Il contenuto della rivelazione pentecostale e l’Apocalisse

Il figlio dell’uomo


 

Per comprendere la lotta del cristianesimo pentecostale nella storia passata, nel presente e nelle sue conseguenze future, occorre soffermarsi ancora sui motivi principali del contenuto della rivelazione pentecostale. Essi vengono allusi dal Cristo Gesù stesso, quando, nel suo discorso di congedo riportato da Giovanni, dice: “È bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore (paràkletos), ma se io me ne andrò, lo invierò a voi. E quando sarà venuto, egli convincerà il mondo quanto al peccato (peri hamartìas), alla giustizia (perì dikaiosùnes) e al giudizio (perì eh rìseos). Quanto al peccato, perché non credono in me; quanto alla giustizia, perché vado al Padre e non mi vedrete più; quanto al giudizio, perché il principe (archon) di questo mondo è stato giudicato” (Gv 16:7-11).

 

Queste parole indicano tre ‘punti’ significativi insegnati dallo spirito della rivelazione pentecostale, dal Paracleto.

• Il primo ‘punto’ della dottrina del Paracleto è quello del peccato di incredulità nei confronti del Cristo.

Questa frase del Vangelo di Giovanni ha condotto talvolta a gravi equivoci, il che non sarebbe avvenuto, se la si fosse intesa non superficialmente, bensì nella profondità con cui fu espressa dal Cristo Gesù. Ciò che in questa frase è detto ‘credere’, è infatti un atto morale dell’Io umano, non un semplice assenso a un’autorità.

Fede e incredulità nei confronti del Cristo sono pressoché equivalenti alla presenza o meno dell’ideale della vera umanità. Un simile ideale non è un dogma, né potrebbe esserlo, poiché è l’espressione dell’iniziativa morale dell’Io umano.

 

L’entità dell’Io umano

che non cerchi con la propria interiore forza morale di realizzare l’ideale dell’umanità,

rinuncia ad essere desto sul piano morale-spirituale.

• Se un Io umano si imbatte nelle conoscenze e nei fatti in cui si realizza l’ideale della vera umanità, e non li accetta,

non solo tralascia qualcosa di necessario, ma commette inoltre un’azione distruttiva sul piano morale.

• Non importa che si ‘creda’ a questo o a quello,

ma che ci si sforzi nel proprio intimo di sentire la grandezza morale dell’essere e dell’agire del Cristo.

 

Come l’accogliere l’impulso del Cristo è un atto morale libero dell’Io,

del pari è un atto di portata morale il respingerlo:

in tal senso l’incredulità nel Cristo è un peccato (hamartìa).

Il peccato va pareggiato mediante il karma, la giustizia (dikaiosùne) cosmica.

La legge della giustizia cosmica ha subito però, grazie al Cristo, una profonda e intima trasformazione.

 

In precedenza era infatti amministrata dal principio del Padre, che si manifesta in tutto l’accadere esteriore. Esso agiva perciò anche negli accadimenti esteriori in cui trovavano espressione visibile la punizione e il pareggio karmico. ‘Occhio per occhio, dente per dente’, era la formula della giustizia veterotestamentaria, non solo nel senso che questa giustizia si compiva esattamente secondo ‘misura, numero e peso’, ma anche nel senso che i suoi provvedimenti intervenivano nella vicenda esteriore con la stessa immediatezza delle colpe che l’avevano chiamata in causa.

Ad un certo punto, però, avvenne la profonda trasformazione nel modo di operare del karma, dovuta al fatto che ‘Cristo andò al Padre’, ossia accedette alla sfera del giudizio cosmico, prendendo parte all’attuarsi della giustizia cosmica. Egli vi prese parte, tuttavia, in modo che gli effetti di questa giustizia non Lo rendessero visibile.

 

Nell’era del Nuovo Testamento il karma agisce in modo tale,

da non servirsi dell’accadere esteriore per convincere riguardo alla giustizia e alla bontà vigenti nel mondo.

Una tale convinzione deve acquisirla liberamente l’uomo stesso.

 

“Quanto alla giustizia, perché vado al Padre e non mi vedrete più” (cf. sopra, Gv 16:10) : tale è la formula relativa al modo di agire del karma nel Nuovo Testamento.

Il Cristo agisce nel karma, in quanto Egli è asceso al Padre, ma vi agisce, facendo sì che Lo si possa trovare solo liberamente, se Lo si cerca, e non manifestandosi nell’accadere esteriore.

 

• La fede nella punizione e nella vendetta, il timore di questa vendetta e la speranza nella ricompensa

non sono le forze che permettono di trovare il Cristo.

Solo l’amore per il bene, nascente dalla libertà – indipendentemente dalla punizione e dalla ricompensa –

conduce a conoscere e riconoscere il Cristo che opera invisibile nell’accadere karmico.

 

Il Cristo che opera invisibile nel karma, si manifesterà apertamente come Entità giudicatrice del mondo, quando sarà venuto il tempo in cui il ‘principe di questo mondo’ e tutti gli uomini che avranno legato a lui il proprio destino, dovranno incorrere nella sorte che si saranno preparati per via del loro agire e della loro aspirazione.

 

• Il contenuto del terzo ‘punto’ della rivelazione pentecostale: “Il principe di questo mondo è stato giudicato”, racchiude in sé un mondo di eventi futuri della storia spirituale dell’umanità. Se si volessero considerare nel loro svolgimento i processi del futuro palesarsi dell’azione del Cristo in unione con il Padre, si dovrebbe ridare il contenuto dell’intera Apocalisse. L’Apocalisse di Giovanni è infatti il libro del giudizio futuro, che seguirà al tempo in cui è possibile il pieno uso o abuso della libertà, in conseguenza di cui si compirà con necessità ineluttabile il futuro apocalittico.

 

Le conseguenze del ‘peccato di incredulità’ e del disconoscimento della giustizia, dovuto all’invisibilità del Cristo, sono già determinate: il giudizio è già avvenuto. Per questo si è potuta scrivere l’Apocalisse, quale libro che non descrive solamente le prove individuali dell’iniziazione, bensì anche il destino futuro dell’umanità sulla Terra. L’Apocalisse potè essere scritta in quanto il giudizio per cui “il principe di questo mondo è stato giudicato”, è già avvenuto.

 

POSTILLA ALLA DODICESIMA CONSIDERAZIONE SUL NUOVO TESTAMENTO.

La considerazione dedicata all’evento di Pentecoste, e che conclude l’intera serie sul Nuovo Testamento, è il frutto di un lavoro al quale ha partecipato una cerchia di persone. Il modo come essa è sorta ha in sé qualcosa dello spirito della Pentecoste, della festa della comunità umana. L’autore deve infatti il contenuto di questa considerazione alla collaborazione di una cerchia di amici, riunitasi durante la Pentecoste del 1938 a Tallin [in Estonia, N.d.C] per una sorta di piccolo ‘convegno di Pentecoste’. In occasione di quell’incontro, diverse persone, da diversi punti di vista, parlarono della natura e del significato dell’evento della Pentecoste. Una parte di ciò che fu allora detto è stata riassunta dall’autore nella forma della qui esposta considerazione. Naturalmente ciò non esclude la responsabilità personale dell’autore per quanto vi è detto, ma costituisce per lui un bisogno gioioso, quello di far sapere che una cerchia di amici ha collaborato alla nascita di questa considerazione.

Rotterdam, 23 ottobre 1938.