato). Quest’ultimi, avendo optato più o meno consapevolmente per il soggetto relativo (l’ego), e non per quello assoluto (l’Io), andranno però difficilmente al di là di una visione meramente “psicologistica” o “soggettivistica” delle cose.

 

Ma torniamo a noi e occupiamoci – come ci siamo riproposti – della parte inferiore dello schema.

 

 

“In che modo – si chiede Steiner – l’altro elemento, che abbiamo finora indicato solo come oggetto dell’osservazione e che si incontra con il pensare nella coscienza, penetra nella coscienza stessa?” (p.51).

Per capirlo – dice poi – “dobbiamo rappresentarci un essere che, sorgendo dal nulla con intelligenza umana pienamente sviluppata, si affacci al mondo. Quello di cui si accorgerebbe prima di mettere in attività il suo pensare è il puro contenuto dell’osservazione. Il mondo non gli mostrerebbe che un aggregato sconnesso di oggetti di sensazione: colori, suoni, sensazioni di pressione, di calore, gustative, olfattive; e poi sentimenti di piacere e di dispiacere. Questo aggregato è il contenuto dell’osservazione pura, priva di pensiero” (p.51).

 

 

D’accordo, il “toglier via dal nostro campo d’osservazione – come dice sempre Steiner – tutto ciò che vi è stato già portato col pensiero”, è un’operazione “artificiale”. Ma non è forse “artificiale” tutto il modo di procedere della scienza? Di cos’altro testimonia, ad esempio, un’analisi chimica se non della volontà di andare al di là di quanto ci presenta immediatamente la natura? Avremmo mai appreso, altrimenti, che l’acqua è costituita da due atomi di idrogeno e da uno di ossigeno?

Ebbene, Steiner, analizzando in modo analogo l’esperienza, prima ci fa notare che questa è costituita da un elemento percettivo e da uno di pensiero, e poi ci propone di osservare il primo allorché viene scisso e isolato dal secondo. Seguendo un tale procedimento, si realizza che, ove si desse il solo elemento percettivo, il mondo ci si presenterebbe come “un aggregato sconnesso di oggetti di sensazione”: ovvero, come una molteplicità di dati privi di qualsivoglia relazione reciproca. Ma una tale assenza di relazione altro non è che un’assenza di pensiero.

Vi ricordate di quando abbiamo parlato, citando un passo di Spencer, del fruscìo dell’erba e della pernice? Ebbene, cosa abbiamo visto allora? Abbiamo visto: prima che, attraversando la soglia che divide il mondo sensibile da quello extrasensibile, siamo saliti dal dato percettivo di “fruscìo” a quello concettuale di “effetto”, poi che, rimanendo al di là di questa soglia, abbiamo permesso al concetto di “effetto” di portarsi incontro a quello di “causa”, e infine che, riattraversando in senso inverso la stessa soglia, siamo discesi dal dato concettuale di “causa” al dato percettivo di “pernice”.

Ciò vuol dire, quindi, che la relazione tra la percezione del “fruscìo” e quella della “pernice” non è, in realtà, che la relazione tra il concetto di “effetto” e quello di “causa”: dunque, una relazione di pensiero tra due concetti e non una relazione di pensiero tra due oggetti.

 

Fatto si è che il pensiero (si perdoni il gioco di parole) non può pensare che pensieri; ed è appunto in questi che deve risolvere le cose se vuole scoprire la relazione intercorrente tra le stesse. Normalmente, tutto ciò rimane purtroppo inosservato. La nostra attenzione è infatti catturata dalle cose che osserviamo e non da ciò che ci permette di connetterle tra loro.

Pensate a un registratore: c’è un nastro che gira e sul quale rimangono impresse le parole di chi parla. Dovremmo considerare, però, che vi rimangono “impresse” anche le pause: anche quelle minime – intendo dire – che servono a dividere e a distinguere una parola dall’altra. Come dunque la continuità del nastro inudibile sta a fondamento del nesso tra la discontinuità delle parole udibili, così la continuità del pensare invisibile sta a fondamento del nesso tra la discontinuità delle percezioni visibili.

 

Si deve comunque riconoscere che nel fatto di trascurare il pensare a favore dei percepiti o dei pensati c’è qualcosa di “normale”, se non addirittura di “sano”. Si tratta infatti di uno degli aspetti di quella che usiamo talvolta indicare quale “sana” o “beata” incoscienza. L’uomo, per la propria evoluzione, è chiamato però a diventare “sanamente patologico” e non a rimanere “patologicamente sano” (“Questa non è una malattia da morirne, – dice appunto il Cristo – ma è per la gloria di Dio, affinché il Figlio di Dio ne sia glorificato”).

In effetti, chi vuole rimanere incosciente (ma ci si può solo illudere, ormai, di godere di un simile stato), evita, sì, la malattia (quella, ad esempio, della “coscienza infelice” di cui parla Hegel nella Fenomenologia dello spirito), ma perde pure, così facendo, la possibilità di quella guarigione che sola può restituire all’uomo il proprio rango e la propria dignità spirituali. “Nessuno può essere assolto – dice un “Padre del deserto” – da un peccato che non ha commesso”. E per la stessa ragione, la teologia cattolica parla del “peccato originale” come di una “felix culpa”.

 

L’ordinaria coscienza intellettuale (o – per dirla con Horkheimer – l’ordinaria “ragione strumentale” o dei “mezzi”) non dovrebbe essere – lo ripetiamo – che una base o un trampolino di lancio per la conquista di superiori gradi di coscienza. Essa si fonda sulla percezione sensibile e ci consente perciò di conoscere in modo scientifico solo ciò ch’è “fuori” di noi: non la vita, l’anima e lo spirito, cioè, bensì soltanto la morte o l’elemento fisico (è al momento della morte, infatti, che il corpo fisico – o il sòma – viene appunto a trovarsi al di “fuori” di quello eterico, di quello astrale e dell’io: ossia, “fuori” di noi).

 

Allorchè una siffatta forma mentis esaurisce il proprio compito evolutivo e si fanno perciò avvertire nuove e più profonde esigenze (quelle che potrebbero essere soddisfatte – per usare sempre le parole di Horkheimer – da una “ragione oggettiva” o dei “fini”), il “bene” dell’intelletto comincia però a trasformarsi nel “male” dell’intellettualismo. Ci si torna infatti a interrogare sulla vita, sull’anima (meno) e sullo spirito (meno ancora), ma si insiste, senza avvedersene, nell’inveterata abitudine di cercare le risposte a tali quesiti “fuori” di noi.

 

Quaesivi et non inveni: è questo, ad esempio, il titolo di un libro uscito alcuni anni fa e del quale, purtroppo, non ricordo l’autore (forse Ricciardetto: alias, Augusto Guerriero). Orbene, è come se uno di noi entrasse in una salumeria, chiedesse delle sigarette e, tornato a casa deluso per non averle trovate, scrivesse: quaesivi et non inveni. Sia chiaro che, dicendo così, non intendo affatto essere irriverente nei riguardi dell’autore, ma intendo solo mettere in evidenza il paradosso di una situazione nella quale – come proverbialmente si dice – “si cerca l’asino mentre ci si sta sopra”, o “si cercano gli occhiali mentre li si ha sul naso”.

 

E’ proprio nel momento in cui si affacciano gli interrogativi di cui dicevamo che bisognerebbe infatti cominciare a osservare, in modo innaturale, l’agire e l’essere della nostra coscienza naturale.

 

 

A ricercare – dice ad esempio Steiner – “per mezzo della riflessione pensante, quale rapporto vi sia

fra il contenuto dell’osservazione datoci per via immediata (…) e il nostro soggetto cosciente” (p.52).

Nel far questo – avverte però lo stesso – dovremo ricordarci

“che l’attività del pensare non deve affatto essere concepita come soggettiva” (p.52).

 

 

Quest’ultima affermazione allude chiaramente all’originario e oggettivo rapporto dei concetti tra loro. In proposito, ricorderete che vi dissi, una sera, che basta tirare una linea in mezzo a un foglio per dar vita a due opposti concetti: a quelli, ad esempio, di “alto” e “basso” o di “destra” e “sinistra”. Orbene, ove non si tirasse quella linea, non si evocherebbero quei concetti, e questi se ne rimarrebbero allora nella pace della loro unità originaria. Evocandoli (in virtù della percezione delle scansioni spaziali generate dalla linea), li si costringe invece a dividersi e a sperimentare – come dice Hegel – un’interiore “irrequietezza”: ovvero, la comprensibile irrequietezza di un concetto che, costretto dall’intelletto alla solitudine (a quella sancita dal “principio d’identità”), ad altro non aspira che a tornare all’insieme dal quale è stato strappato.

 

Ma se le cose stanno così – potremmo domandarci – com’è possibile allora formulare dei giudizi sbagliati?

Immaginiamo, ad esempio, che il concetto A, unito in origine al concetto B e poi da questo separato e isolato dall’intelletto, venga successivamente riunito, dal giudizio, al concetto C, anziché a quello B. Ebbene, quando ciò accade (e accade purtroppo assai spesso) ci si trova di fronte a un vero e proprio “matrimonio d’interesse”, e non a un “matrimonio d’amore”. Ma chi nutre un tale “interesse”? La nostra natura personale – possiamo subito rispondere – e, in primo luogo, la nostra natura psichica.

È a causa, infatti, della nostra “vanità” (del nostro sentire narcisistico) o della nostra “utilità” (del nostro volere egoistico) che l’interesse “particulare” prevale su quello “universale” e che l’opinione (doxa) prevale sulla scienza (episteme) o sulla verità (aletheia).

Riflettendo su questo, si può ben capire, tra l’altro, il perché la vera conoscenza sia un’ascesi: ossia, un tirocinio per superare (o “santificare”) l’ego e far sì che divenga quell’Io che è, a un tempo, il vero essere di noi stessi e del mondo. La salvezza, la redenzione o la resurrezione di noi stessi è perciò quella stessa di tutto quanto esiste e ci circonda.

 

Dice Steiner:

 

“Data l’indeterminatezza del linguaggio corrente,

mi sembra necessario intendermi col lettore riguardo all’uso di una parola che adopererò spesso in seguito.

Chiamerò gli oggetti immediati di sensazioni, dei quali ho più sopra parlato, percezioni,

in quanto il soggetto cosciente ne prende coscienza attraverso l’osservazione.

Con tale nome non indico dunque il processo dell’osservazione, ma l’oggetto dell’osservazione stessa” (p.52).

 

 

Nel testo, l’oggetto “immediato” della sensazione verrà detto dunque “percezione”.

Ma perché “immediato”? Perché tale è tutto ciò che non è stato ancora pensato, o su cui non si è ancora riflettuto.

Mentre il pensiero, in quanto cosciente, è infatti “mediazione”,

la natura, in quanto incosciente, è al contrario “immediatezza”.

 

In ogni caso, Steiner ha indubbiamente ragione di lamentare “l’indeterminatezza del linguaggio corrente”.

Ne volete un esempio? Ecco qui un Dizionario di psicologia; apriamolo alla voce “sensazione” e sentiamo cosa dice: “Sensazione viene solitamente distinta da percezione, essendo quest’ultima costituita dall’interpretazione e dall’elaborazione della sensazione”. Come vedete, viene considerata “immediata” la sensazione e “mediata” la percezione (in quanto risultante “dall’interpretazione e dall’elaborazione” della prima).

Se lo apriamo alla voce “percezione”, leggiamo infatti: “In generale quei processi che danno coerenza e unità all’input sensoriale”. Ma che cos’è l’“input sensoriale”? È ciò “che viene introdotto – spiega sempre il Dizionario – all’interno di un sistema”.

Dunque, ricapitoliamo: l’“input sensoriale” precede la “sensazione” che, a sua volta, precede la “percezione”. L’“input sensoriale” equivale dunque al “percetto”? Macché! A questa voce il Dizionario dice infatti: “Ciò che viene percepito.

Notare che percetto non dovrebbe essere confuso con l’oggetto fisico (con lo stimolo distale), o con l’energia che stimola un recettore (con lo stimolo prossimale). In ultima analisi, il percetto è fenomenologico o esperienziale; è il risultato del processo di percezione”.

 

Fate dunque attenzione: prima viene detto che il “percetto” è “ciò che viene percepito”, autorizzandoci pertanto a pensare che si tratti di un qualcosa che sta all’inizio del processo di percezione; dopo viene detto invece che lo stesso è “il risultato del processo di percezione”, e quindi un qualcosa che sta alla sua fine.

Orbene, giacché il percetto non può essere queste due cose insieme, si deve allora scegliere: o lo si colloca all’inizio, ma resta così da chiarire in che cosa differisca dall’“input sensoriale”; o lo si colloca alla fine, ma resta così da chiarire in che cosa differisca dalla “immagine percettiva”. Ecco dunque un chiaro esempio dell’“indeterminatezza” di cui parla Steiner.

Per superarla (rendendo così superfluo il generico appello al fattore “fenomenologico o esperienziale”), si dovrebbe ammettere che il “percetto” è, sì, “ciò che viene percepito”, ma che proprio “ciò che viene percepito” resta essenzialmente ignoto poiché si presenta ai sensi già trasformato in un “input” o in uno stimolo.

Come vedete, l’“indeterminatezza” discende tutta dal fatto che, alla coscienza ordinaria, la vera natura del percetto è altrettanto ignota quanto quella del concetto. Tra non molto, vedremo che è appunto una sola e medesima realtà a essere appresa in forma reale o di percetto dal volere, e in forma ideale o di concetto dal pensare.

 

Per tornare comunque a noi e tentare di fare un po’ di chiarezza, cominciamo allora col distinguere tre cose:

1) l’atto percettivo;      2) il percetto;      3) l’immagine percettiva.

 

• Diciamo “atto percettivo” il momento iniziale di quello che Steiner chiama “processo dell’osservazione”

• e diciamo invece “percetto” l’oggetto di tale atto: ossia, quello che, sempre Steiner, chiama

“oggetto immediato di sensazione” od “oggetto dell’osservazione”.

• A questi due elementi è però bene aggiungere – come si vedrà – anche quello dell’”immagine percettiva”.

 

È proprio quest’ultima, infatti, a costituire il prodotto finale

di quel processo percettivo che potrebbe essere, in breve, così riassunto.

 

Tutto s’inizia con l’osservazione (con l’atto percettivo)

e quindi con l’incontro o lo scontro dell’essere del soggetto con l’essenza dell’oggetto.

• A causa di questo incontro o scontro, l’essenza unitaria dell’oggetto si suddivide in un numero di qualità

pari a quello degli organi di senso impegnati dal soggetto nell’evento.

• Nell’ambiente, o nel “mezzo”, che lo divide dall’oggetto, l’Io sperimenta tali qualità come stimoli.

• Dai recettori degli organi di senso, questi vengono poi trasformati in impulsi nervosi che, raggiunto il cervello,

vengono sperimentati dall’Io come eventi corticali (consistenti – secondo Eccles –

“in un aumento dell’esocitosi dai reticoli vescicolari presinaptici delle cellule piramidali dei dendroni”).

 

• È così, dunque, che le diverse qualità in cui si è suddiviso l’oggetto

giungono, dopo aver attraversato (per via “afferente”) il corpo, a interagire direttamente con l’Io.

Grazie a siffatta interazione (tra “dendroni” e “psiconi”, direbbe Eccles),

• l’Io prima ricostituisce le entelechie (cioè le unità di forma e di forza, o di concetto e percetto)

• e poi prende a sperimentarle e a conoscerle (per via “efferente”) nell’anima.

 

• Nell’anima senziente (legata al corpo astrale), le sperimenta e conosce come sensazioni

• e, nell’anima razionale o affettiva (legata al corpo eterico), come concetti o elementi di giudizio.

 

• È grazie alla mediazione di quest’ultima che l’Io dunque sintetizza, giudicando, quella serie di qualità

che, prima di darsi come serie di concetti,

si era data come serie di sensazioni, di eventi corticali, d’impulsi nervosi e di stimoli.

• Tuttavia, è solo in virtù della successiva mediazione dell’anima cosciente (legata al corpo fisico),

che i portati dell’anima senziente e dell’anima razionale vengono coscientemente appresi dall’Io,

nelle forme della rappresentazione (bidimensionale) e dell’immagine percettiva (tridimensionale).

 

Nel Corso di medicina pastorale, Steiner così appunto esemplifica: • “Nel processo visivo abbiamo un primo stimolo esterno che viene suscitato anzitutto nell’io, poi penetra nel corpo astrale e giunge fino al corpo eterico; infine il corpo eterico comunica alla persona l’intera esperienza cosciente, in un certo senso urtando in ogni direzione contro l’organizzazione fisica. L’esperienza della coscienza consiste in questo urto. Il processo si svolge esattamente in questo modo (…) Nell’occhio viene esercitato lo stimolo che agisce prima nell’io, poi passa nel corpo astrale, quindi nel corpo eterico, e nel corpo eterico urta da ogni lato contro il fisico; il fisico lo respinge, e questo contraccolpo del fisico è la vera e propria esperienza visiva”.

 

Va comunque sottolineato che tutta la sottile e complessa attività dell’Io che presiede alla formazione e al consolidarsi della coscienza ordinaria dell’oggetto (cioè a dire, della sua rappresentazione e della sua immagine percettiva) si svolge allo stato di sonno e di sogno.

Si noti anche il fatto che il concetto è già “implicato” (per dirla con Gioberti) nella sensazione e che si “esplica” solo nel momento in cui l’Io lo muta in rappresentazione (e in immagine percettiva).

• “Già nell’anima senziente – osserva appunto Steiner, in Antroposofia, psicosofia, pneumatosofia – vive un pensare, seppure a livello inconscio, che viene alla luce solo nell’anima razionale e diventa consapevole solo nell’anima cosciente”.

 

È altresì importante sottolineare che

• la natura della percezione (intesa come “percetto”) è oggettiva,

• mentre quella della sensazione è soggettiva.

 

Pensate a una “fobia”. Ma credete forse che siano l’ascensore o la metropolitana, in qualità di oggettivi contenuti della percezione (in qualità di “percetti”), a scatenare l’angoscia del claustrofobo? O non è piuttosto il modo in cui tali oggetti vengono vissuti sul piano soggettivo della sensazione?

Pensate, per fare ancora un esempio, agli ultimi cinque minuti di un incontro di calcio, e al modo antitetico in cui vengono vissuti dai tifosi della squadra che sta vincendo 1 a 0 e da quelli della squadra che sta viceversa perdendo. La stessa frazione di tempo darà infatti, ai primi, la sensazione di essere interminabile e, ai secondi, quella invece di volare via troppo in fretta. Spero sia chiaro, dunque, che la sensazione rappresenta il modo in cui sperimentiamo soggettivamente (psichicamente) il contenuto oggettivo della percezione. È proprio per questo, d’altronde, che la sfera delle sensazioni (insieme a quella dei sentimenti) si trova al centro dell’interesse e del lavoro della psicologia: della scienza, appunto, della soggettività.

 

Abbiamo finora preso ad esempio degli oggetti o delle cose. Qualsiasi realtà, tuttavia, fisica, animica o spirituale che sia, ci si dà in prima istanza come “percetto”. Possono perciò essere oggetto di percezione gli istinti, i moti della volontà, le emozioni, gli stati d’animo, i sentimenti, i ricordi e – come abbiamo visto a suo tempo – perfino i pensieri.

 

Dice Steiner:

 

“L’uomo semplice considera le sue percezioni nel senso in cui immediatamente gli appaiono,

come cose che hanno un’esistenza completamente indipendente da lui” (pp.52-53).

 

 

Sarà utile ricordare, a questo proposito, quel detto Zen che suona all’incirca così: “Per l’uomo comune, le montagne sono montagne e gli alberi sono alberi; per il discepolo Zen, le montagne non sono montagne e gli alberi non sono alberi; per il maestro Zen, le montagne sono montagne e gli alberi sono alberi”.

In effetti, l’uomo “semplice” o “comune”, sostenendo che “le montagne sono montagne e gli alberi sono alberi”, dimostra di avere una visione del mondo realistica, ma ingenua. Tale visione esige perciò di essere superata non già per il suo realismo, bensì per la sua ingenuità. È quest’ultima, infatti, a provocare la reazione di tutti coloro per i quali “le montagne non sono montagne e gli alberi non sono alberi”: di tutti coloro, ossia, che, insieme all’ingenuità, gettano il realismo, o che – come si suol dire – “insieme all’acqua sporca, gettano il bambino”.

Dobbiamo comunque riconoscere che, dal punto di vista dell’evoluzione culturale, siamo sostanzialmente fermi a questo punto. Già Hegel osservava che se anche la filosofia kantiana si è distaccata “dalla coscienza comune”, la sua “affermazione che l’assoluto non si può conoscere” è divenuta, paradossalmente, convinzione “comune”.

 

Il problema, in ogni caso, non è quello di passare

da uno stato di salute “naturale” (quello del realismo ingenuo) a uno stato di nevrosi permanente (quello attuale),

bensì quello di passare, da una condizione d’incosciente certezza naturale (o corporea),

attraverso un provvisorio stato d’incertezza animica o psichica, a una condizione di cosciente certezza spirituale.

 

Risposta a una domanda

Come forse sapete, la psichiatria distingue le allucinazioni dalle illusioni. Si ha infatti un’allucinazione allorquando si ha una immagine percettiva in assenza di un oggetto o di un percetto; si ha invece una “illusione” allorquando, per un errore di giudizio, il percetto non viene riunito al suo concetto. Quando diciamo, ad esempio, che si sono prese “lucciole per lanterne” o “fischi per fiaschi” parliamo appunto di illusioni.

Ci sarebbe tuttavia da osservare che anche nel caso delle allucinazioni si tratta di un errore di “giudizio” e non di “percezione”. Per amore di precisione, dovremmo infatti dire che si ha una allucinazione allorquando si ritiene che l’immagine percettiva sia stata prodotta da un inesistente stimolo esterno (ambientale) e non da un esistente stimolo interno (organico) come quello cui si devono, ad esempio, le note allucinazioni uditive o “zooptiche” degli alcolisti.

 

In tutti i modi, le illusioni, più che un fatto psichiatrico, sono un fatto di vita quotidiana.

Le opinioni non sono infatti che delle illusioni (la Maya degli orientali).

 

Ho detto, poco fa, che, partendo da uno stato di certezza naturale, dovremmo arrivare a conquistarci, attraversando un provvisorio stato d’incertezza, uno stato di certezza spirituale. Orbene, se la prima di queste due certezze è fondata sul corpo (e modernamente rappresentata, perciò, dal realismo ingenuo dei naturalisti, dei positivisti o dei materialisti), a che cosa è dovuto invece il successivo stato d’incertezza? Lo abbiamo già detto: all’anima.

Come abbiamo visto, qualsiasi stimolo voglia affacciarsi alla coscienza deve attraversare prima il corpo e poi l’anima. Ma è qui che ci si può perdere poiché è proprio qui (nell’anima razionale o affettiva) che viene elaborato il giudizio. Per elaborare un giudizio “oggettivo” (e quindi “spassionato”), ci vorrebbe infatti un’anima “casta” (cioè un’anima che, in quanto indipendente dal corpo, fosse vera o pura anima), e in grado quindi di agire così come agiscono di norma gli organi di senso.

Allorché udiamo e vediamo, ad esempio, udiamo e vediamo attraverso le orecchie e gli occhi, ma non udiamo e non vediamo né le orecchie né gli occhi. Ciò avviene perché gli organi di senso (soprattutto – s’intende – quelli “eteropercettivi”) sono già in grado, per la loro compiutezza o perfezione, di farsi umilmente da parte, permettendoci così di apprendere non loro, bensì per mezzo di loro.

La nostra anima, però, non avendo ancora imparato a fare altrettanto finisce quasi sempre col frapporsi tra noi e il mondo; così che noi, mentre crediamo di essere in rapporto col mondo, ci scopriamo in realtà, quasi sempre, alle prese con noi stessi (con la nostra psiche).

Ciò vuol dire dunque che l’anima, anziché limitarsi a fare da “testimone” alle nozze (della forza con la forma), interviene in prima persona nel giudizio, alterandolo in base alle proprie simpatie o antipatie (la sintesi dei concetti – secondo quanto abbiamo visto – si attua infatti nella sfera dell’anima razionale o affettiva). Ove considerassimo questo, riconosceremmo allora di non portare ancora in noi un’anima, bensì solo una psiche: ovvero, un ibrido di vita animica e di vita corporea (nella lingua tedesca si distingue appunto tra seelisch – da seele – e psychisch).

 

A tale proposito, mi capita spesso di dire che la “oscuroveggenza” è ben più misteriosa, in fondo, della “chiaroveggenza”. Per quale ragione, infatti, dovremmo essere incapaci di vedere le cose così come sono? Per la semplice ragione – dobbiamo rispondere – che se non ci fosse la “oscuroveggenza” (il Kaliyuga degli orientali) non ci sarebbe nemmeno la libertà.

Senza l’intervento di forze “oscuranti” – dice infatti Steiner, ne La scienza occulta – “l’uomo sarebbe diventato un essere con una coscienza il cui contenuto avrebbe rispecchiato il mondo nelle immagini della vita conoscitiva come per necessità naturale, e non per sua libera iniziativa”.

Solo per libera iniziativa individuale ci è possibile dunque superare la “oscuroveggenza” e riappropriarci così, a un nuovo e superiore livello, della “chiaroveggenza” originaria. Superare la “oscuroveggenza” altro non significa, tuttavia, che superare e redimere l’ibrida soggettività psicofisiologica, così da rinnovarla e ritrovarla come pura soggettività animica: ovvero, come quella Iside-Sophia che Scaligero chiama, non a caso, la “Dea ignota”.

Dal punto di vista della cognizione sensibile, ciò vuol anche dire che la vita del sentire e del volere, normalmente vincolata alle sensazioni e alle rappresentazioni soggettive, deve imparare gradualmente ad accendersi e a risuonare per il concetto vivente.

Come vogliamo (o tendiamo ad affermare) infatti noi stessi (l’ego), pensando e sentendo le nostre rappresentazioni, così potremmo volere (o tendere ad affermare) lo spirito (l’Io), ove pensassimo e sentissimo invece la vita, l’anima e l’essere dei concetti (delle entità spirituali).