Le sorgenti della fantasia artistica e della conoscenza soprasensibile – II

O.O. 271 – Arte e conoscenza dell’arte – 06.05.1918


 

Sommario: Il rapporto fra arti e veggenza spirituale. Le esperienze del veggente rispetto alle diverse arti, e quella particolare con la pittura. L’esperienza dell’incarnato. Il veggente e il linguaggio. Gli inconsci processi fisiologici dei diversi artisti e il cosciente immergersi in essi del veggente. Il ponte da gettare fra la vera arte e la conoscenza soprasensibile.

 

Sin dai tempi antichi si è sempre sentito che esiste una certa affinità, o per lo meno un certo rapporto, fra gli impulsi della fantasia artistica (della creazione artistica e del relativo godimento) e quelli della conoscenza soprasensibile. A chi ha occasione di frequentare artisti capiterà spesso di sentire assai diffusa in quegli ambienti una specie di ansia, che cioè l’attività artistica possa venir disturbata dalla presenza della cosciente esperienza del mondo soprasensibile da cui la fantasia artistica deriva i suoi impulsi, dalla conoscenza soprasensibile che la scienza dello spirito aspira a conseguire.

D’altra parte è anche assai noto che certe nature artistiche, per la loro produttività vicine a ciò che sembra risplenderci dal mondo soprasensibile, appunto nell’esplicazione della loro fantasia creativa sperimentano qualcosa di simile alla veggenza. Autori di fiabe, o altri artisti che nel mondo sensibile cercano di trattare argomenti che si ispirano alle idee del mondo soprasensibile, sanno che le figure artistiche che si presentano ai loro occhi sono del tutto spirituali, e hanno la sensazione di poter entrare in rapporto con quelle figure, o che esse siano in rapporto fra loro. Nei casi in cui esiste la piena coscienza che consente di potersi staccare, quando si vuole, dall’ispirazione veggente, anche la scienza dello spirito potrà parlare di veggenza. Bisogna convenire che esistono punti di contatto fra la creatività e la fantasia artistica da un lato, e la coscienza veggente dall’altro, in grado di trasferirsi conoscitivamente nel mondo spirituale.

Tuttavia si crede di dover dire, a proposito della concezione scientifico-spirituale, che l’artista non deve farsi togliere la sua originalità dall’accogliere una consapevole conoscenza del mondo spirituale. Chi ha tale idea non si avvede di ciò che è essenziale nella relazione fra fantasia artistica e veggenza del mondo spirituale. Per percezione veggente intendiamo qui qualcosa che, del tutto indipendente, si sviluppa mediante un’attività soltanto animica, un’attività del tutto indipendente dallo strumento fisico corporeo.

Non posso oggi esporre nei particolari come sia possibile per l’anima trasferirsi libera dal corpo nel mondo spirituale. Desidero solo premettere che l’affinità e la relazione fra la pura attività, fra il puro godimento artistico, e la vera genuina veggenza spirituale, interessa oggi lo scienziato dello spirito assai più di quanto non lo interessi il rapporto fra la veggenza spirituale e gli stati visionari anormali; se anche si cerca di designarli come chiaroveggenza, essi sono tuttavia connessi solo con condizioni corporee, e non rappresentano le pure esperienze dell’anima. Per poter riconoscere la reale affinità fra la fantasia artistica e la veggenza è necessario esaminare a fondo quel che, nel vero senso della parola, le separa; e questo è importantissimo.

 

Chi è creativo con la fantasia artistica non si limiterà soltanto a cogliere e a riprodurre in sé il mondo sensibile esterno, come avviene nelle ordinarie percezioni e nel riflettere sul percepito, ma lo trasformerà, lo idealizzerà, o come si voglia dire. Non ci importa ora la direzione: se cioè si veda il mondo da realisti o da idealisti, se da impressionisti o espressionisti; quel che importa è che in ogni creazione artistica si abbia una trasformazione di ciò che di norma viene tratto dalla realtà.

 

Tuttavia nella creazione artistica la percezione del mondo esterno rimane viva. L’artista si attiene alla percezione del mondo esterno. Nella creazione artistica continua a esistere il quadro delle rappresentazioni che si riferiscono alla percezione, come anche tutto ciò che è connesso con la facoltà della memoria. Nel subconscio dell’artista continua ad agire tutto quanto egli ha accolto nella vita, e quanto più le esperienze sedimentate nell’anima continueranno ad agirvi, quanto più ricche esse saranno, tanto più ricca sarà la produzione artistica come espressione della personalità rivolta alle impressioni dei sensi, tanto più vivrà nella fantasia artistica la facoltà di rappresentazione e di memoria.

 

Così non è però nella veggenza di chi penetra nel mondo spirituale grazie alla percezione soprasensibile. L’essenziale è che si penetri nel mondo spirituale soltanto quando si sia in grado di far tacere sia la percezione sensibile esterna, sia la rappresentazione che si esplica nella facoltà della memoria. Ricordo, memoria, facoltà di percezione delle impressioni sensorie devono del tutto tacere nella conoscenza soprasensibile. È ben difficile spiegare ai nostri contemporanei che qualcosa di simile sia possibile, che sia realmente possibile portare l’anima umana con le sue forze assopite a rinvigorirsi in modo che la vita animica resti ancora presente con tutta la sua vivacità, anche quando le facoltà di rappresentazione e percezione siano soppresse.

Non si dovrà perciò obiettare alla conoscenza sopra- sensibile, ottenuta con metodica disciplina, che nella veggenza si abbia a che fare soltanto con qualcosa di simile alla facoltà mnemonica, con qualcosa che affiora dal subconscio. L’essenziale è che il ricercatore spirituale, che aspira a penetrare nel mondo soprasensibile, impari a conoscere il metodo che gli consente di eliminare del tutto la facoltà mnemonica, che la sua anima viva solo nelle impressioni del presente, nelle quali non si inserisca alcuna reminiscenza emersa dal subconscio. In tal modo l’anima, con le sue rappresentazioni e le sue esperienze, è in un mondo in cui cerca di penetrare coscientemente e in cui nulla rimane di inconscio.

 

Se però pensiamo che certe correnti mistiche, cosiddette teosofiche, aspirano a forme di confusa nebulosità, troveremo anche comprensibile che quella che noi intendiamo qui per veggenza, venga confusa con quei confusionari movimenti anche da coloro che credono di essere seguaci dell’antroposofia. Comunque non questo importa, ma che cosa vada inteso per vera veggenza.

Possiamo dunque osservare quanto sia diversa nell’essenza questa veggenza dall’attività artistica. Entrambe si fondano su atteggiamenti e stati d’animo diversi, ma chi aspira alla conoscenza soprasensibile nel senso ora indicato, a contatto con l’arte potrà fare determinate esperienze.

 

Cominciamo con un’esperienza fondamentale. Non si può essere ricercatori dello spirito dalla mattina alla sera: la percezione del mondo spirituale è legata a determinati momenti; si è consapevoli dell’inizio e della fine della condizione che consente all’anima di penetrare nel mondo spirituale. In tali condizioni l’anima è in grado per forza propria di astrarre del tutto dalle impressioni dei sensi, così che nulla più le sia presente dei colori che essi percepiscono e dei suoni che odono. La percezione del mondo spirituale deriva appunto da questo guardare entro il nulla. Si potrebbe dire: il veggente può estinguere tutto ciò che penetra in lui dal mondo esterno, tutto ciò che dall’usuale facoltà mnemonica affiora ondeggiando nella coscienza animica; non può però estinguere, neppure quando si trasferisce nello stato veggente, determinate impressioni che gli provengono dalle opere d’arte che scaturiscono realmente dalla fantasia creativa.

 

Non intendo dire che in tale condizione il veggente abbia delle opere d’arte le stesse impressioni del non veggente. Le ha solo nei momenti di non veggenza. Nei momenti di veggenza ha la possibilità, quando si trova di fronte al mondo esterno, di estinguere tutto ciò che è sensibile, tutto ciò che è di natura mnemonica, salvo quando si trova di fronte a una vera opera d’arte.

Sono esperienze specifiche. Il veggente ha determinate esperienze relative alle singole arti, e proprio nelle singole azioni la parola generica «arte» perde il suo significato usuale. Per la conoscenza soprasensibile le singole arti diventano regni a sé. L’architettura diventa qualcosa di diverso dalla musica o dalla pittura. Per comprendere veramente che cosa sia l’esperienza veggente relativa all’arte, è necessario domandarci: quando il veggente deve sopprimere le impressioni del mondo esterno e tutto ciò che fa parte della facoltà mnemonica, che cosa gli resta?

 

Rimangono vive nell’anima le tre attività che vi sono sempre presenti e di cui parla la psicologia. Pensare e percepire non sono presenti, lo sono però il sentire e il volere, anche se in modo del tutto diverso da quello della vita ordinaria. Non dobbiamo infatti confondere la conoscenza soprasensibile col nebuloso e sentimentale effondersi nel mondo spirituale che si chiama mistica. Occorre veder chiaro che la conoscenza soprasensibile, sebbene scaturisca dal sentire e dal volere, è qualcosa d’altro dal sentire e dal volere abituali. Dobbiamo inoltre tener conto che per la conoscenza veggente il sentire e il volere devono colmare l’anima in modo che essa sia in perfetta calma, che in genere anche tutto l’uomo si trovi in stato di perfetta calma. Deve subentrare qualcosa che non avviene di solito in noi per il sentire e il volere: questi devono svilupparsi del tutto rivolti verso l’interno. Di solito gli impulsi di volontà si sviluppano manifestandosi verso l’esterno, ma nella veggenza non deve esservi alcuna manifestazione rivolta all’esterno. Le danze dei dervisci o simili sono assolutamente opposte alla vera conoscenza del mondo spirituale.

 

Sviluppandosi sentire e volere verso l’interno, ne scaturisce un’attività animica luminosa ben delineata, un’attività dell’anima simile alle forme del pensiero. La forma abituale del pensiero è qualcosa di un po’ sbiadito. Dal sentire e dal volere del veggente scaturisce invece qualcosa di oggettivo e determinato, certo non meno pervaso di realtà del pensiero ordinario.

 

Proprio le esperienze fatte con l’arte ci consentono di caratterizzare ciò che il veggente esplica in particolare nelle sue facoltà animiche. In quanto tenta di trasferirsi nelle forme e nelle proporzioni dell’architettura, in quel che l’architetto incanta nelle sue costruzioni, egli si sente affine alle proporzioni e alle armonie architettoniche, al pensiero del tutto diverso che si sviluppa in lui in quanto veggente, al pensiero del tutto diverso da quello pallido e sbiadito della vita corrente. Si potrebbe dire: il chiaroveggente sviluppa un pensare nuovo, un pensare che a nulla è tanto affine quanto alle forme in cui pensa l’architetto, alle forme create dall’architetto. Il pensiero che esplichiamo nella vita corrente nulla ha a che fare con la vera veggenza. Il pensiero che si esplica nella veggenza include lo spazio nel suo sperimentare creativo.

Il veggente è consapevole di penetrare con quelle forme, con quelle viventi forme di pensiero, in una realtà soprasensibile che sta dietro al mondo dei sensi; sa però di dover sviluppare ed esplicare il suo pensiero in forme spaziali. Il veggente sente che in tutto quanto si esplica in armonia di forme e proporzioni operano volere ed emozioni. Impara a riconoscere le forze del mondo nei rapporti di numero e misura che permeano le formazioni quali vivono nel suo pensiero, e perciò si sente affine nel pensiero alle forme create dall’architetto. In quanto una nuova vita di sentimento sorge in lui, non quella della coscienza ordinaria, per un certo riguardo si sente affine alle forme create dall’architetto e dallo scultore. Nasce per la conoscenza soprasensibile un’intellettualità oggettiva che pensa in forme spaziali le quali si danno curvatura e forma con la loro stessa vita. Sono forme di pensiero mediante le quali l’anima del veggente si immerge nella realtà spirituale; il veggente le sente affini a quel che vive nelle forme dello scultore. Si possono caratterizzare il pensare e il nuovo sentire del veggente cogliendo il nesso fra le sue esperienze e architettura e scultura.

 

Del tutto diverse sono le esperienze del veggente rispetto a musica e poesia. Il veggente può entrare in relazione con la musica solo procedendo oltre la sfera di cui ho appena parlato. Anzitutto è vero che da sentire e volere rivolti verso l’interno si sviluppa questa nuova intellettualità spirituale; si è così in grado di penetrare nel mondo spirituale in modo da sperimentare che vi si entra solo con l’anima che non si serve affatto dell’organizzazione corporea. Poi si giunge a un secondo gradino; se non vi si arrivasse, si entrerebbe nel mondo spirituale in modo incompleto. Il secondo gradino consiste non solo nello sviluppo di una spiritualità intellettuale, ma nel divenire altrettanto consapevoli di vivere fuori dal corpo nella realtà spirituale, quanto di norma si è consapevoli di essere nel mondo fisico, di stare con i propri piedi sul terreno, di afferrare gli oggetti, e così via. Cominciando a saperci, a pensarci, a sentirsi immersi nel mondo spirituale, come ho appunto detto, giungiamo a sviluppare un nuovo profondo sentire e volere che non si manifesta nel mondo dei sensi. Solo sperimentandoci in questo volere, possiamo fare determinate esperienze con la musica e la poesia.

 

Si mostra allora che quanto si sperimenta nella conoscenza soprasensibile a contatto con la musica è affine al nuovo sentimento, alla nuova emozione che si sperimenta fuori dal corpo. Nella veggenza la musica viene sperimentata altrimenti che nella coscienza ordinaria, in modo da farci sentire uniti con ogni singolo suono, con ogni melodia, sì che l’anima viva in una vita fluttuante e sonora. L’anima è allora del tutto legata con i suoni, è come fluita nelle onde sonore. Posso ben dire che non si ha un’idea più precisa, un’immagine più viva di Afrodite che emerge dalla schiuma del mare, di quanto non la si riceva nella conoscenza veggente, quando l’anima umana vive nell’elemento musicale e ne emerge.

 

Come Afrodite che emerge dalla superficie del mare è circondata da creature che aleggiano nell’aria e che le si avvicinano, quasi messaggi di ciò che è vivente nello spazio, così per il veggente all’elemento musicale si associa l’elemento poetico. In quanto il veggente con la sua anima si sente per così dire emerso dall’elemento musicale, e poi di nuovo in esso, in quanto si sente identico ad esso, a questo si aggiunge quello poetico, ed egli lo sperimenta con molta intensità. Quel che sperimenta dipende dal grado di sviluppo della sua veggenza. La poesia è ben speciale. Mediante il linguaggio o altri mezzi dell’arte poetica, il poeta esprime ciò che risulta alla facoltà veggente, quando gli si accosta la poesia. Ad esempio un personaggio drammatico che il poeta rappresenta e a cui fa dire poche parole, attraverso quelle poche parole si configura nella conchiusa immaginazione di una personalità umana. Ecco perché tutto quanto in una poesia è irreale, che è solo frase, che non scaturisce con necessità dalla forza creativa, ma è soltanto costruito artificialmente, ecco perché tutto ciò ha un’azione tanto sgradevole sul veggente; in quella che non è affatto poesia, ma che tuttavia vorrebbe creare forme con delle frasi, egli vede una buffa caricatura. Mentre per lui la scultura si trasforma in intellettualità spirituale, la poesia diviene invece plastica e oggettiva, ed egli è costretto a guardarla. Egli rimira ciò che è vero, che è veramente formato dalle leggi creatrici con cui crea la natura stessa, e lo separa da quanto è stato escogitato dalla fantasia umana, quando si cerca di poetare, anche se con la propria fantasia non si è congiunti con le forze creatrici dell’universo. Tali sono le esperienze relative a poesia e musica.

 

La conoscenza soprasensibile sperimenta la pittura in modo tutto particolare. Per la conoscenza superiore essa ha una posizione unica. Come il geometra, per usare un paragone banale, deve mettere sul foglio linee e circoli per rendere visibile quella che per lui è una mera idea, così il veggente deve trasformare l’esperienza informale del mondo spirituale in un mondo formato e denso. Ciò avviene perché trasforma quel che in tal modo sperimenta in percezione interiore, in immaginazione, e se così si può dire lo colma con materia animica. In certo modo lo fa creando in una condizione interiore, creativa, veggente, una controimmagine della pittura. Il pittore forma la sua fantasia, poggiando le forze plasmatrici interiori alla percezione sensibile che vive come per lui è necessario. Partendo dall’esterno egli giunge a trasformare quel che vive nello spazio in modo che agisca in linee, in forme, in colori. Egli lo modifica nella pittura, fino a portarlo a una superficie. Il veggente parte dal lato opposto: condensa ciò che è attivo nella sua veggenza fino a conferirgli colori animici; impregna di colori, quasi come in un’illustrazione interiore, quel che altrimenti sarebbe incolore, configura immaginazioni. Occorre pensare nel modo giusto che quanto il pittore presenta da un lato, proviene invece dal lato opposto per il veggente, movendo dall’interno.

 

Per pensare la cosa, si leggano gli elementari principi contenuti negli ultimi capitoli della Teoria dei colori di Goethe sull’azione sensibile-morale dei colori: dice che ogni colore suscita un particolare stato d’anima. Il veggente lo consegue come ultimo, e colora quel che altrimenti sarebbe informe e incolore. Quando il veggente parla di aure o simili, e aggiunge i colori a quanto osserva, deve essere ben chiaro che dà colore a ciò che sperimenta interiormente come stato d’animo. Quando dice di vedere rosso, sperimenta quanto di solito si sperimenta nel rosso; è la stessa esperienza che si ha nel vedere il rosso, solo però come esperienza spirituale.

 

Quel che il veggente vede e che l’artista incanta sulla sua tela sono la medesima cosa, solo vista da lati diversi. Così il veggente si incontra col pittore, e l’incontro è un’esperienza notevole e significativa. Essa ci fa apparire la pittura come una particolare caratteristica della conoscenza soprasensibile. Ciò risulta in modo speciale in un problema tutto peculiare che tale deve diventare per ogni anima: nell’incarnato, nel colore della pelle umana che, per chi voglia immergersi intimamente in tali cose, ha in sé qualcosa di altrettanto misterioso quanto attraente, qualcosa che ci consente di guardare nei profondi rapporti della natura e dello spirito. Il veggente sperimenta l’incarnato in modo tutto speciale.

 

Vorrei qui far notare una cosa: quando si parla di veggenti e di chiaroveggenza, la gente crede che s’intendano cose che coltivano solo pochi pazzi, del tutto fuori dalla vita. Ma così non è. La seria veggenza è sempre presente nella vita. Non potremmo essere nella vita, se per determinate cose non fossimo tutti chiaroveggenti. È importante che per veggenza seria non s’intenda qualcosa di estraneo alla vita, ma solo un innalzamento di determinati lati della vita. Quando siamo chiaroveggenti nella vita ordinaria? Lo siamo in un caso che oggi è misconosciuto perché, a causa del materialismo, si fanno diverse elucubrazioni sul nostro modo di comprendere un altro io, quando ci troviamo di fronte a un altro corpo.

 

Oggi taluni affermano che si percepisce l’anima di un altro io solo mediante una subconscia conclusione. Vediamo l’ovale del viso, le altre linee umane, il colorito, la forma degli occhi, e poiché, vedendo di una persona qualcosa di corporeo, siamo abituati a pensare di trovarci di fronte a un essere umano, per analogia concludiamo che quanto è contenuto in quella forma alberghi appunto un essere umano. La conoscenza soprasensibile mostra che così non è. Quel che di un uomo ci appare nella figura e nel colorito è una specie di percezione, simile alla percezione del colore e della forma in un cristallo. In un cristallo colore, forma e superficie si impongono da sé. Nell’uomo, superficie e colorito si annullano, si rendono idealmente trasparenti; la percezione sensibile dell’altro si dissolve spiritualmente, e percepiamo direttamente l’altra anima. È un diretto trasferimento entro l’altra anima, un misterioso e mirabile processo dell’anima quando col nostro essere ci troviamo di fronte a un altro uomo. È un reale uscir da se stessa dell’anima, un reale trapassare nell’altro.

 

Questa chiaroveggenza è sempre e dappertutto presente nella vita, ed è intimamente connessa col mistero dell’incarnato. Se ne rende conto il veggente quando propone il più difficile problema della veggenza: percepire veggentemente l’incarnato. Per l’ordinaria percezione l’incarnato ha qualcosa di statico; per il veggente diventa qualcosa di mobile in se stesso. Il veggente non percepisce l’incarnato come qualcosa di compiuto, ma come uno stato in mezzo a due altri stati. Quando egli si concentra sul colorito umano osserva una continua oscillazione fra l’impallidire e l’arrossire; questo arrossire è qualcosa di più intenso del rossore ordinario e trapassa per il veggente in una specie di irradiazione di calore. Questi sono i due stati limite fra cui oscilla il colorito umano al cui centro sta l’incarnato che diventa per il veggente una vibrazione continua. Mediante il pallore il veggente si avvede di come l’uomo è nell’interiorità, di come è nell’anima e nell’intelletto; mediante il rossore riconosce come, in quanto essere di volontà, essere impulsivo, l’uomo è in relazione col mondo esterno. Vibra ciò che a un livello superiore è l’intimo carattere di un uomo.

 

Non si deve pensare che la veggenza consista in uno sviluppo superiore, e che allora si vedano tutti gli uomini e tutte le cose spiritualmente. Il cammino nel mondo spirituale è assai complicato e multiforme. Giungere a percepire l’interiorità dell’altro uomo ha come problema principale l’esperienza dell’incarnato.

Vediamo così che il veggente ha con le singole arti le più diverse esperienze. Si caratterizza ancor meglio che cosa è qui inteso, considerando un fatto che potrà indicarci in che modo la veggenza sia connessa con la vita: il rapporto fra la veggenza e il linguaggio umano.

 

Il linguaggio non è in realtà unitario, ma qualcosa che vive in tre diverse sfere. In primo luogo il linguaggio ha un aspetto per cui possiamo vederlo come uno strumento per la comprensione fra gli uomini e per la scienza. Si può chiamare paradossale quel che il veggente così sperimenta, ma è un’esperienza reale: egli sente cioè che usare il linguaggio come mezzo di intesa fra gli uomini e come espressione per la scienza razionale porta a una sorta di suo abbassamento, a una sua degradazione, a qualcosa che non è della sua intima natura. La veggenza giunge a un’altra concezione: il linguaggio è cioè uno strumento per cui un popolo vive in una comunità. Quel che vive nel linguaggio in quanto configurato in forme diverse, nelle sfumature dei suoni e così via, visto in modo giusto è artistico. In quanto mezzo di espressione di un popolo, il linguaggio è arte, è comune creazione artistica del popolo che lo parla.

 

Servendosi del linguaggio come di un mezzo quotidiano per intendersi, lo si avvilisce. Chi ha un senso per quel che vive nel linguaggio e che si manifesta nel nostro subconscio, sa che l’elemento creativo del linguaggio è affine all’elemento poetico, all’arte in generale. Chi abbia una natura artistica riceve un’impressione sgradevole nel sentire il linguaggio abbassarsi inutilmente alla sfera della comune comprensione fra la gente. Christian Morgenstern aveva quel senso; non temeva di gettare un ponte fra l’arte e la veggenza, non credeva che l’originalità dell’artista andasse perduta entrando nel mondo spirituale; sentiva che in lui l’elemento poetico del linguaggio era affine alla scultura, all’architettura. Cercando di esprimere che cosa sentiva di fronte ài linguaggio, caratterizzava il ciarlare comune come un abuso: «Ogni chiacchiera ha alla base l’insicurezza rispetto al senso e al valore della singola parola. Per chi chiacchiera il linguaggio è qualcosa di confuso. Però si vendica, creando confusione». Dobbiamo sentire come Morgenstern l’elemento creativo del linguaggio. Esso si degrada quando nella prosa diviene mezzo di comunicazione.

 

Un terzo aspetto del linguaggio è connesso con quanto il veggente sperimenta. Quel che si osserva nel mondo spirituale non si manifesta in parole, non viene espresso direttamente in parole. Per la veggenza è molto difficile farsi comprendere dal mondo esterno; la maggior parte della gente pensa infatti in parole, in modo teorico e secondo il contenuto, né riesce a immaginare una vita dell’anima che sia al di sopra delle parole. Perciò chi sperimenta il mondo spirituale con senso profondo sente come una costrizione riversare le proprie esperienze nella comune forma del linguaggio. Facendo tuttavia tacere in sé quel di solito vive nel linguaggio, ossia la facoltà della rappresentazione e della memoria, il veggente attiva in sé le forze creative del linguaggio, le stesse forze che un tempo erano attive nell’evoluzione dell’umanità, quando ebbe origine il linguaggio.

Il veggente deve trasferirsi nella condizione animica che dominava quando ebbe origine il linguaggio, deve svolgere una duplice attività: dare interiormente forma allo spirito che egli osserva e immergersi nello spirito della formazione del linguaggio, tanto da riuscire a congiungere tra loro le due attività. È perciò importante comprendere che le parole del veggente vanno intese diversamente dalle parole ordinarie. In quanto trasmette le sue comunicazioni, il veggente deve servirsi del linguaggio, ma in modo da far risorgere, armonizzandosi con le forze formatrici del linguaggio, quel che vi opera creativamente. E importante che egli configuri la parola parlata, accentuando certe cose più e altre meno, dicendone alcune prima e altre dopo, oppure mettendo da parte qualcosa. A chi aspira a trasfondere le verità spirituali nel linguaggio è necessaria una tecnica particolare per esprimere quel che vive nella sua interiorità.

 

Occorre quindi che si tenga conto di come il veggente si esprime, e non solo di quel che dice. E imporrante che in primo luogo egli dia forma, configuri il come dire le cose, soprattutto le cose del mondo spirituale; non è importante solo quel che dice. Poiché ciò viene poco considerato, poiché quando odono le parole gli uomini ricordano solo il loro significato usuale, il veggente viene compreso con grande difficoltà.

Per questo al veggente occorre sviluppare (tutto è relativo) la facoltà creatrice del linguaggio al fine di esprimere il soprasensibile attraverso il suo modo di esprimersi. Sarà sempre più necessario rendersi conto che non è importante il contenuto di quanto vien detto; importante è che si abbia la viva impressione di come il veggente si esprime, prendendo le mosse dal mondo spirituale.

Così il linguaggio può diventare un elemento artistico già nella stessa vita ordinaria. Il veggente ha con esso un rapporto tutto speciale.

 

Sorge ora la domanda: da che cosa dipende che fra l’artista e il veggente vi siano tali rapporti? da che cosa in sostanza dipende che davanti a un’opera d’arte il veggente non possa prescindere dall’impressione che essa produce in lui? E perché nell’opera d’arte si presenta qualcosa di affine alla conoscenza soprasensibile, solo in altra veste. È perché la vita umana interiore è assai più complicata di quanto non possa immaginare la scienza attuale.

 

Cercherò di presentare la cosa sotto un altro aspetto che, anche se sembra un parlare scientifico, fa presente che sempre più occorre costruire qualcosa per gettare un ponte tra l’abituale osservazione della realtà da un lato, e l’esperienza della fantasia artistica e della conoscenza soprasensibile dall’altro. Vorrei chiedere: da che cosa deriva che il musicista produca dalla propria interiorità quel che poi vive nei suoni? In merito occorre aver ben chiaro che è ancora astratta quella che di solito chiamiamo autoconoscenza. Persino quel che al riguardo ne pensano i mistici o i nebulosi teosofi è ancora qualcosa di molto astratto. Quando si crede di poter sperimentare il divino nella propria anima, è qualcosa del tutto confuso e nebuloso in confronto alla vera e concreta veggenza. È chiaro che l’uomo ha le sue esperienze interiori: pensieri, sentimenti, volizioni; in esse può immergersi, comunque le chiami: mistica, filosofìa oppure scienza. Conoscendo la sfera del vivente, si sa che tutto è troppo rarefatto, anche cercando di condensarlo interiormente. Persino con una intensa mistica sempre si svolazza al di sopra della realtà, non ci si avvicina alla vera realtà; anche come di solito si studia la natura e si sta di fronte ai processi materiali, si sperimentano solo effetti della realtà, ma non la realtà vera.

 

È vero quel che dice Du Bois-Reymond: la nostra concezione della natura non potrà mai cogliere quel che esiste nello spazio. Quando lo scienziato parla della materia esistente nello spazio, essa non si svela attraverso i mezzi con i quali cerchiamo di afferrare la realtà. Per la nostra conoscenza ordinaria abbiamo quindi da un lato la vita interiore che non si avvicina alla realtà, e dall’altro la realtà esterna che non risulta alla vita interiore. Fra le due vi è un abisso. Occorre conoscerlo, ed è un impedimento per la conoscenza umana. In nessun altro modo lo si supera, se non sviluppando nell’anima una veggenza soprasensibile, la veggenza di cui ho parlato oggi, mostrando il suo rapporto con l’arte.

 

Sviluppandola, si entra in una relazione concreta con se stessi e con la realtà materiale che è presente nel corpo. Esso diventa qualcosa di nuovo, perde la ritrosia che per così dire non gli consente di concedersi alla conoscenza interiore. Anche l’interiorità non rimane qualcosa di svolazzante al di sopra della realtà, ma si impregna, si compenetra di ciò che nel corpo ha esistenza materiale, e ogni esistenza materiale ne contiene una spirituale.

 

Cerchiamo ora di chiarircelo per l’arte musicale. Mentre si sviluppano idee musicali o di altro tipo e si percepiscono con la coscienza ordinaria, si hanno all’interno del corpo complicati stati. Nulla ne sappiamo, tuttavia essi sono presenti. La coscienza chiaroveggente penetra in quell’interiore esperienza corporea, complicata e mirabile. Il liquido cerebro-spinale, nel quale di norma è adagiato il cervello, durante l’espirazione scende nel sacco del midollo spinale e spinge il sangue nelle vene della parte inferiore del corpo; durante l’inspirazione tutto viene di nuovo sospinto verso l’alto. Un ritmo mirabile accompagna tutte le nostre rappresentazioni e percezioni. La respirazione, questo movimento plastico che si esplica nel suo ritmo, penetra nel cervello e ne esce.

Ha luogo un processo che accompagna l’interiore esperienza umana. È qualcosa, che avviene nel subconscio e che l’anima conosce. La fisiologia moderna e la biologia ignorano ancora quasi del tutto questi fenomeni, ma in futuro ne nascerà una scienza più ampia.

 

In tempi che oramai non possono più essere i nostri, si cercava la vita spirituale in altro modo, ma il modo indiano-orientale di cercare la scienza dello spirito è ormai superato; oggi possiamo studiarlo, ma sarebbe errato credere di dovervi tornare; non è per il nostro tempo, porterebbe l’umanità fuori strada. I nostri metodi sono assai più intellettuali; possiamo tuttavia studiare che cosa volesse l’antico indiano: una gran parte della disciplina atta a conseguire una conoscenza superiore consisteva nel dare un corso ritmico e ordinato alla respirazione, aspirava a regolare il processo della respirazione. Confrontando quel che si cercava con quel che ho appena detto, si troverà che il discepolo yoga cercava di sperimentare in sé proprio ciò di cui ho parlato, grazie a un sentire interiore delle vie respiratorie. L’indiano riusciva a sperimentarlo, cercando di sentire il processo della respirazione col suo ritmo ascendente e discendente.

 

I nostri metodi sono diversi. Chi cerca di comprenderli scopre che non aspiriamo più a immergerci fisicamente nell’organismo, ma con la meditazione che prende le mosse dall’intelletto cerchiamo di cogliere il flusso discendente, e con gli esercizi della volontà il flusso ascendente; in tal modo aspiriamo a contrapporci con la nostra vita animica al flusso, a sentirlo nel suo ritmo ascendente e discendente.

 

In questo consiste un certo progresso nell’evoluzione dell’umanità. È qualcosa di cui la scienza e la coscienza ordinaria nulla sanno, ma l’anima lo sa nel suo profondo. Quel che l’anima sa e sperimenta può venir sollevato alla coscienza in condizioni particolari. Vi è sollevato quando si abbia per la musica una natura artistica. Come avviene? Nella condizione normale, che potremmo anche chiamare borghese, vi è un forte legame fra l’elemento animico-spirituale e quello fisico-corporeo. Il primo è molto vincolato ai processi descritti. Se però l’equilibrio è labile, e l’animico-spirituale si libera grazie a questa struttura, che deriva da un destino interiore, si è musicali e ricettivi per tutto ciò. Dipende da un rapporto labile una particolare disposizione artistica anche in altri campi. Chi è dotato artisticamente è in grado di sollevare a coscienza quel che altrimenti si svolge nell’anima (e nel profondo tutti siamo musicisti).

Chi ha uno stabile equilibrio non riesce a sollevare a coscienza quel che vi avviene; non è artista. Chi è in equilibrio instabile fra anima e corpo (e qui gli scienziati pedanti parlano di degenerazione) solleva più o meno con chiarezza a coscienza quel che si svolge nell’anima con ritmo interiore, e gli dà forma col materiale sonoro. Osservando il flusso delle onde nervose dal basso verso l’alto, verso il cervello, incontriamo quello che possiamo caratterizzare come elemento musicale. Resta ancora nel subconscio come il nervo ottico si distribuisca nell’occhio e come sia connesso con i vasi sanguigni: avviene comunque qualcosa che si estingue per la coscienza quando ci contrapponiamo alla natura esterna. Quando siamo di fronte al mondo sensibile esterno, l’impressione esterna si estingue. Ma quel che si svolge fra le onde nervose e i processi sensori fu sempre per così dire di natura poetica; in ogni essere umano vive un poeta. Dipende dall’equilibrio fra anima e corpo se il processo rimane nascosto o viene sollevato alla luce e trasfuso in poesia.

 

Osserviamo ancora il processo di irradiazione, l’onda che fluisce verso il basso e urta contro le diramazioni dell’onda sanguigna: qui si manifesta l’inserirsi del nostro equilibrio nell’equilibrio del mondo circostante.

Molto forte è l’esperienza subconscia quando il bambino passa dalla posizione carponi a quella eretta, giungendo così all’equilibrio. È una straordinaria esperienza subconscia, ed è molto significativo che l’essere umano abbia quello che nella scimmia è presente solo in forma caricaturale: che cioè la linea che passa attraverso il centro del corpo coincida con la linea della forza di gravità: è una straordinaria esperienza interiore. Si sperimentano così nell’inconscio i rapporti architettonici e scultorei. In quanto l’onda nervosa s’incontra verso il basso con la corrente sanguigna si sperimentano così nel subconscio l’architettura e la scultura, e saranno anche qui i rapporti labili o stabili a consentire che tutto ciò venga più o meno sollevato alla coscienza e portato ad espressione.

 

Nelle sue manifestazioni la pittura vien sperimentata interiormente dove si incontrano onde nervose e sanguigne. Il processo artistico è cosciente, ma gli impulsi sono inconsci. La veggenza si immerge coscientemente nell’impulso base della fantasia artistica come esperienza interiore che non va caratterizzata in astratto come è in uso oggi, ma tanto concreta che ogni singola fase si ritrova nella configurazione del proprio corpo. Nei tempi antichi si aveva un giusto senso per l’architettura e si sentiva che ogni sua forma, ogni sua proporzione, era sperimentata immergendosi nel mondo esterno. L’architettura antica scaturiva da un modo diverso di sentire le proporzioni che non l’architettura gotica; entrambe scaturiscono tuttavia dal sentimento che l’uomo ha del rapporto fra il proprio equilibrio e quello del macrocosmo. In questo si riconosce di essere con la propria struttura un’immagine del macrocosmo. Per questo il corpo umano è chiamato il tempio dell’anima. Espressioni del genere racchiudono una grande verità. Possiamo dire: in sostanza le stesse fonti a cui attinge l’artista per la sua attività (quando sia serio nel suo rapporto con la realtà) sono le stesse a cui attinge il veggente; a lui si presenta coscientemente ciò il cui effetto deve rimanere impulso, mentre quando rimane subconscio l’impulso viene portato ad espressione dall’artista.

 

Risulta così che queste due sfere dell’esperienza umana sono ben separate, e risulta anche quanto sia infondato temere che l’originalità dell’artista vada perduta con la veggenza. Questa si sviluppa in modo da essere separata dall’attività e dall’esperienza artistica; le due cose non possono però nuocersi a vicenda, se sperimentate giustamente. Al contrario.

Siamo in un’epoca in cui l’umanità deve diventare sempre più cosciente, sempre più libera. È perciò necessario che da parte dell’artista stesso si faccia luce sull’arte; in tal modo si getta un ponte fra le due sfere che non si disturbano a vicenda, fra l’arte e la veggenza.

 

È comprensibile che l’artista si senta turbato, se l’estetica si sviluppa secondo il modello della scienza moderna, ossia in modo scientifico-razionale. Oggi non esiste ancora una conoscenza, una scienza che penetri veggentemente nella vera arte. In avvenire una tale scienza sarà sentita dagli artisti non in modo disturbante, ma fecondo.

Chi guarda al microscopio sa come si deve procedere per imparare a vedere le cose bene; come prima occorra acquistare dall’interno la facoltà di guardare giustamente al microscopio (e lo sguardo verso l’esterno sarà stimolato e non impedito), così verrà un tempo in cui la vera veggenza promuoverà, pervadendola e compenetrandola, l’elementare facoltà creativa dell’artista.

 

Quella che intendiamo per veggenza viene a volte misconosciuta, perché la scienza e la conoscenza soprasensibili vengono intese troppo secondo il modello della scienza e della ordinaria conoscenza sensibile.

Chi si avvicina alla scienza dello spirito si sente a volte deluso: non trova facili risposte alle sue domande personali, ma trova altri mondi che spesso presentano enigmi ben più profondi di quelli del mondo sensibile. Coltivando la scienza dello spirito sorgono nuovi enigmi che non si possono risolvere in teoria, ma mostrano di poter essere risolti in modo vivente solo nei processi della vita, per generare poi nuovi enigmi. Penetrando nella vita superiore, si resta affini all’arte. Hebbel pretendeva che i conflitti restassero insoluti, e trovava pedantesco che Grillparzer, nonostante la bellezza delle sue tragedie, cercasse sempre di dar una soluzione ai conflitti dei suoi protagonisti.

 

La vera veggenza non porta facili risposte, ma crea nuove concezioni del mondo in aggiunta a quelle offerte dal mondo sensibile. Certo, artisti veramente profondi lo hanno già intuito. Nel suo volume Stufen, Morgenstern dice che chi, come artista, vuole davvero avvicinarsi allo spirito, deve esser pronto ad accogliere in sé quel che già oggi, mediante la conoscenza soprasensibile, si può comprendere del divino-spirituale. Egli dice: «Chi si immerge solo col sentimento nelle esperienze che si possono raggiungere nella sfera divino-spirituale e non vuole entrarvi conoscendo, assomiglia a un analfabeta che per tutta la vita dorma col sillabario sotto il cuscino».

 

Ciò caratterizza il grado di civiltà in cui ci troviamo. Chi sia in condizione di esaminare quali siano le esigenze del nostro tempo, come Morgenstern, dovrà giungere a questa constatazione: non è lecito restare analfabeti rispetto alla conoscenza soprasensibile; in quanto artisti dobbiamo cercare i nessi verso la conoscenza chiaroveggente. Come è importante che l’elemento veggente getti luce sull’attività artistica, così è importante che ciò che non segue le muse, che sia loro molto contrario, e che esiste ancor oggi nella cosiddetta veggenza di taluni filistei, si faccia fecondare dal buon gusto artistico. Che possa essere gettato un ponte tra l’arte e la veggenza è più importante per il vero scienziato dello spirito del futuro di tutte le forme patologiche di veggenza.

 

Chi vede queste cose sa che per la salute dell’umanità presente e futura sempre più si dovranno cercare i nessi spirituali, la conoscenza spirituale. La luce della veggenza dovrà risplendere nell’arte, affinché il calore e la grandezza dell’arte operino feconde sull’ampiezza e la grandezza dell’orizzonte della veggenza. È necessario per un’arte che voglia penetrare nella vera esistenza: ci è necessario per attuare i grandi compiti che sempre più dovranno affiorare nella coscienza umana da profondità indistinte.