13° Incontro

Amor, che ne la mente mi ragiona.


 

Quinto capitolo

 

Stasera, prima di entrare nel vivo di questo nuovo capitolo, sarà bene tornare brevemente a riflettere su alcune delle cose trattate nei nostri ultimi incontri.

Steiner comincia infatti il presente capitolo dicendo:

 

“Dalle considerazioni precedenti risulta l’impossibilità

di raggiungere, attraverso l’esame del contenuto della nostra osservazione,

la dimostrazione che le nostre percezioni sono rappresentazioni” (p.67).

 

 

Orbene, non credo sia facile intendere questa affermazione se non si distingue – come abbiamo già proposto e fatto –

• l’oggettivo “percetto”      • dalla soggettiva “immagine percettiva”.

 

“Attraverso l’esame del contenuto della nostra osservazione”, l’idealismo critico riesce infatti a dimostrare che le immagini percettive sono soggettive, ma non riuscendo viceversa a dimostrare che lo siano i percetti, si vede allora costretto a liberarsene confinandoli nel misterioso universo delle “cose in sé” (ciò spiega peraltro il perché Steiner dica, poco dopo, che “una cosa è la giustezza dell’idealismo critico, e un’altra cosa è la forza persuasiva dei suoi argomenti”). Per l’idealismo critico, le nostre percezioni sono dunque soggettive e ideali (in quanto le immagini percettive, essendo gli oggettivi e reali percetti inconoscibili, sono solo nostre rappresentazioni), mentre per il realismo ingenuo sono oggettive e reali (poiché oggettivo e reale è il percetto identificato con l’immagine percettiva).

 

Allo stesso problema, Eduard von Hartmann, con il suo “realismo trascendentale”, dà una diversa soluzione. Come Kant, egli distingue l’oggettivo e reale percetto dalla soggettiva e ideale immagine percettiva, ma sostiene, a differenza di Kant, che tale elemento oggettivo e reale (la “cosa in sé”), se non può essere conosciuto direttamente, può esserlo però indirettamente (ipoteticamente), proprio in virtù del modo in cui ce lo rappresentiamo.

 

Si tratta di un punto di vista importante poiché – osserva Steiner –

 

“in questa posizione sta la scienza naturale moderna, la quale adopera le percezioni solo come ultimo mezzo per arrivare a comprendere i processi della materia che stanno dietro le percezioni e che soli sono veri” (p.68).

 

 

Steiner fa altresì notare che se il realismo ingenuo, “logicamente svolto”, ha il torto di condurre a dei risultati “che sono in diretto contrasto coi suoi presupposti”, l’idealismo critico ha invece quello di voler abbandonare tali presupposti, conservandone al tempo stesso le deduzioni.

Il realismo ingenuo parla infatti di un’azione dell’oggetto sul soggetto che, “logicamente svolta”, dovrebbe comportare, da parte del secondo, una reazione di cui però si tace; mentre l’idealismo critico parla di una reazione del soggetto che dovrebbe però presupporre quella stessa azione dell’oggetto di cui parla il realismo ingenuo.

 

È giunto comunque il momento di affrontare il problema più importante:

ossia, quello dell’origine della rappresentazione.

 

 

“Come fa l’io – chiede infatti Steiner – a creare, traendolo da se stesso il mondo delle rappresentazioni?” (p.70).

 

 

Naturalmente, il realista ingenuo non si pone un problema del genere poichè è convinto che sia l’oggetto a “creare”, nel soggetto, “il mondo delle rappresentazioni”, e che questo non sia perciò che una copia (una ri-produzione) di quello delle percezioni.

L’idealista critico invece se lo pone e lo risolve – come abbiamo visto – sostenendo che la rappresentazione è una creazione (una produzione) del soggetto in risposta allo stimolo proveniente dall’oggetto.

 

• Per il primo, è dunque la rappresentazione a derivare dall’immagine percettiva, mentre,

• per il secondo, è l’immagine percettiva a derivare dalla rappresentazione.

Ma se è l’immagine percettiva a derivare dalla rappresentazione, da che cosa deriva allora la rappresentazione?

 

E’ proprio a questo punto, in effetti, che dovrebbe entrare in scena il concetto, ma è proprio a questo punto che la scena rimane inspiegabilmente vuota. Difatti, il realismo ingenuo non può permettere al concetto di esibirsi poiché lo ha inconsciamente identificato con il percetto, con l’immagine percettiva e con la rappresentazione, mentre l’idealismo critico non può permettergli di fare la sua parte poiché, pur non identificandolo più con l’immagine percettiva e con la rappresentazione, continua però a identificarlo col percetto e a considerarlo quindi un’ignota e irraggiungibile “cosa in sé”.

In altre parole, il realismo ingenuo proietta sul corpo l’anima e lo spirito, mentre l’idealismo critico distingue l’anima dal corpo, ma insiste nel proiettare sul secondo lo spirito.

È solo con La filosofia della libertà che ci viene dunque offerta la possibilità – come dicono gli psicoanalisti – di “ritirare le proiezioni” e di portare così alla coscienza la complessa attività svolta, nell’ambito della cognizione sensibile, dal corpo (dalla percezione), dall’anima (dalla rappresentazione) e dallo spirito (dal concetto).

Volendo, potremmo riassumere queste ultime considerazioni nel seguente schema:

 

Ovviamente,

• P e C stanno per “Percezione” e “Corpo”,

• R e A per “Rappresentazione” e “Anima

• e C ed S per “Concetto” e “Spirito”.

 

Abbiamo già detto, nel corso di uno dei nostri precedenti incontri, che le rappresentazioni, a dispetto dell’apparenza e della comune convinzione, non sono immagini delle cose, bensì dei concetti.

Jung, ad esempio, osservando e studiando la vita profonda dell’anima, ha scoperto che le “immagini archetipiche” sono manifestazioni degli “archetipi in sé” e che, di un solo “archetipo in sé”, possono darsi molteplici “immagini archetipiche”.

È davvero un peccato, perciò, che non si sia affatto accorto di aver messo in tal modo le mani sulla realtà profonda dei concetti e delle rappresentazioni e su quella, in particolare, dei loro occulti rapporti. Non a caso, l’ignoto concetto, confinato (o rimosso) da Kant nell’irraggiungibile sfera delle “cose in sé”, è stato infatti confinato (o rimosso) da Jung, in qualità di ’“archetipo in sé”, in un’altrettanto irraggiungibile sfera “psicoidea”: cioè a dire, in una sfera “limite” che – come sta a indicare il suo stesso nome – dovrebbe essere a un tempo “psichica” e “non-psichica”.

Ma qui, delle due, l’una: o tale realtà si trova al confine “superiore” dell’anima, e non si può più allora parlare solo del corpo e dell’anima, ma si deve tirare in ballo lo spirito; o tale realtà si trova al confine “inferiore” dell’anima, e allora, venendo in parte a confondersi con quella del corpo, non si comprende più quale differenza ci sia tra l’“archetipo in sé” e l’”istinto”, e per ciò stesso tra la psicologia junghiana e quella freudiana.

 

Si dice: quot capita, tot sententiae; ci si dovrebbe tuttavia rendere conto che se ciò è vero per quel che riguarda le rappresentazioni, non lo è più per quel che riguarda invece i concetti. Non è comunque facile – bisogna ammetterlo – riconoscere che il concetto “in sé” è uno e che ciascuno se lo rappresenta diversamente in funzione della propria natura o delle proprie esperienze.

Potremmo dire, in sostanza, che siamo tutti, di fatto, dei “nominalisti”, in quanto la vivente realtà del concetto si situa al di là di quella soglia che divide la nostra coscienza ordinaria, deputata a fornirci nozione di quanto esiste nel tempo e nello spazio, da quei superiori livelli di coscienza che potrebbero fornirci nozione di quanto è invece al di là del tempo e dello spazio (di quanto è, ossia, animico-spirituale). Non si tratta comunque di retrocedere verso il realismo medioevale, quanto piuttosto di avanzare verso un realismo moderno: di passare cioè, grazie alla scienza dello spirito, dal realismo ingenuo (o incosciente) delle cose, al realismo critico (o cosciente) dei concetti o delle idee.

 

Al riguardo, Steiner, in un ciclo di conferenze intitolato Pensiero umano e pensiero cosmico, propone una riflessione sul concetto di “triangolo” che finisce col costituire un vero e proprio esercizio. In qual modo – dice appunto Steiner – posso rappresentarmi il “triangolo universale”?

In effetti, alla ordinaria coscienza intellettuale riesce impossibile immaginare un triangolo che abbia la proprietà di contenere in sé tutti i triangoli possibili. Allorchè immaginiamo un triangolo, subito infatti ci accorgiamo di averlo immaginato rettangolo, acutangolo od ottusangolo, oppure equilatero, isoscele o scaleno. Ove però immaginassimo un triangolo i cui lati avessero la facoltà di ruotare intorno a uno dei vertici con velocità diverse (come fanno pressappoco le lancette dell’orologio), ecco allora che al compiersi di un suo giro sarebbero venuti a prender forma, istante dopo istante, tutti i triangoli possibili. E cosa accadrebbe, inoltre, se, muniti di un qualche congegno simile a quello che consente a un telecomando di fermare le immagini che scorrono sul video, ci divertissimo ad arrestare la rotazione di un siffatto triangolo? Si avrebbe – è presto detto – la rappresentazione.

 

Ben si vede, dunque, come questa nasca nel momento stesso in cui il movimento (lo “svolgimento”) del concetto muore. La rappresentazione non è infatti che un coagulo della vita del pensare e un’ombra della luce del concetto.

Senza tema di esagerare, potremmo quindi dire che una “litiasi”, come è in grado di produrre un’alterazione della funzione del fegato o dei reni, così è in grado di produrre quella alterazione della funzione dell’intelletto che va sotto il nome di “intellettualismo”. Non a caso, Hegel ritiene che il prodotto più rappresentativo della natura dell’intelletto sia appunto il “calcolo”. Tutti noi ci muoviamo normalmente su questo piano e siamo quindi inerti tanto quanto lo sono questi sedimenti o precipitati del pensiero.

Il bello è che qualcuno, pur versando in questa condizione, pretenderebbe che gli venisse mostrata o dimostrata, su questo stesso piano, la realtà vivente del pensare o quella luminosa del concetto. In realtà, non è possibile esperire tali realtà se non ci si decide a riscuotersi e a muoversi interiormente.

 

Torniamo comunque a noi e ripensiamo alla precedente immagine del triangolo universale. Abbiamo detto che la rappresentazione nasce nel momento in cui si arresta lo svolgimento del concetto. Ebbene, chiediamoci adesso chi sia ad arrestare tale svolgimento, permettendo così alla rappresentazione di precipitare e di affacciarsi alla coscienza.

È subito detto: la percezione o, per essere più precisi, l’atto percettivo. Nell’istante stesso in cui percepiamo un dato (un percetto), si avvia infatti il processo che sfocia appunto nella rappresentazione. Proprio per questo, Scaligero afferma che il “percepire” è inconscio, mentre il “percepito” è conscio.

 

• Da una parte (da quella del corpo), accogliamo dunque il dato “individuale” della percezione,

• dall’altra (da quella dello spirito) accogliamo invece il dato “universale” del concetto:

• questi poi si coniugano nella sfera intermedia o “particolare” dell’anima, generando la rappresentazione.

 

Meglio sarebbe dire, comunque, che

l’incontro del percetto col concetto genera un’immagine vivente (un’immaginazione “precosciente”)

• e che è poi questa, rispecchiandosi nell’organo cerebrale,

a darsi alla coscienza (ordinaria) come “chiara”, “distinta” ma spenta rappresentazione.

• Si ha qui, dunque, la nascita dell’immagine: ovverosia, del “fenomeno primordiale” della vita psichica.

Difatti, ricordi, fantasie, illusioni, allucinazioni e sogni hanno tutti natura immaginativa.

 

Si verifica quindi, con le rappresentazioni, un qualcosa di simile a quel che si verifica con i colori.

Secondo Goethe, il colore visibile nasce infatti dall’incontro o dallo scontro invisibile della “luce” con la “tenebra”: vale a dire, dall’incontro o dallo scontro di due forze antitetiche che si prestano a essere rispettivamente associate al pensare (al concetto) e al volere (al percetto).

 

Abbiamo detto che non c’è cosa al mondo che non si dia, in prima istanza, quale percetto, e che non c’è percetto al mondo che non debba, in seconda istanza, essere integrato dal concetto, per poter essere così determinato, reso cosciente e messo altresì in relazione con gli altri percetti.

Il nostro primo incontro o scontro con la realtà (quello del percepire) avviene dunque in forma incosciente o in stato di sonno. Quando ci serviamo poi del pensare per determinare o qualificare il dato percettivo (per dire cioè – se ricordate un vecchio esempio – che X è A) , è come perciò se ci trovassimo a dover interpretare, a un livello di coscienza superiore, quanto abbiamo appena sperimentato a un livello di coscienza inferiore.

 

Dice appunto Steiner:

 

“Di fatto vi è qualcosa che si comporta, rispetto al puro percepire,

come lo sperimentare allo stato di veglia si comporta rispetto al sognare: questo qualcosa è il pensare”(p.71).

 

 

In effetti, si sogna a un livello di coscienza diverso da quello in cui si interpreta il sogno.

• Per sognare, si deve infatti dormire, mentre, per interpretare i sogni, si deve vegliare.

 

Ebbene, cosa dovremmo fare se volessimo “interpretare” invece la veglia? A quale altro livello di coscienza dovremmo portarci per fare una cosa del genere? Il Buddha, ad esempio, era un “risvegliato”: non però un “risvegliato” dal sonno manifesto, bensì da quello immanifesto della coscienza ordinaria.

Quest’ultima è “vigile”, infatti, fintantochè si misura con tutto ciò che esiste materialmente nello spazio e di cui ha notizia mediante gli organi di senso fisici, ma finisce di esserlo non appena comincia a misurarsi con tutto ciò che è invece vita, anima e spirito.

 

Per distinguere, all’interno della coscienza ordinaria, quanto è “veglia”, quanto è “sogno” e quanto è “sonno”, occorre tuttavia imparare a osservarla da un punto di vista più alto. Con l’esercizio interiore, ciascuno può risvegliare e portare alla coscienza quelle forze che, agendo inconsciamente, ci forniscono l’ordinaria cognizione sensibile.

In virtù dell’esercizio, c’è chi riesce a fare i salti mortali e chi riesce, col taglio della mano, a spaccare i mattoni. Ciò dunque dimostra che, con un opportuno allenamento, si possono raggiungere degli obiettivi che sembrerebbero a prima vista impossibili. Ma perché non esercitare allora la coscienza e il pensiero? Piuttosto che fare salti mortali o spaccare mattoni, non avremmo infatti bisogno di fare “salti” conoscitivi (per portarci al di là della soglia) o di “spaccare” il muro d’ignoranza e di menzogna che c’imprigiona?

 

Abbiamo già illustrato, sebbene schematicamente, il viaggio (afferente) che l’essenza dell’oggetto compie, attraverso l’ambiente e il corpo, per arrivare all’Io, e quello (efferente) che compie, attraverso l’anima, per essere in ultimo riconosciuto come il tale o il talaltro “oggetto”.

Tale riconoscimento, operato occultamente ed essenzialmente dall’Io, viene dunque alla luce solo sul piano della nostra attuale coscienza di veglia: ossia, su quel piano che Steiner chiama “materiale” od “oggettivo” e che, non essendo all’altezza dell’essere del soggetto, non è nemmeno all’altezza dell’essenza dell’oggetto (“Tu somigli – si dice appunto nel Faust – allo spirito che comprendi”). Tale piano coincide con quello raggiunto dall’anima cosciente al termine della sua prima fase di sviluppo (che cade nella seconda metà del secolo XIX).

 

Sarà bene quindi soffermarci, seppur brevemente, sui passaggi evolutivi

che dall’anima senziente, attraverso l’anima razionale o affettiva, hanno portato all’anima cosciente.

 

Sappiamo – da Steiner – che l’umanità ha attraversato una fase di sviluppo in cui era dotata dell’anima senziente, ma non ancora di quella razionale né, tantomeno, di quella cosciente. Ciò vuol dire che lo spirito (l’Io) era a quel tempo attivo nell’anima senziente (legata al corpo astrale) e che gli uomini ne avevano perciò una viva “sensazione” (in forma mitologica o immaginativa). Allorché è cominciato lo sviluppo dell’anima razionale o affettiva (nel 747 d.C.), lo spirito (l’Io) ha però abbandonato la sensazione e ha preso ad agire nei concetti e nell’attività giudicante (legati al corpo eterico). Se ne può avere conferma, osservando il modo in cui, partendo dai presocratici e passando per Socrate, Platone e Aristotele, si arriva a Tommaso d’Aquino e, nell’ambito della “scolastica”, al celebre contrasto tra il “realismo” e il “nominalismo”. Proprio la nascita del “nominalismo” annuncia infatti la fine della fase evolutiva dell’anima razionale o affettiva e l’inizio di quella dell’anima cosciente (nel 1413 d.C.).

 

Anche al momento di questo passaggio, lo spirito (l’Io) abbandona la sua precedente mediazione. E dove va ad agire questa volta? Va ad agire nel corpo fisico (nel sistema neuro-sensoriale, e in specie nel cervello) per potersi così “auto-riflettere”, e quindi “auto-osservare” e “auto-pensare”: per poter così godere, insomma, seppure in modo spento e speculare, di una prima, lucida e definita coscienza di sé.

 

Da questo punto di vista, il cogito cartesiano assume una valenza invero “monumentale”. “Cogito, ergo sum”: quale più icastica espressione potrebbe infatti testimoniare della nascita dell’anima cosciente? Vedete, noi diciamo “anima cosciente”, ma “cosciente” di che cosa? In quanto “anime”, sia quella “senziente” che quella “razionale” non erano forse già “coscienti”? Lo erano; tant’è vero che, anziché chiamarle “anima” senziente e “anima” razionale, potremmo benissimo chiamarle “coscienza” senziente e “coscienza” razionale. Ma cos’è allora a rendere diversa l’anima cosciente? Il fatto del tutto singolare – possiamo dire – che è cosciente, non solo, come le altre, dell’oggetto, ma anche di sé stessa o del soggetto quale realtà separata da quella dell’oggetto (e dunque del mondo).

 

Ciò sta a significare che i punti di appoggio interiori dell’anima senziente (la sensazione) e dell’anima razionale o affettiva (il concetto e l’attività giudicante), hanno lasciato il posto, con l’anima cosciente, a un punto di appoggio esteriore: ovvero, a quella realtà dell’oggetto (o del corpo fisico) che si fa garante di quella del soggetto che la percepisce e la pensa.

Lo stesso Io, un tempo presente in modo incosciente, ma reale, nella sensazione, e poi in modo subconsciente, ma pur sempre reale, nei concetti e nell’attività giudicante, è ora dunque presente, quale ideale “forma” cosciente, nel pensare e, quale reale “forza” incosciente, nel volere (e quindi nell’atto percettivo, nel percetto e nell’immagine percettiva). Del resto, ove così non fosse, mai si sarebbe affermato quel realismo ingenuo che accomuna – come abbiamo visto – naturalisti, positivisti e materialisti.

 

Ecco il perché Steiner, dopo aver messo in rapporto la storia dell’anima senziente con quella della mitologia, e la storia dell’anima razionale o affettiva con quella della filosofia, mette in rapporto la moderna storia dell’anima cosciente con quella della scienza. Per il filosofo, infatti, è importante anzitutto il concetto (l’oggetto del pensare), mentre per lo scienziato è importante anzitutto il percetto (l’oggetto del percepire).

 

 

“Fra la percezione – ricorda però Steiner – e qualsiasi asserzione riguardo alla medesima si frappone il pensare” (p.71).

 

 

In effetti, grazie all’atto percettivo, m’incontro o mi scontro con ciò che è altro da me: ossia, con ciò che attende, grazie all’atto conoscitivo (e quindi all’atto del pensare chiamato a integrare quello percettivo) di essere rivelato a sé stesso.

Dunque, il percetto va incontro al concetto per avere forma (ideale) e il concetto va incontro al percetto per avere forza (reale). Orbene, l’uomo nasce proprio laddove questi due mondi si toccano: laddove, ossia, la realtà prende a vivere nell’idea e l’idea prende a vivere nella realtà.

 

Dice Steiner:

 

“La coscienza primitiva tratta il pensare come qualcosa che non ha nulla a che fare con le cose,

ma ne rimane interamente in disparte, e in disparte fa le sue considerazioni sul mondo” (p.72).

 

 

La “coscienza primitiva” non considera infatti che al mondo, oltre le cose, ci sono pure gli impulsi della volontà,

i sentimenti e i pensieri: vale a dire, che al mondo non c’è solo il mondo, ma anche la coscienza del mondo.

Il mondo è costituito in realtà di due parti: del mondo percepito e del mondo pensato.

Il problema è perciò quello di capire quale rapporto vi sia tra queste parti.

L’uomo, in fondo, non è che quella parte di mondo mediante la quale il mondo stesso viene a prendere coscienza di sé.

 

“L’uomo – scrive Scaligero in Tecniche della concentrazione interiore – conosce e in qualche modo domina il mondo, mediante il pensiero. La contraddizione è che egli non conosce né domina il pensiero”.

 

Più che di una “contraddizione”, si tratta però di un paradosso. Perché? Perché si scopre che è innanzitutto il “conscio” a essere “inconscio” (di sé o, per meglio dire, delle ragioni per cui è tale). A una raccolta di alcuni suoi saggi, Jung ha dato ad esempio questo titolo: Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna.

Già, e il problema del conscio? In effetti, sembra quasi che questo non esista o che possa tutt’al più costituire materia di riflessione “astratta” per la filosofia e “concreta” per la neurofisiologia. E se scoprissimo, invece, che tale “inconscio” è proprio quello dal quale nasce il conscio e nel quale affondano le radici che diuturnamente lo alimentano? La questione oltretutto è importante perché – come insegna la stessa psicologia del profondo e come abbiamo già avuto modo di ricordare – quanto è inconscio tende a riemergere alla coscienza mediante la proiezione.

 

Un pensiero che ignori il proprio essere o la propria forza,

tenderà perciò a proiettare tale essere o tale forza su una qualsiasi altra cosa (fisica o metafisica),

facendo così crescere il valore ontologico dell’oggetto a tutto detrimento di quello del soggetto.

 

Da ciò consegue, ovviamente, che il pensiero indaga, sì, il mondo, ma finisce poi con lo scoprire delle cose

che sente quasi sempre più reali di sé, e dalle quali viene per ciò stesso dominato.

 

Non è vero, forse, che udiamo spesso lamentare il fatto che l’uomo sia diventato schiavo di molti degli strumenti che crea e usa? Ma perché ne è diventato schiavo? Perché non è pienamente padrone del pensiero che li crea, e quindi della volontà che li usa.

Se è vero, del resto, che la realtà è fatta di corpo, anima e spirito, è anche vero, allora, che una scienza che si occupi solo del corpo è una scienza che si occupa, di fatto, di un terzo della realtà.

Purtroppo, però, continuando a conoscere e a dominare un terzo della realtà saremo sempre meno in grado di affrontare e risolvere i problemi che già urgono nel presente e che sempre più urgeranno in avvenire.