11° Incontro

Amor, che ne la mente mi ragiona.


 

Continua il quarto capitolo

 

Stasera, prima di riprendere e approfondire l’esame della percezione, vorrei darvi un altro esempio della confusione che regna attualmente al riguardo, leggendovi un passo di una mia dispensa del 1995, intitolata: Dall’Essere allo Spirito.

Si consideri – dissi allora – “il modo in cui si conclude quanto è scritto, alla voce “percezione sensoriale”, in un recente Dizionario di psicologia: “Le attuali conoscenze sulle relazioni inestricabili esistenti tra sensazione e percezione hanno reso il termine praticamente inutile”.

Le cose comunque non migliorano, se ci si rivolge invece a un moderno Dizionario medico. In uno di questi, alla voce “percezione”, leggiamo infatti: “Per illustrare il concetto di percezione viene classicamente riportato il seguente esempio: vedere una qualità sensibile (la bianchezza della carta) è una sensazione, vedere invece l’oggetto (la carta bianca) è una percezione”.

All’autore di questo “classico” esempio (e anche a coloro che continuano, a quanto pare, a riportarlo) è tuttavia sfuggito il fatto che la “carta” è una qualità sensibile (cartacea) assolutamente pari a quella della “bianchezza”. L’oggetto non è infatti che un “insieme” di qualità; ove si sia però incapaci di cogliere l’obiettiva realtà di tale “insieme”, si finisce allora con l’identificarlo con una o più delle qualità che lo compongono. Dal punto di vista logico, si tratta dello stesso errore che commetterebbe chiunque dicesse, ad esempio: “Le zampe, la coda e i baffi sono “parti” del gatto; il muso è invece il gatto”“.

 

Tale “insieme”non è naturalmente che l’essenza dell’oggetto, il concetto vivente o l’entelechia.

• Che il percetto altro non sia che il concetto sperimentato unilateralmente dal volere, lo conferma il fatto

che il primo mostra di possedere, a-priori, lo stesso “potere di sintesi” che il secondo mostra di possedere a-posteriori.

 

A questo punto, Steiner prende comunque a parlare del carattere soggettivo della “immagine percettiva”, e dice:

 

 

“La dipendenza della mia immagine percettiva dal mio luogo d’osservazione, la chiamerei una dipendenza matematica, quella dalla mia organizzazione una dipendenza qualitativa” (p.54).

 

 

La prima, in quanto legata fisicamente al nostro “punto di vista” (a un punto di vista che è assolutamente nostro giacché nessun altro può occupare lo spazio del nostro corpo), è dunque una dipendenza “logistica”; la seconda, in quanto legata al modo di funzionare dei nostri organi di senso (la vista, ad esempio, potrebbe essere affetta da “acromatopsia” o da “discromatopsia”), è invece una dipendenza “fisiologica”.

 

 

In ogni caso, un siffatto “riconoscimento del carattere soggettivo delle nostre percezioni – dice Steiner – può facilmente portare a dubitare se a base di esse vi sia veramente qualcosa di oggettivo” (p.54);

 

 

che è come dire che “il riconoscimento del carattere soggettivo delle nostre” immagini percettive “può facilmente portare a dubitare se a base di esse vi sia veramente” un percetto. Possiamo qui constatare quale vantaggio arrechi all’indagine il sostituire, tutte le volte che si può, il termine “percezione” con uno di quelli relativi ai diversi momenti che caratterizzano lo svolgimento di tale fenomeno.

 

E’ così ad ogni modo che comincia a vacillare il realismo ingenuo e ad affacciarsi la consapevolezza del contributo fornito dal soggetto all’opera della conoscenza. Per il realista ingenuo, l’uomo non è infatti che una specie di macchina fotografica che si limita a recepire e a riprodurre tutto ciò che lo circonda. Adesso, comincia invece a farsi strada la consapevolezza che l’uomo non è un ri-produttore, bensì un produttore. Tuttavia, nel preciso momento in cui l’attenzione si sposta dall’oggettività del corpo alla soggettività dell’anima, l’uomo guadagna sé stesso, ma perde il mondo. Se il realismo ingenuo ha infatti il mondo, ma non l’uomo, il criticismo ha viceversa l’uomo, ma non il mondo. C’è però da dire che, essendo l’uomo mondo e il mondo uomo, il realismo ingenuo vive solo nell’illusione di avere il mondo, così come il criticismo vive solo nell’illusione di avere l’uomo.

 

Come vedete, siamo di nuovo al problema del soggetto (dell’ego) e dell’oggetto (del non-ego). Infatti, il realismo ingenuo, per avere coscienza dell’oggetto, smarrisce quella del soggetto, mentre il criticismo, per avere coscienza del soggetto, smarrisce quella dell’oggetto. Ripensando allo schema che abbiamo tracciato la volta scorsa, ben si capisce come entrambi rimangano dunque al di qua della coscienza dell’Io reale.

 

In ogni caso, un esempio ancor più radicale del fatto che il sorgere della coscienza del soggetto si accompagna al tramonto di quella dell’oggetto, ci viene offerto dal cosiddetto “idealismo soggettivo” di George Berkeley.

Secondo quanto riferisce Steiner, questi afferma infatti: • “Alcune verità sono così vicine a noi e così evidenti, che basta aprire gli occhi per vederle. Una di queste è, a mio parere, l’importante sentenza che tutto il coro dei cieli e tutto ciò che appartiene alla terra, in una parola tutti i corpi che compongono il possente edificio del mondo, non hanno nessuna sussistenza al di fuori dello spirito; che il loro essere consiste nel loro venir percepiti o venir riconosciuti; e che di conseguenza, finché non vengono realmente percepiti da me o non esistono nella mia coscienza né in quella di un altro spirito creato, essi, o non esistono affatto, o esistono solo nella coscienza di uno spirito eterno” (p.55).

 

 

“Secondo questo modo di vedere, – commenta Steiner – della percezione non rimane nulla, se si fa astrazione dal “venir percepita”. Non ci sono colori se non si vedono; non ci sono suoni quando non si odono. E altrettanto come colori e suoni, non esistono estensione, forma, movimento, al di fuori dell’atto percettivo. In nessun caso noi vediamo soltanto estensione o soltanto forma; queste sono sempre congiunte col colore o con altre proprietà indiscutibilmente dipendenti dalla nostra soggettività. Se queste ultime scompaiono insieme con la nostra percezione, deve avvenire lo stesso delle prime, che sono ad essa legate. All’obiezione che, se anche figura, colore, suono, ecc. non hanno altra esistenza che quella entro l’atto percettivo, vi debbano pur essere cose che esistono senza la coscienza, ed a cui le immagini percettive coscienti sono simili, la predetta corrente di pensiero risponde: “Un colore può esser simile solo ad un colore, e una figura ad una figura. Le nostre percezioni possono essere simili solo a nostre percezioni, e a nessun’altra cosa. Anche ciò che chiamiamo un oggetto non è altro che un gruppo di percezioni che son legate fra loro in un determinato modo”“ (pp.55-56).

 

 

Vi prego di fare attenzione all’ultima frase: “un oggetto non è altro che un gruppo di percezioni che son legate fra loro in un determinato modo”; ma se “non è altro che un “gruppo” di percezioni”, qual è allora l’elemento che, appunto “raggruppandole” o riunendole, ne fa un unico e singolo “oggetto”? E tale elemento appartiene all’oggetto o al soggetto? E qual è la sua natura?

Ma continuando con questi interrogativi, rischieremmo di perdere il filo del nostro ragionamento. Torniamo perciò a noi e osserviamo che è comunque così che il mondo diventa un “oggetto” o un “non-ego”. In sostanza, quella dell’idealismo soggettivo non è che l’altra faccia del materialismo. Per quest’ultimo tutto è “oggetto”, mentre per Berkeley tutto è “soggetto”.

Vi è tuttavia da osservare che il mondo, se Berkeley avesse ragione, non sarebbe, in senso strettamente psichiatrico, che un’allucinazione. Ciascuno non farebbe infatti che immaginare, al di fuori di sé, una realtà che non esiste. Già Kant non la pensa comunque così. È importante cogliere questa differenza. Tra breve, vedremo appunto che l’idealismo “critico” non ci presenterà più il mondo come un’allucinazione, bensì – sempre in senso psichiatrico – come un’illusione. Un allucinato genera infatti l’oggetto della sua percezione dall’interno, mentre un illuso accoglie l’oggetto della sua percezione dall’esterno, ma non sa poi riconoscerlo per quello che è.

 

 

Contro l’opinione di Berkeley, – dice Steiner – non c’è comunque “niente da opporre, finché si considera solo in generale la circostanza che la percezione è condizionata dall’organizzazione del soggetto. La cosa si presenterebbe però essenzialmente diversa se noi fossimo in grado di indicare qual è la funzione che il nostro percepire ha nel formarsi di una percezione. Sapremmo allora che cosa avviene nella percezione durante il percepire, e potremmo anche determinare che cosa vi deve essere già prima che essa venga percepita” (p.56).

 

 

Ancora una volta, dobbiamo aiutarci con le nostre distinzioni. Che cosa ha detto infatti Steiner? Ha detto che il mondo può essere giudicato alla stessa stregua di un’allucinazione fintantochè si consideri unicamente il fatto che l’immagine percettiva “è condizionata dall’organizzazione del soggetto”, ma che la cosa si presenterebbe assai diversa ove fossimo in grado di risalire dall’immagine percettiva al processo che la genera e, in particolare, a ciò che, esistendo già prima, avvia tale processo; che occorrerebbe considerare, insomma, che l’immagine percettiva è il risultato di un’attività estremamente dinamica e complessa che, per essere osservata e seguita, imporrebbe di penetrare in quelle sfere della vita dell’anima in cui viviamo normalmente allo stato di sogno o di sonno.

In effetti, tutti noi ci destiamo solo nel momento in cui, esaurendosi il processo che la genera, prende forma l’immagine percettiva; ed è proprio questa circostanza a ingenerare l’equivoco. Immaginiamo che ci venga presentata una persona; saremmo dei veri scriteriati se pensassimo che è nata nello stesso momento in cui l’abbiamo conosciuta. E’ in quel momento che nasce piuttosto la nostra conoscenza di quella persona. Immaginiamo di trovarla interessante o simpatica, e di volercela perciò fare amica; non ci verrà forse spontaneo voler conoscere la sua storia: quella storia che l’ha oltretutto portata a incontrarsi con noi, in quel momento e in quel luogo?

Ecco, un’immagine del genere corrisponde abbastanza bene alla realtà di cui ci stiamo occupando. Quand’è, infatti, che ci accontentiamo di quelle presentazioni superficiali e frettolose che ci fanno dimenticare già dopo pochi istanti i nomi delle persone che ci sono state presentate? La risposta è facile: quando le persone non c’interessano. Ebbene, così è pure per le immagini percettive. Noi le incontriamo, le osserviamo, ne conserviamo perfino il ricordo, ma di rado c’interessiamo alla loro storia.

 

Ove consultassimo, ad esempio, un testo di neurofisiologia, vedremmo che tutto il processo della percezione lo si fa partire dallo “stimolo”. Già, ma cos’è uno stimolo? Ecco qui un moderno manuale di neurofisiologia. Sentiamo cosa dice in proposito. “Lo stimolo – dice – è una qualsiasi modificazione dell’ambiente la cui applicazione suscita l’insorgere di un impulso”.

Bene, immaginiamo allora di trovarci all’aria aperta, in una di quelle giornate primaverili in cui non spira un alito di vento, e di stare sdraiati su un prato a goderci il tepore e il silenzio. D’improvviso un cane si mette ad abbaiare. Ecco allora che l’aria entra in vibrazione e che tale vibrazione raggiunge le nostre orecchie. Queste avvertono siffatta “modificazione dell’ambiente” come uno stimolo che cominciano subito a trasformare in un impulso nervoso.

Orbene, com’è certo che l’impulso nervoso non è che il modo in cui reagiscono le orecchie alla vibrazione dell’aria, così è certo che tale vibrazione non è che il modo in cui reagisce l’aria all’abbaiare del cane.

 

Facciamo un altro esempio. Supponiamo che il soggetto A, rivolgendosi d’improvviso al soggetto B, gli gridi: “Attento!”. Ebbene, cos’è realmente accaduto? È accaduto che si è messo in moto un processo che ha la propria sorgente in A e la propria foce in B. Difatti, lo stimolo che raggiunge B, in qualità di vibrazione dell’aria, ancor prima di assumere questa forma, ha rivestito, nel soggetto A, quelle del pensiero e della parola. Tutto è cominciato infatti perché A prima ha avuto e poi ha espresso un pensiero. Tale espressione ha quindi modificato lo stato dell’aria che sta tra A e B e ha poi raggiunto, in qualità di stimolo, le orecchie di quest’ultimo. È solo a questo punto che, in B, si è avviato quel complesso processo di decodificazione dello stimolo che serve a riconvertirlo in pensiero rendendolo così comprensibile. Una volta tradotto il pensiero in linguaggio, A lo ha dunque affidato all’ambiente (al mezzo che può collegarlo a B) e l’aria gli ha conferito una forma dipendente in toto dalla sua natura.

È importante osservare, infatti, che la natura della modificazione dell’ambiente non dipende che da quella dell’ambiente stesso. Qualora A e B fossero stati magari due sub, avremmo visto la medesima parola produrre, in un ambiente di natura diversa, una diversa modificazione. Uno stesso contenuto, insomma, si traduce in stimoli diversi, se diversi sono i mezzi che deve attraversare per andare dall’emittente al ricevente (“ogni ambiente – dice appunto Tomatis, in Ascoltare l’universo – reagisce al suono secondo la propria struttura molecolare. L’aria, l’acqua, il ferro si comportano in modo diverso rispetto alle iniezioni sonore”).

 

Quando si dice che “lo stimolo è una qualsiasi modificazione dell’ambiente”, non si abbraccia quindi l’intero fenomeno, ma soltanto quella parte dello stesso che si è in grado di osservare mediante gli organi di senso fisici e di comprendere con l’intelletto. Noi ci avvediamo infatti dello stimolo fisico che raggiunge le orecchie di B, ma non di quel che si è prima svolto all’interno di A e che, solo nel momento in cui si è spinto all’esterno, ha ingenerato lo stimolo.

Ci sarebbe altresì da notare che A, dicendo: “Attento!”, fa diretto appello all’Io di B. Dire: “Attento!” è come dire infatti: “Sveglia!”. Ma è per l’appunto così che l’Io richiama l’Io: che l’Io “vigile” richiama cioè l’Io “dormiente”. Ebbene, dalla definizione dello stimolo che abbiamo letto, cosa trapela di tutto questo? Assolutamente nulla. In tale definizione, il processo fisico (la “modificazione dell’ambiente”) ci viene infatti presentato avulso tanto da un qualsiasi soggetto che da un qualsiasi oggetto.

Lasciatemi dire che questo è proprio uno dei luoghi in cui maggiormente si palesano i sinistri effetti della “malacultura organizzata”: ovvero, nel caso specifico, i sinistri effetti dell’associazione tra una neurofisiologia che si è fatta carico di “eliminare” il soggetto e una fisica che si è fatta viceversa carico di “eliminare” l’oggetto. È sintomatico, al riguardo, che John Eccles, per il solo fatto di aver tentato di spiegare “come l’io controlla il suo cervello”, e a dispetto del Nobel conferitogli nel 1963, sia tuttora considerato da molti neurofisiologi una sorta di eretico.

 

Torniamo comunque a noi. Dice Steiner:

 

“Io percepisco non solo altre cose, ma anche me stesso. La percezione di me stesso ha anzitutto questo contenuto: che io sono ciò che è permanente di fronte al continuo andirivieni delle immagini percettive. La percezione dell’io può sempre sorgere nella mia coscienza mentre ho altre percezioni”. Io non mi limito, ad esempio, a vedere un albero, “ma so anche che sono io che lo vedo. Riconosco inoltre che qualcosa avviene in me, mentre osservo l’albero. Se l’albero scompare dal mio campo visivo, nella mia coscienza rimane una traccia di quel processo: un’immagine dell’albero. Questa immagine, durante la mia osservazione, si è legata col mio sé. Il mio sé si è arricchito: il suo contenuto ha accolto un nuovo elemento. Io chiamo tale elemento la mia rappresentazione dell’albero. Non arriverei mai a poter parlare di rappresentazioni, se non le sperimentassi nella percezione del mio sé” (pp.56-57).

 

 

Allorché “l’albero scompare dal mio campo visivo” – dice dunque Steiner –

rimane in me “la rappresentazione dell’albero”.

 

Come abbiamo detto, una cosa è infatti l’esteriore e tridimensionale immagine percettiva dell’oggetto,

altra la sua interiore e bidimensionale rappresentazione.

• La prima la sperimentiamo “fuori” di noi,    • mentre la seconda la sperimentiamo “dentro” di noi;

e la sperimentiamo “dentro” di noi come rappresentazione,

solo dopo averla sperimentata “fuori” di noi come immagine percettiva.

 

Mentre quest’ultima, inoltre, si dà soltanto in presenza dell’oggetto, la rappresentazione se ne rende invece indipendente e acquisisce una propria durata. Ciò vuol dire dunque che l’incontro o lo scontro del mio essere con l’essenza dell’oggetto non è privo di conseguenze, e che proprio per il fatto di serbarne un’impronta duratura io mi scopro arricchito o comunque diverso.

Dall’incontro o dallo scontro col “mondo esteriore” dei percetti,

il “mondo interiore” delle rappresentazioni viene quindi modificato.

 

Dobbiamo tuttavia stare attenti a non confondere

• l’essenza dell’oggetto (l’entelechia)  •  con l’impronta rappresentativa (o mnemonica) da essa lasciata nell’anima.

 

Si devono infatti distinguere tre cose:

1) il contenuto del quale l’impronta è appunto “impronta”;

2) il processo mediante il quale il primo genera la seconda;

3) l’impronta in quanto tale.

 

Una cosa, ad esempio, sono i piedi, altra le orme, e altra ancora quel camminare che permette ai primi di imprimere sul terreno le seconde. Nel nostro caso, l’essenza dell’oggetto può essere paragonata ai piedi, la sua rappresentazione alle orme e il processo che genera la rappresentazione (ma anche l’immagine percettiva) al camminare.

 

Dice appunto Steiner:

 

“Il misconoscimento dei rapporti fra rappresentazione e oggetto

ha portato i più grandi equivoci nella filosofia moderna.

Si è messo in evidenza il mutamento che avviene in noi, la modificazione che il mio sé sperimenta,

e si è perduto completamente di vista l’oggetto che provoca la modificazione” (p.57).

 

 

Devo confessarvi che il momento in cui tutta questa vicenda cominciò ad apparirmi ben più viva e profonda di quanto non mi sembrasse all’inizio, ha coinciso con quello in cui mi sono reso conto che Steiner, proponendoci di scandagliare e di portare alla luce gli elementi e i processi inconsci che generano la coscienza ordinaria, altro non ci propone, in realtà, che di portare a compimento quella rivoluzione gnoseologica iniziata da Kant, ma dallo stesso poi fermata e soprattutto “de-formata”.

 

Mi spiego meglio. Ripensate al detto Zen che abbiamo citato in precedenza, e a quell’uomo comune, o a quel realista ingenuo, per il quale “le montagne sono montagne e gli alberi sono alberi”. Ebbene, se riflettiamo sul carattere del passaggio da questo punto di vista a quello del discepolo Zen, o dell’idealista critico, cioè a quello per il quale “le montagne non sono montagne e gli alberi non sono alberi”, ci accorgiamo che si tratta di un passaggio importantissimo poiché contrassegna la prima presa di coscienza, da parte del soggetto, del suo imprescindibile e attivo contributo alla realizzazione dell’atto conoscitivo.

Mentre il realista ingenuo dice infatti: “Io mi limito a constatare o a prendere atto che le montagne sono montagne e gli alberi sono alberi”, l’idealista critico dice invece: “Le montagne non sono montagne e gli alberi non sono alberi, poiché tanto le prime che i secondi non sono che delle mie rappresentazioni: ovvero, dei prodotti della mia attività rappresentativa”.

Già, ma lì, proprio lì – intendo dire – dove il realista primitivo crede che ci siano montagne e alberi, cosa c’è allora? Se Berkeley, a questa domanda, è pronto a rispondere: “Niente!”, Kant è pronto invece a rispondere: “Ci sono le “cose in sé”: ossia, quelle montagne in sé e quegli alberi in sé che mai conosceremo perché mai potremo trascendere la sfera delle nostre rappresentazioni”. Secondo il filosofo di Königsberg, mai sapremo quindi cosa sono le cose in sé, ma sapremo sempre e soltanto cosa sono le cose per noi.

 

Come vedete, mentre

il realista ingenuo è cosciente dell’attività dell’oggetto (o del corpo), ma è incosciente dell’attività del soggetto,

cioè di quella dell’anima (cui si devono le rappresentazioni) e di quella dello spirito (cui si devono i concetti),

idealista critico è invece cosciente dell’attività del soggetto,

ma solo per quella parte che concerne l’anima e non ancora lo spirito.

 

Lo conferma il fatto che una simile incoscienza dell’attività dello spirito (del concetto) viene significativamente a coincidere con quella del corpo (del percetto): nel sistema kantiano, a un oggetto (o non-Io) in sé sconosciuto e inconoscibile, fa infatti da pendant un soggetto (o Io) in sé altrettanto sconosciuto e inconoscibile.

 

Spero quindi sia chiaro il perché ho detto, poc’anzi, che Steiner ci esorta a portare a compimento quella rivoluzione gnoseologica che Kant ha, sì, intrapreso, ma anche fermato e “de-formato”. A che vale, infatti, evadere dalla prigione del corpo (del realismo ingenuo) se si deve poi finire in quella dell’anima: se si deve finire, cioè, nella non meno angusta prigione della soggettività, del relativismo o dell’illusione?

È vero che, superando le grevi e ottuse convinzioni del realismo ingenuo, abbiamo preso finalmente coscienza della nostra attività e di noi stessi; ma a che giova questo se, anziché rappresentare – come dovrebbe – l’accesso alla luminosa via che conduce a una piena conquista della nostra realtà e di quella del mondo, rappresenta invece – come non dovrebbe – l’accesso a un vicolo cieco che arresta il nostro cammino e ci chiude o ci isola in una specie di sogno?

Stando a Kant, infatti, come un pulcino è chiuso nel guscio del suo uovo, così ciascuno di noi sarebbe chiuso nel guscio delle proprie rappresentazioni. Mentre al pulcino è data però la speranza di poter un giorno rompere il guscio e venir fuori, all’uomo non sarebbe data invece che la possibilità di rassegnarsi all’idea di non poter mai raggiungere davvero sé stesso, gli altri e il mondo (nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia, Hegel osserva appunto: “Kant, mostrando che il pensiero ha giudizi sintetici a priori, giudizi che non vengono attinti alla percezione, mostra il pensiero come concreto in se stesso. Siamo in presenza a una grande idea, che assume però, d’altra parte, un significato volgarissimo, poiché il suo particolare svolgimento resta racchiuso dentro vedute grossolane ed empiriche e a nulla può meno pretendere che ad avere forma scientifica”).

 

Volendo usare una metafora di carattere sessuale, potremmo anche dire, perciò, che – stando a Kant – dovremmo tutti rinunciare alla “còpula” e rassegnarci all’“onanismo”. Chi ritiene che una metafora del genere sia inappropriata o di dubbio “gusto”, farebbe allora bene a consultare la Filosofia erotica di Franz von Baader (1765-1841). Uno degli scritti che compongono quest’opera reca infatti il seguente titolo: Sull’analogia dell’istinto di conoscere e dell’istinto di generare.

Orbene, la fondatezza di una simile analogia viene confermata dalla scienza dello spirito. In una conferenza tenuta a Berlino nell’aprile del 1909, sul tema: L’Iside egizia e la Madonna cristiana, Steiner dice infatti: “Nell’antichità vigeva dappertutto una viva consapevolezza del fatto che il processo conoscitivo è una specie di fecondazione. Nella Bibbia c’è dato di leggere: “Adamo conobbe la sua donna e diede vita a…”. Lo spirituale che noi oggi riceviamo conoscitivamente, dà vita a ciò che di spirituale vive nell’anima. Si tratta di un ultimo vestigio della fecondazione delle origini. Il nostro conoscere ci mostra come noi veniamo tuttora fecondati dallo spirito universale: lo accogliamo dentro l’anima per poter conseguire l’umano conoscere, sentire e volere”.

 

Stando così le cose, non è dunque inappropriato o di dubbio “gusto” ricercare delle “analogie” tra le cosiddette “perversioni” dell’“istinto del generare” e quelle dell’“istinto del conoscere”, così come non è inappropriato o di dubbio “gusto” il porre sia la concezione “allucinatoria” di Berkeley sia quella “illusoria” di Kant in rapporto con l’onanismo. A ben vedere, questa perversione consiste infatti nel destinare alla sterilità ciò che sarebbe altrimenti (e per natura) destinato alla fecondità. Ebbene, in tanto il soggetto mira, mediante l’atto conoscitivo, a raggiungere l’oggetto, in quanto sa che un simile raggiungimento equivale a una feconda e sottile trasformazione dell’uno e dell’altro: del soggetto stesso, cioè, e del mondo.

Sul piano gnoseologico, la sterilità corrisponde dunque all’agnosticismo: ossia, a tutti quegli atteggiamenti conoscitivi che manifestano, in un modo o nell’altro, una sorta di “volontà d’impotenza”. E perché mai la “volontà d’impotenza” dovrebbe essere meno patologica di quella di “potenza”?

Sapete che Freud ha creduto d’individuare, tra i diversi “complessi”, anche quello cosiddetto di “castrazione”. Peccato, però, che sia rimasto convinto di aver così messo in luce una minaccia che incomberebbe sull’organo genitale maschile, e non invece – come sarebbe stato senz’altro più proficuo – sulla forza del pensare libero (del volere nel pensare) e sull’Io che ne è il portatore. Nemesi vuole, tuttavia, che chi impedisce all’Io di essere il soggetto che è, finisce pure con l’impedire al mondo di essere l’oggetto che è. Ed è appunto un mondo che non è il mondo a non potersi mai incontrare con un io che non è l’Io.

 

Cosa dunque significa, per tornare a noi, portare a compimento la rivoluzione gnoseologica? Significa sviluppare la coscienza dello spirito e, nella fattispecie, del concetto. Finora, nell’ambito dell’atto o del processo conoscitivo, abbiamo infatti considerato i ruoli svolti dall’atto percettivo, dal percetto, dall’immagine percettiva, dalla sensazione e dalla rappresentazione, ma non ancora, e in modo chiaro, quello svolto dal concetto.

Cominciamo quindi col dire che il concetto è cosa diversa dalla rappresentazione.

• “Le rappresentazioni in genere – dice appunto Hegel nella Enciclopedia delle scienze filosofiche

possono essere considerate metafore dei pensieri e concetti”.

• Il che significa che le rappresentazioni non sono che delle “illustrazioni” dei concetti.

 

In effetti, l’essere unidimensionale del concetto si muta prima nell’essere bidimensionale della sua viva immagine

e poi, allorché questa si rispecchia nell’organo cerebrale, nel non-essere o nella parvenza della rappresentazione.

La nostra coscienza ordinaria non è dunque che una coscienza rappresentativa.

È per questo che alla stessa – come dice ancora Hegel – sembra “che, a toglierle la rappresentazione,

le si tolga un terreno senza il quale essa non ha più la sua base solida e abituale”.

 

Sembrerebbe chiaro, ma non è così. L’anno scorso, ad esempio, Francesco Sarri ha pubblicato un dotto studio su Socrate e lo ha così intitolato: Socrate e la nascita del concetto occidentale di anima. Orbene, se si ritiene di dover parlare di un “concetto occidentale” di anima è perché – non si può che supporre – lo si vuole differenziare da quelli che si hanno a Est, a Nord e a Sud. Ove fosse così, si avrebbero però quattro diversi “concetti” di anima.

Già, ma cosa sarebbe allora l’anima in sé? Cosa sarebbe, ossia, quell’unica realtà della quale, a Ovest, a Est, a Nord e a Sud, si danno quattro visioni diverse? Come potete vedere è impossibile rispondere a questa domanda se non si rimettono prima a posto le cose: se non si dà cioè al concetto quel ch’è del concetto e alla rappresentazione quel ch’è della rappresentazione. La verità, infatti, è che di uno stesso concetto di “anima” si danno, a Ovest, a Est, a Nord e a Sud, quattro diverse rappresentazioni. Ebbene, se anche uno studioso del calibro di Sarri cade in un equivoco del genere, potete ben immaginare come vadano per il resto le cose.

 

A dirla tutta, noi non ci rappresentiamo le cose, bensì i concetti; ma possiamo rappresentarceli solo quando percepiamo le cose in cui sono incarnati o attraverso le quali si manifestano. Ma cos’altro credete che sia l’imperscrutabile “cosa” in sé di Kant se non il concetto (ovverosia, una perscrutabile “idea” in sé)?

 

Abbiamo già detto, infatti, che

• il concetto è il percetto sperimentato dal pensare,

mentre il percetto è il concetto sperimentato dal volere,

e che il concetto e il percetto sono quindi una stessa realtà

sperimentata, dal pensare, nella sua forma e, dal volere, nella sua forza.

 

Se la rivoluzione gnoseologica è dunque cominciata nel momento in cui Kant ha scoperto la differenza tra il “noumeno” (il percetto) e il “fenomeno” (l’immagine percettiva), si può allora prevedere che si compirà il giorno in cui – seguendo le indicazioni di Steiner – si realizzerà che il concetto (spirituale) è diverso, da una parte, dalla rappresentazione (animica), ma anche uguale, dall’altra, al percetto (corporeo).