12° Incontro

Amor, che ne la mente mi ragiona.


 

Finisce il quarto capitolo

 

Questa sera, nella speranza di chiarire ancor meglio la posizione di Steiner nei confronti dell’idealismo critico, vorrei cominciare col proporvi un paio di schemi.

 

Diciamo, intanto, che non si può comprendere il punto di vista di Kant (ma anche quello – come vedremo – di Eduard von Hartmann), se non si comprende quello del realismo cosiddetto “ingenuo”, “primitivo” o “dogmatico”.

 

Questo, muovendo dal presupposto

che la realtà ha un’esistenza del tutto indipendente da quella del soggetto che la conosce,

ma volendosi al contempo basare sulla percezione (tanto da essere anche detto “percezionismo”),

deve allora rendere “attore” del processo percettivo l’oggetto e non il soggetto;

il soggetto non farebbe perciò che patire l’azione dell’oggetto o – come pure si dice – esserne affetto.

 

Per il realismo “ingenuo”, l’anima umana non è dunque che una specie di lastra fotografica

in grado soltanto di riprodurre e conservare le impressioni o gli stimoli che provengono dall’ambiente.

 

Orbene, tutto questo rappresentiamocelo schematicamente così:

 

O—P — (azione) → S

 

• La O sta per “oggetto” (la cui essenza viene identificata col percetto),

• la P per “percezione” (per immagine percettiva)      • e la S per “soggetto”.

 

Come si vede, il realismo ingenuo fa un tutt’uno dell’essenza dell’oggetto, del percetto e dell’immagine percettiva, e reputa la rappresentazione una passiva riproduzione interiore dell’immagine percettiva esteriore. Per esso, l’oggetto è dunque causa del processo percettivo, mentre la rappresentazione ne è effetto.

 

Ebbene, illustriamo adesso, sempre in modo schematico, il punto di vista dell’idealismo critico:

 

O — (azione) → S

P ← (reazione) — S

 

Qual è la novità? La novità è che

• Kant, pur continuando a identificare l’oggetto (l’essenza dell’oggetto) col percetto

(con la “cosa in sé”: ovvero, con l’essenza dell’oggetto così come si dà al percepire),

distingue però O da P (l’oggetto-percetto in qualità di “noumeno” dall’immagine percettiva in qualità di “fenomeno”)

e parla dell’immagine percettiva come di un’attiva produzione del soggetto che reagisce all’azione dell’oggetto.

• Per Kant, dunque, noi non conosciamo mai le cose, ma sempre e soltanto la nostra reazione alle cose:

non il mondo, cioè, ma sempre e soltanto noi stessi.

 

Contro le tesi del realismo ingenuo, e a sostegno di quelle dell’idealismo critico, si potrebbe far valere – dice Steiner – la teoria delle “energie specifiche dei sensi” del celebre fisiologo Johannes Müller (1801-1858). Cosa sostiene tale teoria? Sostiene che uno stesso stimolo, esercitato su sensi diversi, produce effetti diversi, mentre stimoli diversi, esercitati su uno stesso senso, producono uno stesso effetto. Stando così le cose, è chiaro allora che la natura della reazione viene determinata più dalla natura dell’organo di senso che non da quella dello stimolo. Un organo di senso, infatti, indipendentemente dal carattere dello stimolo, reagirà sempre nel modo che gli è congeniale. L’occhio, ad esempio, trasformerà qualsiasi stimolo in un’impressione luminosa, così come l’orecchio lo trasformerà in un’impressione sonora. Non è dunque questa una prova che siamo sempre e soltanto alle prese con le nostre reazioni alle cose, e non con le cose?

Non basta.

 

La fisiologia – ricorda ancora Steiner – c’insegna che “non è lecito parlare nemmeno

di una diretta conoscenza di ciò che gli oggetti provocano nei nostri organi di senso” (p.60).

 

 

Perché? Perché, non avendone “diretta conoscenza”, non solo non dovremmo parlare dell’essenza dell’oggetto quale sorgente dello stimolo (ossia, della O del secondo schema rappresentante quella “intima unità del dato” che – secondo quanto precisa Steiner ne Le Opere scientifiche di Goethe – “ci resta occulta, nella prima forma in cui ci si presenta quando ci appare solo la sua superficie”, appunto in forma – diciamo noi – di percetto), ma che, a rigore, non dovremmo neppure parlare dello stimolo. Allorché parliamo dello stimolo, parliamo infatti di un fenomeno prettamente fisico che si svolge nell’ambiente (ad esempio, nell’aria o nell’acqua); quando questo incontra i recettori di un organo di senso, cessa però di essere un fenomeno fisico e diviene un fenomeno bioelettrico (lungo le conduzioni nervose) e biochimico (nelle sinapsi). Lo stimolo iniziale è quindi scomparso ed è subentrato, al suo posto, un impulso nervoso che si dirige verso il cervello.

 

Ma non finisce qui. Difatti,

 

“quello che alla fine il cervello trasmette all’anima, – dice sempre Steiner –

non è il processo esterno né il processo negli organi di senso, ma soltanto il processo nell’interno del cervello.

Anzi, neppure quest’ultimo l’anima percepisce direttamente.

Ciò che, alla fine, abbiamo nella coscienza non sono infatti processi cerebrali, ma sensazioni” (p.61).

 

 

La sensazione è dunque la prima manifestazione della vita dell’anima; ma tale vita si accende a contatto, non con lo stimolo iniziale o con l’impulso nervoso, bensì soltanto con l’evento cerebrale. È a questo, infatti, che l’anima reagisce nella forma della sensazione.

 

L’idealismo critico sembrerebbe dunque avere di nuovo ragione nel sostenere che possiamo conoscere il nostro modo di reagire alle cose, ma non le cose (dice appunto von Hartmann: “Quello che il soggetto percepisce sono sempre solo modificazioni delle sue proprie condizioni psichiche, e nient’altro”). Perciò, chiunque cada nel realismo ingenuo vi cade poiché, non essendo cosciente di queste sue reazioni, le proietta all’esterno e le attribuisce alle cose.

 

 

Dal cervello – dice appunto Steiner – possono essermi comunicate “soltanto sensazioni isolate. Quando io ho le sensazioni, queste restano ancora per molto tempo non raggruppate in ciò che io percepisco come oggetto (…) Questa unione deve quindi essere effettuata soltanto dall’anima stessa. Cioè l’anima è quella che unisce insieme, facendone dei corpi, le sensazioni isolate trasmessele dal cervello. Il mio cervello mi fornisce isolatamente, per vie del tutto diverse, le sensazioni visive, tattili e uditive che poi l’anima riunisce nella rappresentazione “tromba”. Questo termine finale di un processo (rappresentazione della tromba) è ciò che alla mia coscienza è dato come assolutamente primo” (p.61).

 

 

Dunque, riassumiamo.

• C’è una “cosa in sé” (l’essenza dell’oggetto o –come dice Steiner – l’”intima unità del dato”)

che, attraverso un ambiente, agisce (quale stimolo) su un soggetto.

• Tale soggetto reagisce prima col corpo (mediante gli impulsi nervosi),    •  poi con l’anima (mediante le sensazioni)

• e infine sintetizza le sensazioni in un’unica rappresentazione che, proiettata all’esterno,

si presenta alla coscienza come immagine percettiva.

Per questo, Steiner afferma – come abbiamo appena udito – che tale “termine finale” del processo

si dà alla coscienza del soggetto “come assolutamente primo”.

 

Che cosa ha scoperto dunque Kant? Due cose fondamentali:

1) che l’oggetto o la “cosa in sé” (il “noumeno”, identificato tuttavia col percetto)

va distinto dalla sua immagine percettiva (dal “fenomeno”);

2) che l’immagine percettiva non è che una rappresentazione proiettata all’esterno.

 

Osserva però Steiner:

 

“Sarebbe difficile trovare nella storia dello spirito umano

un altro edificio di pensiero messo insieme con maggiore acume,

e che pure, sotto un’analisi più minuta, precipita nel vuoto” (p.62).

 

 

Per comprendere tale “analisi più minuta”, conviene tornare ai nostri due precedenti schemi e metterli a confronto, per vedere se, al di là delle differenze di cui abbiamo parlato, hanno anche qualcosa in comune.

Osservandoli bene, presto infatti scopriamo che tanto il realismo ingenuo quanto l’idealismo critico

muovono dal presupposto che O (l’oggetto) agisca su S (sul soggetto).

È vero che, secondo il realismo ingenuo, la rappresentazione è prodotta dall’azione dell’oggetto e, secondo l’idealismo critico, dalla reazione del soggetto, ma non meno è vero che la reazione di cui parla il criticismo deve necessariamente presupporre l’azione di cui parla il realismo.

 

In altri termini, ambedue danno per scontato che vi sia un oggetto che agisce su un soggetto; il primo si ferma però qui, mentre il secondo prosegue osservando il modo in cui il soggetto reagisce all’azione dell’oggetto.

Scopriamo, così, che l’idealismo critico, pur essendosi riproposto di superare l’ingenuità del realismo, non si avvede di ereditarne in pieno il presupposto; né si avvede di venirsi a trovare, in tal modo, in stridente contrasto con le proprie conclusioni.

 

• Si rifletta: se non possiamo varcare il limite delle nostre reazioni (soggettive),

come facciamo allora a sapere delle azioni (oggettive) esercitate su di noi dalle cose?

• Se si fosse davvero conseguenti, si dovrebbe dire di non saperne nulla;

ma non lo si dice perché la reazione viene pensata “criticamente”, mentre l’azione viene pensata ancora “ingenuamente”.

 

 

“Avevo prima creduto “ – dice appunto Steiner – che la cosa, “così come la percepivo, avesse un’esistenza obiettiva. Ora io noto che essa scompare con lo scomparire della mia rappresentazione, che essa è solo una modificazione dello stato della mia anima. Ho dunque io ancora diritto di partire da essa, nelle mie considerazioni? Posso io dire che essa agisce sulla mia anima?” Certamente no. “D’ora in poi – prosegue infatti – la cosa, che prima avevo creduto che agisse su di me e suscitasse in me una rappresentazione, devo trattarla a sua volta come rappresentazione. Di conseguenza, sono allora puramente soggettivi anche gli organi di senso e i relativi processi. Non ho diritto di parlare di un occhio reale, ma soltanto della mia rappresentazione dell’occhio. Altrettanto si dica dei processi nei nervi conduttori e nel cervello, e persino del processo nell’anima, per mezzo del quale dal caos delle molteplici sensazioni si costruiscono le cose” (p.63).

 

 

Ecco, dunque, come si rischia di perdere la realtà e di cadere nel sogno o – come abbiamo detto – nell’illusione. Eppure, per evitare un simile rischio, sarebbe stato sufficiente osservare – come suggerisce Steiner – che se è vero che “non vi è percezione senza il corrispondente organo di senso”, è altrettanto vero che non “vi è organo di senso senza percezione”.

Come cominciamo infatti a conoscere gli organi di senso? Cominciamo a conoscerli grazie a un atto percettivo, così come grazie a un atto percettivo conosciamo pure gli stimoli, gli impulsi, i processi cerebrali, le sensazioni, i concetti, le rappresentazioni e le immagini percettive. Tutti questi non sono infatti, all’origine, che dei dati percettivi (dei percetti) che chiedono di essere prima integrati dai rispettivi concetti e poi messi in rapporto tra loro.

Non è possibile perciò sostenere – come fa von Hartmann – che il soggetto percepisce sempre e solo “modificazioni delle sue proprie condizioni psichiche” ed essere convinti, al tempo stesso, che gli organi di senso, gli stimoli, gli impulsi e i processi cerebrali, sottraendosi non si sa come a questa regola, costituiscano, non già delle “modificazioni” delle “condizioni psichiche” del soggetto, bensì delle realtà oggettive: oggettive, oltretutto, proprio nel senso di quel realismo ingenuo che ci si era riproposti di smentire e superare.

 

Dice infatti Steiner:

 

“La concezione esposta più sopra che, in contrasto col punto di vista della coscienza ingenua, che essa chiama realismo primitivo, si qualifica come idealismo critico, commette l’errore di prendere una percezione come rappresentazione, e di prendere le altre proprio nello stesso senso in cui le prende il realismo primitivo, che essa apparentemente combatte. Vuole dimostrare il carattere rappresentativo delle percezioni, mentre assume nello stesso tempo, in modo ingenuo, le percezioni del proprio organismo come fatti di valore oggettivo” (p.64).

 

 

“Il mondo – scrive ad esempio Schopenhauer – è una mia rappresentazione. Questa è la verità la quale è valida per qualsiasi essere vivente e conoscente, quantunque soltanto l’uomo possa portarla nella riflessa coscienza astratta. Se egli realmente fa ciò, è già entrato in lui il senno filosofico. Diventa allora per lui chiaro e sicuro che egli non conosce nessun sole e nessuna terra, ma sempre soltanto un occhio che vede il sole e una mano che tocca la terra”.

Peccato, tuttavia, che il “senno filosofico” abbia inspiegabilmente omesso di far notare a Schopenhauer – come osserva Steiner – che anche “l’occhio e la mano sono percezioni quanto il sole e la terra” e che perciò, se non è dato all’uomo di conoscere “nessun sole e nessuna terra”, non dovrebbe allora essergli dato di conoscere neppure “un occhio che vede il sole e una mano che tocca la terra”.

 

 

“L’idealismo critico – conclude pertanto Steiner –

è del tutto incapace di arrivare ad afferrare il rapporto tra percezione e rappresentazione” (p.66).

 

 

Così si chiude il quarto capitolo. Prima di cominciare il prossimo, vorrei comunque aggiungere alcune considerazioni che spero vi siano utili.

Vedete, se La filosofia della libertà fosse un romanzo, tre sarebbero i suoi protagonisti: la percezione, la rappresentazione e il concetto. Orbene, avendo appena sentito dire da Steiner che “l’idealismo critico è del tutto incapace di arrivare ad afferrare il rapporto tra percezione e rappresentazione”, non potremmo pensare allora che l’idealismo critico, in tanto patisce una simile incapacità, in quanto i protagonisti de La critica della ragion pura sono soltanto due: la percezione e la rappresentazione? Sarebbe possibile comprendere, ad esempio, il rapporto tra un padre e un figlio, ove si prescindesse in toto dalla madre?

 

Ho fatto a bella posta questo esempio perché quello della conoscenza non è appunto, sul piano simbolico, che un “romanzo famigliare” nel quale la percezione riveste il ruolo del “padre” (o dell’elemento maschile), il concetto quello della “madre” (o dell’elemento femminile) e la rappresentazione quello del “figlio” (o dell’elemento umano).

Sempre nell’ambito del processo conoscitivo, questi tre ruoli corrispondono inoltre a quelli svolti, rispettivamente, dal corpo, dallo spirito e dall’anima (da quell’anima “rappresentativa” in cui è ravvisabile la gnostica Achamot: ossia, la figlia “terrestre” della “celeste” Sophia).

Se nel romanzo di Steiner vediamo dunque all’opera il corpo, l’anima e lo spirito, e in quello di Kant il corpo e l’anima, in quello del realismo ingenuo vediamo invece solo il corpo. Il realismo ingenuo sa infatti del corpo, ma non dell’anima e dello spirito, e appunto per questo identifica tanto il concetto che la rappresentazione con la percezione (con l’immagine percettiva); l’idealismo critico sa invece del corpo e dell’anima, ma non dello spirito, e appunto per questo distingue la percezione (il percetto) dalla rappresentazione (dalla immagine percettiva), ma proietta poi il concetto (del quale è rimasto ignaro) sul percetto, scambiandolo per una imperscrutabile “cosa in sé”.

 

Stando così le cose, possiamo dire allora che col realismo ingenuo, che ci rende coscienti di un elemento su tre, ci troviamo allo stato di “sonno”, che con l’idealismo critico, che ci rende coscienti di due elementi su tre, ci troviamo allo stato di “sogno”, e che è solo con La filosofia della libertà, grazie alla quale perveniamo alla coscienza di tre elementi su tre, che conquistiamo lo stato di “veglia”. È questa, dunque, un’ulteriore prova che l’opera di Steiner non è un’opera filosofica, bensì un insostituibile mezzo di risveglio interiore.

 

L’idealismo critico, in definitiva, condanna il pensiero a una sorta di “solipsismo” o di “autismo”. Il conoscere viene infatti da esso segregato nella sfera delle rappresentazioni e privato d’ogni pur minima speranza di poter un giorno accedere alla realtà del mondo, degli altri e di noi stessi.

La realtà viene così spezzata in due:

• da una parte, vengono posti il mondo, l’altro e il sé “fenomenici” 

• e, dall’altra, il mondo, l’altro e il sè “noumenici”.

 

Se il dualismo è il sintomo di una malattia (o di una lacerazione) dalla quale l’anima anela a guarire,

l’idealismo critico, per il fatto stesso di proporre una duplicatio e non una coincidentia oppositorum,

è allora il sintomo di una malattia (o di una lacerazione) in qualche modo più grave.

 

Dal momento che ci stiamo muovendo sul piano gnoseologico, mi rendo conto che le conseguenze “esistenziali” di un tale stato di cose possano non apparire evidenti. Provate però a pensare, per un attimo, all’amore. Riuscite forse a immaginare un qualche realista ingenuo che si senta di confessare all’amata che la considera soltanto un corpo? O un qualche idealista critico che si senta invece di confessarle che, essendo lei una sua rappresentazione, non ama in realtà che sé stesso?

 

L’ho detta in modo scherzoso, ma, per la verità, ci sarebbe poco da scherzare. Ricordo di aver letto, una volta, di uno Yoghi che diceva: “chi non capisce tutto, non capisce niente”. Ebbene, qualora fossimo sul serio convinti di non poter mai arrivare a conoscere l’essenziale, e di doverci quindi accontentare di quanto è accidentale, per quale ragione dovremmo allora batterci o lottare per la verità? Per quale ragione – intendo dire – non dovremmo lasciarci andare alla rassegnazione e all’apatia?