Conoscenza spirituale e lavoro artistico

O.O. 271 – Arte e conoscenza dell’arte – 01.06.1918


 

Sommario: Le relazioni fra la moderna veggenza e l’arte. La scultura in relazione al senso dell’equilibrio e del movimento. Arte e critica dell’arte. Veggenza, poesia e musica. I processi fisiologici alla base della creazione musicale e poetica. L’organismo umano, immagine del macrocosmo. Il veggente e il linguaggio. La percezione dell’altro uomo è vera veggenza. L’incarnato. L’esperienza dei colori e delle forme e specialmente quella del veggente nella pittura. La reciproca fecondazione fra veggenza e arte.

 

Alcuni amici, che erano stati presenti alle mie conferenze di Monaco sulle relazioni fra scienza dello spirito e arte, erano dell’opinione che anche a Vienna dovessi esporre gli stessi pensieri. Seguo dunque quella richiesta, ma prego tuttavia di considerare che quanto dirò questa sera è inteso in una forma senza pretese e che inoltre farò solo osservazioni brevi in merito a quel che vi è da dire sulle relazioni fra quella che si può chiamare moderna veggenza, verso cui tende la scienza dello spirito antroposofica, e il lavoro artistico, inteso anche come godimento artistico.

 

Di fronte alle considerazioni che ora ci proponiamo di fare può esservi un certo pregiudizio (e i pregiudizi non sempre sono infondati) basato sull’opinione che in effetti il lavoro artistico, il sentire e il godimento artistici in nessun modo sono collegabili a concezioni sull’arte, a ogni conoscenza sull’arte. Moltissimi che sono attivi nell’arte sono dell’opinione che in realtà la cosa più elementare che deve esservi nel lavoro artistico e nel relativo godimento viene disturbato aggiungendo in qualche maniera troppi pensieri, concetti e idee a quel che l’artista sperimenta. Credo senz’altro che sia fondato quel pregiudizio, se riferito a quella che si può chiamare astratta estetica scientifica in senso tradizionale. Intendo dire che quella scienza viene a ragione rifiutata da una visione artistica, perché una vera sensazione artistica viene in effetti inaridita e danneggiata da tutto ciò che in qualche modo viene indirizzato verso uno studio scientifico inteso in senso tradizionale.

 

D’altra parte viviamo però in un tempo in cui, per una certa necessità storica, molto di quanto fino ad ora poteva agire inconsciamente nell’uomo deve diventare cosciente. Come non siamo in grado di mitizzare le relazioni sociali fra uomo e uomo, come avveniva in passato, così, proprio a seguito dello sviluppo evolutivo dell’umanità, siamo obbligati a cercare rifugio in una vera comprensione di quanto pulsa nel divenire storico, se vogliamo conoscere la struttura sociale, la convivenza sociale e così via fra gli uomini; allo stesso modo è necessario portare a coscienza molto di quanto a ragione, in modo più o meno cosciente, si cercava nell’azione istintiva della fantasia umana. Sarebbe portata a coscienza, anche se non lo si volesse. Se però lo fosse in modo contrario al progresso creativo, avverrebbe appunto quel che si dovrebbe evitare: ostacoli all’attività artistica istintiva, ostacoli che vanno appunto eliminati in tale attività.

 

Io non parlo né da estetico, né da artista; parlo come rappresentante della ricerca scientifico-spirituale, come rappresentante di una concezione del mondo che è spinta a penetrare conoscitivamente nel vero mondo spirituale che è alla base del nostro mondo sensibile, affinché sempre più vi si possa entrare grazie alla progressiva evoluzione dell’umanità. Non parlo di una qualsivoglia speculazione metafisica, non parlo di una qualsivoglia filosofia, ma di quella che vorrei chiamare esperienza soprasensibile. Non credo che occorrerà molto tempo per riconoscere che ogni speculazione solo filosofica e ogni ricerca logica o scientifica sono inadatte ad entrare nel mondo spirituale. Credo che inizi un’epoca che riconoscerà come del tutto naturale che nell’anima umana sonnecchino forze che possono essere estratte dall’anima in maniera regolata e sistematica.

 

Nei miei libri l’Iniziazione, Enigmi dell’anima e in altri ho descritto come si possano risvegliare quelle forze nell’anima umana. Per conoscenza spirituale intendo cioè qualcosa che in sostanza ancora non esiste e che oggi viene preso in considerazione solo da poche persone, qualcosa che non vuole continuare una forma di conoscenza già esistente, sia essa mistica o scienza, ma che intende acquisire un modo particolare di conoscenza umana, raggiungibile metodica- mente se l’uomo, risvegliando determinate forze che sonnecchiano nell’anima, acquisisce uno stato di coscienza che si comporti nei confronti dell’abituale stato di veglia, come questo verso la vita di sonno e di sogno. Oggi in sostanza si conoscono solo due stati contrapposti della coscienza umana: l’ottusa, caotica e smorzata coscienza di sonno, vuota solo in apparenza, e la coscienza di veglia, dal risveglio fino all’addormentarsi. Arriviamo a collegare le semplici immagini della vita di sogno alla realtà fisica esterna, quando dorme la nostra natura volitiva che ci mette in relazione con le cose del mondo circostante. In modo analogo l’umanità, evolvendosi ulteriormente, può arrivare a operare un risveglio dalla coscienza di veglia a quella che chiamo coscienza veggente con la quale non si percepiscono oggetti e processi esterni, ma un vero mondo spirituale che è alla base del nostro mondo fisico.

 

I filosofi vorrebbero dischiudere quel mondo; non lo si può aprire, ma solo sperimentare. Quanto poco nella vita di sogno si può sperimentare il mondo fisico circostante, altrettanto poco è possibile nella coscienza di veglia sperimentare il mondo spirituale che ci circonda: non con la mistica, non con l’astratta filosofia, ma solo portando in un altro stato l’atteggiamento dell’anima, come si passa dalla vita di sogno alla normale coscienza di veglia.

 

Parliamo così di un mondo spirituale dal quale deriva l’elemento spirituale-animico, come quello fisico-corporeo deriva dal mondo dei sensi. Un’indagine spirituale del genere viene oggi del tutto disconosciuta nella sua peculiarità. La gente è infatti tale che giudica quanto le si presenta in base alle idee che già ha, a volte persino in base alle parole che già conosce; vuole collegarsi a qualcosa di noto. Per quanto riguarda i risultati della coscienza veggente non è così, perché essi non sono già noti. Per coscienza veggente (che per non essere fraintesi si potrebbe anche chiamare «osservante»), per coscienza chiaroveggente non intendo qualcosa di superstizioso. Quel che deriva dalla veggenza viene giudicato da ciò che già si conosce. La si è avvicinata ad ogni possibile cosa di dubbia natura, quali la vita visionaria, allucinatoria, medianica e così via. Quella che qui intendo proprio nulla ha a che fare con tutto ciò. Tutte le condizioni che ho prima indicate sono la conseguenza di una patologica vita dell’anima che penetra più a fondo nel corpo fisico e presenta immagini provenienti dal corpo fisico.

 

Quella che chiamo coscienza veggente fa proprio il cammino opposto. La coscienza allucinatoria penetra nella sfera corporea al di sotto del normale atteggiamento dell’anima, quella veggente ne va al di sopra, vive e agisce soprattutto e soltanto nell’elemento spirituale-animico, rende l’anima del tutto libera dalla vita corporea. Nella normale coscienza è libero dalla vita corporea solo il puro pensare, e per questo molti filosofi lo negano, perché non credono che l’uomo possa sviluppare un’attività che sia libera dal corpo. Il punto di partenza è formare una coscienza veggente che arrivi al mondo spirituale dove nulla di fisico sia più attorno a noi. La coscienza veggente non si sente assolutamente affine a qualsiasi atteggiamento medianico o visionario; lo è invece molto ad una vera comprensione artistica del mondo. Vorrei sperare che proprio fra questi due modi umani di osservare il mondo sia possibile gettare un ponte in modo non pedantesco, ma artistico, cioè fra una vera e pura veggenza e l’esperienza artistica, sia di creazione, sia di artistico godimento.

 

Per chi vive nella veggenza è senz’altro un’esperienza che la sorgente, la vera sorgente dalla quale attinge l’artista è proprio la stessa nella quale il veggente, l’osservatore dei mondi spirituali, fa le sue esperienze. Solo che fra il modo col quale il veggente cerca di fare le sue esperienze e di tradurle in concetti e in pensieri, e il lavoro dell’artista vi è una differenza, una notevole differenza, e di essa forse oggi potremo parlare. Va comunque sottolineato che la sorgente alla quale attingono artista e veggente è in realtà la stessa.

 

Prima di addentrarmi in questo problema principale, vorrei fare alcune osservazioni preliminari che a qualcuno potranno sembrare banali e che tuttavia null’altro pretendono se non mostrare che la visione artistica del mondo non è qualcosa che viene aggiunto alla vita solo arbitrariamente. La visione artistica del mondo appare a chi tende a una certa totalità, a una certa completezza della vita, come qualcosa che fa parte della vita come la conoscenza e la banale attività esteriore. Non è pensabile un’esistenza civile degna dell’uomo se non compenetrata da un sentire artistico.

 

Occorre realmente rendersi conto che ovunque si vada o si rimanga, in noi è latente l’impulso ad afferrare il mondo in modo estetico, artistico. In merito vorrei fare qualche esempio. Abbastanza spesso non portiamo a coscienza l’esperienza artistica che accompagna fra le righe la nostra esistenza; vive piuttosto sotto la soglia della coscienza. Se mi capita di far visita a qualcuno ed entro in una stanza con pareti e tappezzeria rosse, e il mio ospite entra e parla delle cose più sciocche, o magari non parla affatto o si comporta da noioso, sento che c’è qualcosa di non vero. L’impressione rimane nel sentire, non diventa pensiero, ma io sento che vi è qualcosa di non vero. Per quanto possa sembrare strano e paradossale, se qualcuno tappezza di rosso la sua stanza, mi delude se nello spazio in cui mi riceve non mi porta incontro pensieri di una qualche importanza. Tutto ciò può naturalmente non essere verità, può non avvenire, e tuttavia accompagna la nostra vita dell’anima. Al fondo della nostra anima vi è questo sentimento.

 

Se invece entriamo in una stanza dipinta di blu, e qualcuno ci getta incontro parole, non ci permette di parlare e considera se stesso come il solo importante, troviamo che vi sia una contraddizione con le pareti blu o viola della sua stanza. Non occorre che la prosaica verità esteriore vi corrisponda, tuttavia esiste la particolare verità estetica che ho indicata. Se in qualche modo mi intrufolo, o anche senza intrufolarmi vengo invitato a un pranzo e vedo la tavola apparecchiata in rosso, ho la sensazione di aver a che fare con buongustai, con gente che ha piacere nel mangiare. Se trovo tutto apparecchiato in blu, ho la sensazione che qui la gente non mangia per il mangiare, ma intende raccontare qualcosa mangiando, accompagna i discorsi, la riunione sociale con il pranzo. Sono sentimenti reali che vivono sempre nel subconscio. Se incontro per la strada una signora vestita di blu che mi viene incontro e si comporta in modo aggressivo invece che riservato, trovo che sia in contrasto col vestito blu, mentre lo troverei naturale se lo facesse una signora vestita di rosso. Troverei anche naturale che fosse un po’ sfacciatella una signora con i capelli ricci. Vi è qualcosa che vive al fondo dell’anima come tono di base. Con questi esempi banali null’altro intendo dire se non che esiste in noi un senso estetico, che anche se non arriviamo a sentire, pure non possiamo eliminare: ne dipende la nostra disposizione, buona o cattiva. Conosciamo i due atteggiamenti, ma in sostanza riesce a portarli a coscienza soltanto chi approfondisca le cose.

In ciò è in effetti implicita quella che si potrebbe chiamare la necessità di passare da un naturale senso estetico alla vita nell’arte. L’arte va semplicemente incontro alla vita in modo conforme alla natura, come tutti gli altri comportamenti umani.

 

Il veggente che abbia formato le forze di cui ho parlato ha di fronte all’arte una particolare esperienza, e credo che, anche se non artistica, pure ne possa seguire qualcosa per la valutazione e la visione dell’arte. Il veggente che abbia risvegliato la sua anima, che possa avere attorno a sé un mondo spirituale, è sempre in grado di distogliere, di sviare la vita della sua anima da tutto quanto è solo esterna realtà sensibile. Parlando in generale e non individualmente, se ho davanti a me un oggetto o un processo fisico esterno, da veggente sono sempre in grado di eliminarne la percezione nello spazio e nel luogo in cui è l’oggetto, in modo da non vedere alcunché di fisico in quello spazio. È una reale astrazione che è senz’altro possibile alla veggenza. Lo è però solo per gli oggetti della natura, ma non per una vera produzione artistica. Considero che sia qualcosa di importante: per nessuna opera d’arte il veggente è in grado di escludere del tutto l’oggetto o il processo artistico, come invece avviene per gli altri processi esterni. Un vero lavoro artistico, compenetrato di spirito, rimane spiritualmente presente alla coscienza del veggente.

 

E la prima cosa che ci dimostra come il vero lavoro artistico e la chiaroveggenza derivino dalla stessa sorgente. Vi sono però molte altre cose che sono importanti in questa direzione. Applicando i mezzi sviluppati dalla sua anima, il veggente perviene a un tutt’altro modo del pensare e anche del volere. Per usare le espressioni correnti si potrebbe naturalmente dire che sia il pensare sia il volere diventano interiori, ma in questo caso la parola «interiori» non è in realtà giusta, perché comunque si è fuori, si allarga la propria visione su tutto un vero mondo spirituale. Nella veggenza intervengono un altro pensare e un altro volere.

 

Il pensare non si svolge in pensieri astratti. I pensieri astratti sono adatti al mondo fisico per registrarne i fenomeni, per scoprirne le leggi di natura e così via. Il veggente non pensa in quei pensieri, non pensa in astrazioni, pensa in pensieri che in effetti sono immagini operanti. Oggi ciò è ancora difficile da capire, perché ancora non si sa bene che cosa si possa intendere con un’attività, in realtà un pensare che però non pensa in pensieri astratti e che segue le cose, vivendo nelle loro forme e configurazioni. Si può paragonare questo pensare con le figure del matematico composte di superfici e di curve. Sono però interiormente viventi, come ha cercato di fare Goethe con la sua dottrina della metamorfosi, sia pure in uno stadio elementare. L’interiore pensare veggente può oggi divenire molto più vivente. Il pensare veggente è molto affine a quello che è alla base di alcuni settori dell’arte creativa, in particolare della scultura e dell’architettura.

 

In merito al nuovo pensare che il veggente acquisisce è degno di nota che egli con null’altro si senta più affine che con le forme costruite da un vero architetto artista e con quelle messe dallo scultore a base del proprio lavoro. Veramente le forme del pensare architettonico e di quello della scultura sono adatte a seguire le cose del mondo con una comprensione veggente, in modo da imparare a comprenderle nella loro interiorità spirituale, e anche a superarle elevandosi al mondo spirituale. Con pensieri astratti nulla si sperimenta dell’essere interiore delle cose. Col suo nuovo pensare il veggente si sente affine all’architetto e allo scultore. Deve pensare il mondo in una forma spirituale simile a quella che l’architetto e lo scultore mettono alla base del loro lavoro, in modo inconscio o subconscio. Questo induce a ricercare da che cosa in effetti ciò provenga. Ci si pone la domanda: che cosa in realtà richiede il veggente?

 

Ricerca precisi sensi nascosti che sono presenti nella vita usuale e che però sono fievoli e non vi agiscono con chiarezza. Abbiamo ad esempio un senso che si potrebbe chiamare dell’equilibrio. Viviamo in esso, ma non ne siamo coscienti appieno, come in un ricordo. Quando facciamo un passo, oppure quando pieghiamo o allunghiamo la mano, in tutti i movimenti che facciamo e che in qualche modo ci mettono in relazione con lo spazio, abbiamo una percezione che non risuona appieno nella coscienza, come avviene con la vista e l’udito che sono sensi molto più forti e precisi. Il senso dell’equilibrio e l’altro affine del movimento risuonano tanto leggeri, perché non sono destinati solo alla nostra vita interiore, ma fanno anche da tramite per il nostro inserimento nel cosmo. Come sono inserito nel cosmo, se mi avvicino al sole oppure me ne allontano, sentendo sempre più la vicinanza della luce oppure sperimentando in qualche modo il suo allontanarsi, questo sentirsi inserito nel complesso dell’universo è qualcosa che non è possibile indicare altrimenti se non dicendo: nei suoi movimenti l’uomo, come microcosmo, è costruito dal macrocosmo stesso e lo sperimenta attraverso quel senso.

 

Lavorare con la scultura altro non è se non trasferire la percezione di un senso di solito nascosto in forme esterne di superficie, o qualcosa di simile. Nell’architettura e nella scultura diamo inconsciamente forma alle sensazioni che portiamo sempre in noi. Per quanto strana possa sembrare l’osservazione, pure chi davvero arriva a indagare psichicamente i rapporti fra le diverse forme architettoniche, o quel che vive nella fantasia dello scultore quando dà forma alle sue superfici, sa che in quelle attività coopera misteriosamente quel che ho appena accennato. Il veggente null’altro fa se non portare a piena coscienza quel senso dell’inserirsi nel mondo. Lo sviluppa nel modo in cui l’architetto e lo scultore, grazie a quel che sentono nel loro corpo, sono spinti a dar forma artistica alla materia esterna. Direi che in questa prospettiva ci si rende conto di determinate cose; in proposito potrei parlare non soltanto molte ore, ma continuare per giorni interi. Chi sente l’arte della scultura sa che in realtà la sola imitazione non è vera arte scultorea. Chi cerchi di rispondere non in modo astratto alla domanda su che cosa in effetti vi sia nella scultura, non può dirsi che per lo scultore abbia importanza una superficie che ne imiti una esistente nella natura esterna, nel corpo umano e così via. Non è certo così. Quel che si sperimenta nella scultura è la vita autonoma della superficie. Chi arrivi a vedere la differenza fra una superficie che sia curvata solo una volta e un’altra che lo sia una seconda volta, sa che nessuna superficie, curvata una sola volta, può avere in sé vita scultorea. Può esprimere la vita solo una superficie che sia curvata due volte. Tale interiore possibilità espressiva, artistica e non simbolica, è la manifestazione interiore di che cosa sia alla base del mistero di dar forma a superfici, non l’imitazione, non l’attenersi a un modello.

 

Questo tocca un problema che oggi in effetti è del tutto non chiarito. Vediamo cioè tanti che non solo gioiscono dell’arte, e va benissimo, ma molti altri che la giudicano quasi professionalmente. Proprio movendo dalle premesse poste in questa conferenza, non credo di dover fare una critica, ma semplicemente di dire qualcosa che sempre più viene a coscienza: in genere non penso che chi non ha mai impastato argilla, che è solo un critico, arrivi ad avere un’idea di che cosa in realtà sia l’essenza della scultura. Certo credo che ognuno possa godere dell’arte, ma credo anche che nessuno possa giudicarla senza aver fatto un tentativo che gli mostri come si realizzano forme artistiche con un materiale. Nella realtà con le sostanze si realizzano infatti cose del tutto diverse dalla semplice imitazione di un modello.

 

La semplice imitazione non ha artisticamente maggior valore dell’imitazione del canto dell’usignolo con qualche suono. La vera arte inizia dove più non si imita, ma si lavora movendo da un elemento nuovo e creativo. In architettura ci si appoggia a un modello, molto anche nella scultura, ma non nella musica. Ciò che tuttavia si forma imitando un modello è qualcosa di diverso dall’arte. Essa inizia proprio là dove più non si parli di imitazione. L’autonoma esperienza spirituale, che opera inconscia nell’artista e cosciente nel veggente, è l’elemento comune sia della comprensione veggente del mondo, sia della produzione artistica: viene però manifestata spiritualmente dal veggente e invece incorporata inconsciamente dall’artista nella materia con le sue mani e la sua fantasia, perché non può esprimerla in parole.

 

Il veggente si sente affine in tutt’altro modo con la poesia e con l’arte musicale. Soprattutto per quest’ultima è interessante come il veggente viva le sue esperienze in un’altra forma quando si addentra con la veggenza nel campo dell’arte. Desidero fare un’osservazione per precisare che cosa intendo qui per veggenza: non la intendo continua, ma solo nei momenti in cui ci si pone in quell’atteggiamento. Non è cioè che il veggente, in tempi diversi da quando lo desidera, sperimenti la musica come ora dico. In condizioni normali egli sperimenta la musica come ogni altro; è in grado di confrontare quel che percepisce nella musica con quel che di essa sperimenta veggentemente. Ascoltando un’opera musicale è importante che il veggente abbia chiaro che sperimenta la musica in modo del tutto animico, in modo cioè da sentirsi unito alla musica con tutta l’anima. Prima avevo detto che il veggente forma un nuovo patrimonio di rappresentazioni e che in esse si sente a proprio agio nel lavoro architettonico e scultoreo.

 

Poiché il veggente non comprende soltanto col pensiero, ma ha anche forze senzienti e formative, tali comunque da essere collegate, non si può parlare di una separazione fra sentire e volere; nel veggente si deve parlare di un volere senziente e di un sentire volente, di un’esperienza animica che unisce nella totalità del volere senziente le due facoltà invece affiancate nella coscienza ordinaria. Una volta il volere senziente è più sfumato verso il volere, un’altra verso il sentire. Quando il veggente si innalza con l’anima nel mondo spirituale, trasponendosi nell’elemento musicale, sperimenta tutto quanto gli si presenta all’anima con una sfumatura senziente in un vero e puro elemento musicale. Sperimenta in modo che il suono oggettivo e la soggettiva esperienza sonora non si separino l’uno dall’altra, ma siano uniti nell’esperienza veggente; l’anima cioè fluisce come fluiscono i suoni uno nell’altro, e il tutto è spiritualizzato. Sperimenta la sua anima come versata nell’elemento musicale e sa che quanto sperimenta grazie al nuovo volere senziente così formatosi è come incantato nella materia sonora dal musicista che muove dalla stessa sorgente. Proprio nella musica è interessante esaminare come avvenga che il musicista che crea immetta nella sua materia lo stesso elemento spirituale, traendolo dall’inconscio, che il veggente osserva. Nella musica si manifesta che cosa vi è alla sua base.

 

In tutt’altro modo la meravigliosa costruzione del nostro organismo opera in tutto l’inconscio che ci si presenta nella vita dell’anima. Si riscontra sempre che il nostro organismo non va considerato come fanno di solito il biologo e il fisiologo, ma che deve esser visto come l’immagine del modello spirituale. Quel che portiamo in noi è l’immagine di un modello spirituale. L’essere umano entra nell’esistenza attraverso la nascita, o meglio la concezione; usa ciò che gli proviene dalle leggi dell’ereditarietà e anche quel che discende dal mondo spirituale e che si rapporta all’elemento fisico, facendo sì che esso sia veramente l’immagine dello spirito. Oggi non posso dilungarmi su come questo avvenga. Esiste il fatto del tutto oggettivo che nel nostro organismo si svolge un’attività che è l’immagine di leggi spirituali. Nella musica lo si nota in modo del tutto speciale. Si crede che nell’ascoltare la musica partecipi l’orecchio e forse anche il sistema nervoso del cervello, ma è solo una visione superficiale. In questo campo la fisiologia è senz’altro all’inizio e arriverà a una certa altezza quando fluiranno pensieri artistici nel suo campo e in quello della biologia. Vi è qualcosa del tutto diverso dal semplice processo uditivo o da quel che si svolge nel sistema nervoso del cervello.

 

Per quanto vi è alla base del sentire musicale è possibile dire che, ogni volta che si espira, il cervello, lo spazio interno della testa, è indotto dal respiro a far scendere il liquido cerebrale nel sacco del midollo spinale fino alla regione del diaframma. L’inspirazione determina il processo inverso: il liquido cerebrale viene spinto verso il cervello. E un continuo ritmico salire e scendere del liquido cerebrale. Se non fosse così, il cervello non perderebbe peso sufficiente, affinché i vasi sanguigni sottostanti non vengano schiacciati: se il cervello non perdesse abbastanza del suo peso, i vasi sanguigni sarebbero schiacciati. Il liquido cerebrale sale e scende nello spazio aracnoideo, nelle sue espansioni più o meno elastiche in modo che il salire e lo scendere del liquido in quelle meno elastiche scorra attraverso i vasi che si espandono più o meno. Nell’ambito del ritmo si determina così un’azione meravigliosa. Tutto l’organismo umano, prescindendo dalla testa e dagli arti, si esprime in questo ritmo interno. Il suono che fluisce attraverso l’orecchio, e che vive in noi come rappresentazione, diventa musica incontrandosi con la musica interiore presente in noi, dato che tutto l’organismo è un meraviglioso strumento musicale, come ho appena detto.

 

Se dovessi raccontare tutto dovrei descrivere una meravigliosa musica interiore che però non viene udita, ma sperimentata interiormente. In sostanza si sperimenta come musica soltanto un venir incontro di un canto interiore dell’organismo umano che, in merito a quanto ho descritto ora, è l’immagine del macrocosmo; seguendo leggi più concrete di quelle naturali, è la lira di Apollo che abbiamo in noi sulla quale il cosmo stesso suona. Il nostro organismo non è solo quello che la biologia conosce, ma il più meraviglioso strumento musicale.

 

Si possono addurre le cose più diverse per mostrare come l’uomo sia costruito secondo le meravigliose leggi cosmiche. Per ricordare una delle più correnti, noi respiriamo in media diciotto volte in un minuto. Se calcoliamo quanti respiri facciamo nelle ventiquattro ore di un giorno, arriviamo a 25-920; questo numero di respiri corrisponde al giorno di un uomo.

 

Anche se molti invecchiano di più, possiamo calcolare in settanta o settantun anni il giorno cosmico di un uomo, e in quel periodo vi sono di nuovo 25.920 giorni, vale a dire tanti giorni come sono i respiri in un giorno. L’universo ci espira e ci inspira fra quando nasciamo e quando moriamo, fa cioè tanti respiri nella vita terrena di un uomo quanti noi ne facciamo in un giorno.

 

È l’anno solare platonico. Il sole sorge in una determinata costellazione dello zodiaco; il punto dell’equinozio di primavera si sposta sempre: nell’antichità sorgeva nella regione del Toro, poi in Ariete e ora nei Pesci. L’astronomia moderna lo rende in schemi. In apparenza, ed è apparenza, ma ora non ha importanza, il punto della primavera si sposta in tutto il cielo, fa il giro e dopo un certo numero di anni ritorna nello stesso punto, dopo cioè 25.920 anni. L’anno solare platonico è appunto di 25.920 anni. Il giorno umano di un uomo di settantun anni conta 25.920 giorni, come una giornata di ventiquattr’ore conta 25.920 respiri. Vediamo così che siamo inseriti nel ritmo cosmico. In proposito si potrebbero fare molte altre osservazioni, ma comunque credo che non vi sia altra astratta idea religiosa che possa sollecitare maggior fervore quanto la coscienza di essere inseriti col proprio organismo fisico nel macrocosmo, nella struttura cosmica. Il veggente cerca di compenetrare in modo spirituale tale inserimento. Vive nella nostra musica interiore: quel che sorge dall’organismo e che batte nell’anima; il risuonare dell’anima con il cosmo è l’elemento inconscio dell’attività artistica. L’intero universo risuona quando svolgiamo un vero lavoro artistico.

 

Abbiamo così la sorgente comune dell’arte e della veggenza: inconscia nell’artista che fa penetrare le leggi universali nella materia, cosciente nel veggente che cerca di osservare il puro elemento spirituale, grazie alla coscienza veggente.

 

Studiando così i problemi si impara a riconoscere che cosa faccia sì che nell’arte entri inconsciamente ciò che è affidato alla materia. Come nel nostro organismo respiratorio vive la musica interiore che poi nell’arte diventa musica, così vive anche la poesia. Anche in questo la fisiologia di oggi è molto, molto arretrata perché, per venirne in chiaro, va studiata non la fisiologia dei sensi, non la fisiologia nervosa del cervello, ma la sfera di confine del cervello e del sistema dei nervi. Proprio in quel confine, in quella sfera fisiologica, vi è la sorgente della creazione poetica, quando se ne abbia la disposizione, perché per l’arte occorre sempre averne. Il veggente trova la creazione poetica specialmente quando entra nella sfera della propria esperienza interiore, quando il volere senziente tende di più verso la parte della volontà. La volontà si manifesta di solito in tutto il corpo fisico; nella fantasia la volontà vive dove si scontrano cervello, nervi e organi sensori: ivi si producono le immagini poetiche. Quando ciò si stacca dal corpo, si ha il volere senziente grazie al quale il veggente entra nella sfera dalla cui sorgente il poeta crea. Quando il veggente è nel giusto atteggiamento animico per godere nell’anima la poesia, col suo senso senziente e volente si sente in una particolare condizione. Osserva cioè che cosa il poeta crea.

 

Quando il poeta propone qualcosa che non proviene dalla realtà, ma che in effetti è escogitato, messo insieme in qualche modo, non vero, non artistico, il veggente lo rileva. Chi non è veggente non sente in modo altrettanto ovvio che il poeta drammatico abbia creato una figura non vera. Ad esempio nella Tecla del Wallenstein il veggente può solo sentire una figura di cartapesta, e osservandola la vede sempre piegare le ginocchia. È questo in un grande poeta! Ogni deviazione dalla realtà, il non descrivere la realtà viene sentito in modo che il veggente deve riplasmare quel che il poeta ha creato e dedurne il suo pensiero. Rispetto al poeta, il veggente vi si immerge interiormente. È caratteristico per la poesia che in questi casi la coscienza veggente crei figure e che il veggente veda caricature in ciò che spesso viene magari molto lodato. Il veggente non può fare a meno di vedere in molte produzioni drammatiche che le figure sono solo marionette riempite di stoppa, che come tali si muovono sulla scena o sorgono dal libro leggendo il dramma. Di conseguenza il veggente può soffrire se a seguito della moda o di altro qualcosa viene osannato, perché vede che cosa viene prodotto da un’arte drammatica senza struttura.

 

Christian Morgenstern, che tendeva alla veggenza, scrisse una bella frase. La si trova nell’ultimo volume delle sue opere, Stufen. Volendo caratterizzare la sua anima, dice che si sente affine all’architettura, alla scultura. Il senso è che, tendendo alla veggenza, si trasforma interiormente la poesia in scultura. Vedendo così le cose, non si potrà mai credere che davvero la veggenza, con la sua interiore mobilità, col suo avvicinarsi alle entità spirituali, possa agire sull’artista disseccando e paralizzando, e non invece come un buon amico, un buon aiuto. Artisti e veggenti non possono disturbarsi a vicenda. Lo possono solo cose che fluiscono l’una nell’altra. Mai tuttavia il veggente può far fluire, disturbando, la veggenza nella sua arte, può solo compenetrarla con la veggenza. Le due cose sono del tutto separate, fluiscono dalla stessa sorgente, ma mai possono disturbarsi nella vita. Non lo si sente però a sufficienza.

 

Per il veggente è difficilissimo farsi capire dalla gente. Deve servirsi del linguaggio, ma in esso vi è qualcosa di molto particolare. Solo in apparenza è un’unità; in effetti ha tre aspetti, lo si sperimenta in realtà a tre gradini diversi. Anzitutto quello sul quale viviamo, facendoci capire da uomo a uomo nella vita quotidiana, quando conduciamo la nostra vita corrente e diciamo le parole che nella vita devono fluire banalmente da uomo a uomo. Chi abbia una viva sensazione per il linguaggio, chi cioè lo viva nella prospettiva veggente, non può che sentire l’impiego ora descritto come una degradazione del linguaggio. Si potrà anche dire che l’uomo insulta la vita. Vede che non tutto può essere perfetto e tralascia quindi di creare perfezioni in un campo nel quale di necessità deve dominare l’imperfezione. Nella vita fisica avviene che debbano esservi senz’altro imperfezioni: le piante devono anche disseccare e non solo crescere. Nella vita devono sempre esistere le imperfezioni, affinché possa nascere qualcosa di perfetto.

 

Il linguaggio è decaduto dal suo livello originario e si è abbassato a un gradino inferiore. Come usiamo il linguaggio nella vita possiamo solo diventare pedanti e null’altro conseguire se non farne un essere di paglia proveniente da uno stato inaridito, disseccato e borghese. Le parole non possono avere il valore che hanno in se stesse. Il linguaggio, che è infatti proprietà di un popolo, vive a un suo livello ed è creazione artistica e non prosaica. Non esiste per servire alla comprensione nella vita quotidiana, ma è l’espressione dello spirito del popolo, è una costruzione artistica. Noi lo abbassiamo e dobbiamo diminuire quella che è una creazione artistica alla prosa della vita. Il linguaggio giunge al suo essere solo nelle creazioni artistiche di un popolo, quando lo spirito del linguaggio operi veramente. Questo è il secondo aspetto in cui vive il linguaggio.

 

Si sperimenta il terzo aspetto solo nel campo della veggenza. Si è allora in una strana situazione perché, volendo esprimere quel che si è visto, non si hanno le parole del linguaggio. In realtà non esistono. Quando si impara a parlare in una qualsiasi lingua si usano le parole per esprimere quel che si vuole, ma non lo si può con la veggenza. Non vi sono le parole relative. Di conseguenza il veggente ha la necessità di esprimersi in modo del tutto diverso. Lotta sempre col linguaggio per poter dire quel che intende. Deve scegliere la strada di rivestire una cosa qualsiasi con una frase che più o meno esprime quel che vuol dire; deve aggiungere una seconda frase che esprima qualcosa di simile. Deve contare sulla buona volontà dei suoi ascoltatori, affinché una frase illumini la precedente. Quando manca tale buona volontà, la gente gli rinfaccia diverse contraddizioni. Chi ha da comunicare la vera veggenza deve usare contraddizioni, una contraddizione per chiarirne un’altra, perché la verità è a metà strada. Pensando a tutto ciò, nel campo del linguaggio si arriva a qualcosa che anche in questo campo manifesta la relazione fra l’arte e la veggenza.

 

Il veggente deve contare sulla buona volontà dell’ascoltatore affinché badi più a come una cosa è detta, piuttosto che a quel che è detto. Nel come presentare una cosa si preoccupa di dire di più di quel che dice. A poco a poco è portato a risalire allo spirito creatore del linguaggio che era attivo prima che si formassero le diverse lingue, a vivere nei suoni, nel genio dei suoni, a immergervisi con l’anima. Vede come una vocale si inserisca, come fluisca nelle diverse lingue. Per risalire all’atteggiamento creativo della lingua del suo popolo, il veggente è costretto ad esprimersi più attraverso il come che attraverso il che cosa.

 

Di conseguenza nel linguaggio si distinguono i gradini, vicini fra loro, dell’arte e della veggenza. Poiché si sperimentano separati, non possono disturbarsi fra loro; possono invece aiutarsi perché, vivendo accanto, si illuminano a vicenda. Verrà un tempo in cui da parte dell’arte non ci si porrà più in modo ostile di fronte alla veggenza, e lo stesso sarà per la veggenza di fronte all’arte. Purtroppo tutta la falsa veggenza tende infatti molto a una grettezza soprasensibile. E nemico dell’arte tutto ciò che non si può guardare con i sensi e che si riveste di una veggenza visionaria. Quel che invece viene davvero preso dal mondo spirituale con la coscienza veggente è la stessa cosa che vive inconsciamente nella creazione artistica e nel relativo godimento. Si crede di solito che la veggenza, come qui è intesa, sia qualcosa di completamente estraneo all’uomo; è invece ben inserita nella vita umana, solo in una sfera dove non la si nota.

 

Vi è una grande differenza nei modi in cui mi comporto di fronte a una pianta, un minerale, un animale o un altro essere umano. Le cose del mondo esterno agiscono su di me grazie a quel che esse sono con l’aiuto dei miei organi di senso. Quando un uomo è di fronte a un altro, i sensi agiscono in modo del tutto diverso. Nel nostro tempo si è del tutto contrari ad afferrare lo spirito. La gente dice che in parecchi campi il materialismo sarebbe superato; oggi se ne parla spesso. Si trovano in effetti dichiarazioni del genere che dicono: quando sono di fronte a un uomo vedo la forma del suo naso e in base a quella forma deduco che è un uomo. Una conclusione analogica. In realtà non è così. Chi arriva a percepire il mondo con la veggenza sa dove sono le conclusioni, sa che non esistono conclusioni analogiche. L’anima umana viene percepita direttamente, e la parte sensibile esteriore si annulla. È molto importante metterlo a base di un’altra arte, perché ci rende comprensibile l’affiancarsi della veggenza e dell’arte.

 

Quando siamo di fronte a un essere umano e lo guardiamo, non sappiamo che quel che di lui appare è tale da annullarsi, da rendersi trasparente allo spirito. Ogni volta che si è di fronte a qualcuno lo si vede chiaroveggentemente. Invece il veggente ha in tal caso un problema del tutto particolare: è il misterioso incarnato. Di fronte a un uomo egli osserva l’incarnato non in riposo, ma in movimento oscillatorio. Di fronte a qualcuno egli osserva uno stato in cui l’altro impallidisce, per poi diventare più rosso quando si riscalda. La figura fisica oscilla fra quell’andare e venire, ed essa appare al veggente come se la figura umana si modificasse, arrossisse con un sentimento di vergogna e impallidisse in uno di paura, come se il suo stato normale passasse di continuo fra paura e vergogna, così come il pendolo ha il suo punto di riposo fra il salire e lo scendere.

 

L’incarnato che ci appare nella vita corrente è solo uno stato intermedio. L’incarnato che si vede è legato a qualcosa che rimane inconscio e che permette un primo sguardo inconscio dietro le quinte. Come l’incarnato umano viene osservato dal veggente, vale a dire qualcosa di sensibile-soprasensibile, qualcosa di animico nella sfera sensibile, così a poco a poco si trasformano tutte le forme e i colori esterni, e li si vede allora spiritualmente. Si percepisce allora qualcosa di interiore in tutte le impressioni di colore e di forma. L’espressione più elementare in merito si trova nella parte sensibile-morale della dottrina dei colori di Goethe.

 

La dottrina dei colori diventa esperienza, e il veggente sperimenta lo spirito; sperimenta anche il rimanente mondo spirituale, in modo da avere le medesime esperienze che altrimenti ha con i colori. Nel mio libro Teosofia è detto che si vede la sfera animica in forma di una specie di aura che è descritta in colori. Persone rozze che non approfondiscono il problema, che però scrivono libri, pensano che il veggente descriva l’aura come se avesse davanti a sé una nebbia, mentre il veggente ha un’esperienza spirituale; quando dice che l’aura è blu, vuol dire che ha avuto un’esperienza animico-spirituale simile a quella che si ha davanti a un colore blu. Descrive cioè tutto ciò che sperimenta nel mondo spirituale e che è analogo e che può essere sperimentato con i colori nel mondo sensibile.

 

Ciò dà anche un’idea del modo in cui il veggente sperimenta la pittura. È un’esperienza diversa da quella che ha di fronte a ogni altra arte. Di fronte a ogni altra arte si ha la sensazione di immergersi nell’elemento artistico; lo si ha, si va fino a un limite al quale cessa la veggenza. Se continuasse, il veggente dovrebbe aggiungere colori qua e là, continuando, dovrebbe colorare quel che sperimenta. Quando sperimenta la pittura, ciò gli viene incontro dall’altro lato. Quando il pittore dipinge, dando forma al chiaro e allo scuro e lavorando con la vera pittura, porta la sua attività artistica fino al preciso punto al quale pittura e veggenza si incontrano, dove comincia la veggenza. E appunto fino a lì arriva la veggenza, fino a dove cioè, volendo continuare verso l’esterno, si comincia a dipingere. Quando si abbia una concreta rappresentazione veggente, si sa: qui occorre mettere questo colore, e accanto un altro. Ora si comincia a comprendere il segreto del colore, a comprendere quel che è inteso nel mio mistero drammatico La porta dell’iniziazione, vale a dire che la forma del colore diventa opera, che in realtà tracciare linee è una menzogna artistica. Non esistono linee. Il mare non confina con l’orizzonte con una linea; il confine è dove i colori confinano tra loro. Posso aiutarmi con una linea, ma essa è solo la conseguenza del reciproco incontro dei colori. Qui si presenta il segreto del colore. Si impara che avviene un movimento interiore, che il movimento vive in quel che si dipinge. Null’altro si può fare che trattare il blu in un modo determinato. Si sperimenta l’interiorità del colore. Peculiare della pittura è che in essa si incontrano creativamente veggenza e arte.

 

Se in questo campo si capirà di che cosa si tratta, si vedrà anche che la veggenza qui intesa può essere buona amica dell’attività artistica e che le due possono stimolarsi e fecondarsi a vicenda. Certo, avverrà sempre più che chi non abbia mai preso in mano un pennello e non sappia come usarlo non dovrebbe giudicare in base a principi astratti. Una critica lontana dall’arte dovrà forse ritirarsi, se vi sarà amicizia fra arte e veggenza. Proprio la scienza dello spirito qui intesa è qualcosa del tutto diverso di quella che si chiamava e che ancor oggi si chiama estetica. Artisti mi dicono che i critici si esprimono con «grugniti estetici». Qui però non sono intesi grugniti del genere, ma una vita che si svolge nello stesso elemento nel quale vive anche l’artista, solo che il veggente sperimenta nella pura sfera spirituale ciò cui l’artista dà forma. Vorrei dire che fra le molte cose che possono essere di vantaggio per l’umanità vi è anche questa. Credo che finiranno i tempi in cui si credeva che le cose elementari e originarie fossero disturbate da quel che si ricerca nello spirito.

 

Christian Morgenstern dice che chi crede ancora oggi che quel che vive di spirituale nel mondo non possa essere compreso in precisi pensieri, e vuole raggiungerlo affondando nell’oscura mistica, assomiglia a un analfabeta che per tutta la sua vita continua nell’analfabetismo dormendo con l’abbecedario sotto il cuscino. Siamo in un tempo in cui molto di quanto è subconscio deve essere portato a coscienza.

 

La veggenza sarà sul suo giusto terreno solo quando sarà al di sopra di ogni filosofia e si sentirà affine all’arte. Credo che anche in questo campo vi sia qualcosa che è legato con importanti problemi dell’evoluzione dell’umanità. Sempre più si comprenderà che il mondo soprasensibile è alla base di quello sensibile. Quel che si può conoscere grazie alla veggenza soprasensibile non è un’aggiunta arbitraria alla vita; è invece vero quel che disse Goethe movendo dalla sua esperienza di vita: «Colui cui la natura svela il suo palese segreto sente un’irresistibile nostalgia per la sua più degna interprete, l’arte». Chi intenda vedere come l’arte sia inserita in tutta la vita, in tutta l’ulteriore evoluzione, chi senta e osservi l’arte secondo la sua vera essenza, deve ammettere che essa viene favorita dalla veggenza, che la veggenza sarà qualcosa che in avvenire andrà con l’artista di pari passo per fecondarlo a nuovo e favorirlo.