14° Incontro

Amor, che ne la mente mi ragiona.


 

Continua il quinto capitolo

 

Abbiamo concluso il nostro ultimo incontro parlando della coscienza cosiddetta “ingenua” o “primitiva”. Cominceremo, stasera, riprendendo questo argomento.

 

Dice Steiner:

 

“L’immagine che il pensatore si forma dei fenomeni del mondo, non ha valore come un qualcosa che appartiene alle cose, ma che esiste soltanto nella testa dell’uomo; il mondo è completo anche senza questa immagine.

Il mondo è lì, completo in tutte le sue sostanze e forze; e di questo mondo completo in sé, l’uomo si fa un’immagine. Ma a chi pensa così, bisogna domandare: “Con che diritto considerate voi completo il mondo, senza il pensare? Non produce forse il mondo, con la stessa necessità, il pensare nella testa dell’uomo e i fiori sulla pianta? Piantate un seme nel terreno, getterà una radice e un fusto, svilupperà foglie e fiori. Ponete la pianta di fronte a voi stessi: essa si unisce nella vostra anima con un determinato concetto. Perché questo concetto apparterrebbe all’intera pianta meno delle foglie e dei fiori?

Voi dite che le foglie e i fiori esistono senza un soggetto percipiente, mentre il concetto appare soltanto quando l’uomo si contrappone alla pianta. Verissimo. Ma anche le foglie e i fiori si formano sulla pianta solo quando vi sia della terra in cui collocare il seme, e vi siano luce e aria in cui foglie e fiori possano svilupparsi. Proprio così si forma il concetto della pianta, quando una coscienza pensante si accosta alla pianta”“ (p.72).

 

 

Ebbene, qui c’è qualcosa d’importante da capire, qualcosa che non è però facile esprimere. Guardando fuori di noi, percepiamo esseri minerali, vegetali, animali e umani, e quanto è stato costruito da questi ultimi; e tutto ciò lo sentiamo ben più reale di quanto percepiamo guardando dentro di noi: ben più reale, ossia, del pensiero, del sentimento e della volontà, ma soprattutto del pensiero. Ma anche il pensiero fa parte della realtà. Perché è allora così difficile rendersene conto? Perché se è vero, per un verso, che al mondo ci sono il reale e il pensiero del reale, è anche vero, per l’altro, che il pensiero, in quanto riflesso, non viene avvertito reale quanto il reale di cui è pensiero.

 

Non dovremmo però dimenticare che questo è un problema che riguarda direttamente il soggetto (portatore del pensiero del reale) e non l’oggetto (il reale). Spetta dunque al primo scoprire che il pensiero riflesso in tanto è tale in quanto, a riflettersi, è qualcosa di reale. Come, ad esempio, la fotografia di un cavallo presuppone e riflette un cavallo reale, così la rappresentazione di un pensiero presuppone e riflette un pensiero reale (un concetto o un’idea). In sostanza, è proprio per questa ragione che il realista ingenuo è portato a credere che il mondo sia già completo in sé stesso e che, con la nostra coscienza o conoscenza, non gli aggiungiamo nulla; egli è anzi convinto che sia il mondo, agendo su di noi e lasciando in noi una sua impronta (una rappresentazione), ad arricchirci di qualcosa (a non lasciare rasa, cioè, la nostra tabula interiore).

 

Al riguardo, è utile fare un breve confronto tra il processo conoscitivo, quello alimentare e quello respiratorio. Mangiando, non facciamo altro che introdurre all’interno del nostro corpo ciò che nasce, cresce e vive al suo esterno: non facciamo altro, ossia, che introdurre in noi dei pezzi di mondo. Ora, se questi conservassero, in noi, la loro natura, ci intossicherebbero. Per questo, il processo metabolico si divide in due fasi. Nella prima (catabolica), quei pezzi di mondo che chiamiamo cibi vengono privati della loro natura in virtù di un processo di destrutturazione della sostanza (cominciato già con la masticazione) che porta quest’ultima a una specie di “punto zero”. Quando, ad esempio, ci rimane qualcosa “sullo stomaco”, vuol dire appunto che un alimento, non essendo stato distrutto a sufficienza, continua a vivere in noi come un corpo estraneo. Quando però va tutto bene, s’inizia allora la seconda fase (anabolica). In questa, muovendo da tale “punto zero”, la sostanza viene in parte ricostituita, con qualità umane e individuali che la rendono simile a noi (assimilabile), e in parte eliminata. Inutile dire che la qualità della sostanza eliminata è ben diversa tanto da quella originaria del cibo che da quella assimilata. Respirando, altro non facciamo invece che inalare ed esalare l’aria. Mediante l’inalazione, l’aria esterna entra in noi e, mediante l’esalazione, l’aria interna esce da noi. Anche in questo caso, ciò che esce da noi è diverso da ciò che entra in noi. Ciò vuol dire dunque che il passaggio attraverso il corpo umano non è privo di conseguenze e per il cibo, e per l’aria, e per il corpo stesso.

 

In realtà, ci troviamo alle prese con un unico processo che si svolge in modi diversi a seconda del livello al quale si manifesta. Dobbiamo fare infatti un altro passo e considerare che anche al livello conoscitivo, c’è qualcosa che entra in noi e che, dopo essere stato elaborato, viene in parte assimilato e in parte eliminato. E di che si tratta? È presto detto: del dato della percezione (del percetto).

Nel momento in cui viene assunto, anche il percetto, al pari del cibo e dell’aria, rappresenta infatti un elemento estraneo che necessita, in quanto tale, di essere assimilato. A questo livello, tuttavia, l’assimilazione avviene soltanto perché l’Io si ri-conosce nel percetto e il percetto si conosce nell’Io.

Anche in questo caso, dunque, il mondo passa attraverso l’uomo; e lo fa perché vuole giungere alla coscienza di sé.

 

Il mondo, infatti,

giace allo stato di morte nel regno minerale,      • vive allo stato di sonno in quello vegetale,

muove allo stato di sogno in quello animale,     • e perviene allo stato di veglia nel regno umano.

 

È quindi l’essere stesso del mondo che, accedendo attraverso l’uomo alla veglia, prima si divide da sé e poi ritorna su di sé per osservarsi, pensarsi e trasformarsi così in spirito. Dunque, come il “mondo-cibo” e il “mondo-aria” si trasformano o si transustanziano, attraversando sensibilmente il “mondo-uomo”, così pure si trasforma o si transustanzia tutto ciò che viene percepito, pensato e quindi conosciuto.

Un presentimento di questa verità lo si può trovare in tutte quelle leggende e fiabe che parlano di esseri che vivono incantati o imprigionati negli elementi della natura. Tali esseri incantati o imprigionati non sono, in realtà, che le essenze delle cose: ovvero, quei noumeni che attendono di essere appunto disincantati e liberati dal conoscere umano, e al cui “grido di dolore” – come abbiamo visto – Kant si è mostrato del tutto “insensibile”.

 

Mi auguro che queste considerazioni permettano di capire che la conoscenza non è un passatempo o un gioco, bensì una questione di vita o di morte spirituale. È perciò assai triste il constatare quanto sia divenuto inconsistente o superficiale il pensiero contemporaneo. Questo, infatti, quando non si mostra greve od ottuso, si mostra allora fatuo, ludico o vanesio, e quindi affetto da un vizio o da una malattia morale. Nel mondo, c’è in realtà dolore e attesa: un’attesa di redenzione che viene spietatamente frustrata tutte le volte in cui utilizziamo il pensiero per esibirci o trastullarci, o per perseguire quelli che ci illudiamo essere i nostri veri interessi (e che sono invece solo quelli “particulari” dell’ego).

 

 

“Se oggi ricevo un bocciolo di rosa, – dice comunque Steiner – l’immagine che se ne presenta alla mia percezione è da principio (ma solo da principio) in sé conclusa. Se metto il bocciolo nell’acqua, avrò domani una tutt’altra immagine del mio oggetto. Se non distacco gli occhi dal bocciolo di rosa, vedrò lo stato odierno trasformarsi in quello di domani in maniera continua, attraverso innumerevoli passaggi intermedi. L’immagine che mi si presenta in un determinato momento è solo un ritaglio casuale dell’oggetto concepito in un continuo divenire.

Se non mettessi il bocciolo nell’acqua, esso non darebbe luogo allo sviluppo di tutta una serie di stati che vi erano contenuti in potenza. Ugualmente potrei domani essere impedito di continuare ad osservare il fiore, e potrei averne quindi un’immagine incompleta. Ma sarebbe un’opinione del tutto irreale, legata a semplice casualità, quella che, dell’immagine staccata che si presenta in un dato istante, affermasse: “Questa è la cosa”“ (p.73).

 

 

Se volete un facile esempio del rapporto tra l’“immagine staccata” e la “cosa”, pensate allora a quello tra il singolo fotogramma e il film: a nessuno verrebbe in mente di prendere uno o più fotogrammi di un film per il film. Eppure ai realisti ingenui viene in mente di prendere una o più immagini percettive della cosa per la cosa. Ciò avviene, però, perché si trascura di considerare che l’immagine percettiva è rigidamente condizionata dal cosiddetto hic et nunc. Ad esempio, l’immagine percettiva della rosa che ho oggi stando qui, non è uguale a quella che ne avrò domani stando lì. Ci si dovrebbe tuttavia domandare: ma se tanto l’immagine che ne ho oggi stando qui, quanto quella che ne avrò domani stando lì, sono immagini diverse di una stessa rosa, dov’è allora quella rosa di cui sono entrambe immagini? E quando parlo, invece che della rosa, dell’Io, a quale delle sue immagini percettive mi riferisco? A quella di quando avevo dieci anni? O a quelle di quando ne avevo venti, trenta, quaranta o cinquanta? E se l’immagine percettiva dell’Io cambia continuamente, dov’è allora quell’Io che sta a fondamento di tale continuità?

 

Lo spazio – dice Hegel – è il luogo in cui l’essere esiste fuori di sé.

Per intendere appieno una simile affermazione, è necessario avere presente questa successione:

• prima l’essere, sul piano della qualità (o del concetto), è un essere in sé;

• poi, sul piano del tempo, comincia a esistere venendo fuori di sé;

• infine, sul piano dello spazio, esiste (o giace) fuori di sé.

 

Questi, per quanto mirabili, non sono però che dei concetti astratti cui ciascuno di noi dovrebbe riuscire a dare un’anima o un contenuto di esperienza. Ciascuno, insomma, dovrebbe sforzarsi, non solo di osservare queste cose così come ce le presenta la natura (nei minerali, nelle piante e negli animali), ma di sperimentare sé stesso e come realtà “morta” nello spazio, e come realtà “vivente” nel tempo, e come realtà “qualitiva” (“concettuale” o “ideale”) nell’anima.

 

Comunque sia, tutto sta nell’educare bene l’intelletto giacché è da questo, volenti o nolenti, che si devono prendere le mosse. Vedete, la scienza dello spirito parte proprio dal punto evolutivo al quale siamo arrivati. Non siamo forse ormai tutti alle prese con la coscienza intellettuale o rappresentativa? Bene, partiamo allora da qui.

Chi ha visto l’ultimo film di Andrej Tarkovskji, Sacrificio, probabilmente ricorderà che uno dei suoi protagonisti, dopo aver conficcato in terra un bastone, si prende cura di andarlo periodicamente a innaffiare. Ebbene, ricorderete pure che è proprio da questo morto pezzo di legno che risorge a un certo punto la vita e si vedono spuntare dei germogli.

 

Questa può essere una buona immagine del modo in cui ciascuno di noi dovrebbe coltivare il proprio morto intelletto. Se infatti, a dispetto di ogni logica, prendessimo regolarmente a innaffiarlo, anche da questo potrebbe risorgere la vita. Ma innaffiare l’intelletto vuol dire educarlo e impegnarlo mediante lo studio e la pratica interiore della scienza dello spirito. Il segreto, in fondo, è tutto qui.

Lucifero sa solo far nascere la vita dalla vita (conservare la vita), e mostra quindi di temere o fuggire la morte, mentre Arimane sa solo far nascere la morte dalla morte (conservare la morte), e mostra quindi di temere o fuggire la vita. Entrambi dunque ignorano il segreto della resurrezione, e non sanno per tanto far nascere, come il Cristo, la vita dalla morte.

 

Si tratta, insomma, di trovare il coraggio di partire dalla nostra coscienza morta e d’impegnarci a capire, tanto per cominciare, il come e il perché sia morta: d’impegnarci, cioè, a oggettivarla, cessando così d’identificarcisi. Chi riesce a vedere la morte è infatti vivo: è vivo poiché è riuscito, varcando la soglia che divide il mondo fisico da quello eterico, a risalire dalla coscienza dello spazio a quella del tempo, e a osservare perciò l’essere morto della prima dall’alto dell’essere vivo della seconda.

Sapete, ogni tanto mi sento chiedere: “Come si fa a capire se il pensiero è vivo?”; “Se si comincia a vedere quello morto”, rispondo. Quest’ultimo infatti lo si vede, non fintantoché vi si è dentro, ma non appena si comincia a esserne fuori.

 

Certo, per aver chiaro quanto stiamo dicendo bisogna aver già realizzato che, normalmente, non godiamo affatto di una diretta coscienza del tempo. Parlando dell’esistenza, parliamo – è vero – di una coscienza spazio-temporale, ma, in questa, la coscienza dello spazio prevale nettamente su quella del tempo. In tanto abbiamo infatti una qualche coscienza del tempo in quanto lo spazializziamo. Cos’è d’altronde un orologio se non una macchina che misura il tempo proprio perché lo spazializza o lo fraziona? Nessuno, infatti, è normalmente in grado di fare diretta esperienza del movimento continuo del tempo, né tantomeno di riconoscere, in questo, quello stesso della vita.

Per fare una simile esperienza è necessario infatti sviluppare quel primo livello di coscienza superiore che Steiner chiama “immaginativo”. Soltanto così ci è possibile realizzare che quello del tempo, della vita e del pensare non è che un unico movimento: un movimento che sul piano del pensare può però osservare e conoscere sé stesso. Ma ciò normalmente non avviene, poiché, del pensare, ci accontentiamo di avere una coscienza indiretta attraverso il pensato: attraverso cioè la rappresentazione che, come avviene per la misurazione del tempo, ne arresta e spazializza il fluire.

 

Dice Steiner:

 

“Non dipende dagli oggetti che essi ci siano dati in un primo tempo senza i corrispondenti concetti, ma dalla nostra organizzazione spirituale. La nostra entità complessiva funziona in modo che, per ogni oggetto della realtà, i relativi elementi affluiscono a lei da due parti: da quella del percepire e da quella del pensare.

Non ha nulla a che fare con la natura delle cose il modo in cui io sono organizzato per afferrarle.

La separazione tra percepire e pensare avviene soltanto nel momento in cui io, l’osservatore, mi metto di fronte alle cose. Ma quali elementi appartengano alle cose e quali no, non può dipendere dal modo in cui io pervengo alla conoscenza di questi elementi” (p.74).

 

 

Orbene, tutti sappiamo che, per il modo in cui siamo fatti, ci è impossibile vedere, simultaneamente, la parte anteriore e quella posteriore di un oggetto, ma che, dopo aver visto la prima, per vedere la seconda dobbiamo spostare noi stessi o l’oggetto. Ebbene, si tratta di una situazione analoga a quella in cui vogliamo invece conoscere un oggetto. In questo caso, è però necessario, non spostare materialmente noi stessi o l’oggetto, bensì spostarci o volgerci animicamente dal percepire (volere) al pensare.

 

Ecco comunque un altro caso in cui possiamo di nuovo ricorrere al concetto psicodinamico di “proiezione”. Se siamo organizzati dualisticamente, ma non lo sappiamo, cosa ci verrà spontaneo infatti fare? Proiettare il nostro inconscio dualismo sul mondo e attribuirglielo. Quale concezione del mondo, il dualismo nasce pertanto dal fatto che siamo abitualmente inconsapevoli del nostro modo di essere, o della nostra organizzazione spirituale.

Come la parte anteriore e posteriore di un oggetto sono tali solo in rapporto all’osservatore e non all’osservato, così dunque il percetto (l’elemento che affluisce a me dalla parte del percepire) e il concetto (l’elemento che affluisce a me dalla parte del pensare) sono tali solo in rapporto al conoscitore e non al conosciuto.

 

Incontrando l’uomo, ogni realtà del mondo si spezza in due

e si dà

• come “percetto” alla nostra organizzazione corporea    • e come “concetto” a quella spirituale.

 

Dal momento, tuttavia, che ogni realtà del mondo è in sé una, il percetto (la forza) appartiene al concetto (alla forma) tanto quanto il concetto (la forma) appartiene al percetto (alla forza). Ciò vuol dire che il concetto appartiene al mondo non meno del percetto.

Al conoscere umano è tuttavia indispensabile infrangere l’unità originaria, naturale e incosciente per reintegrarla poi, a un superiore livello, in un’unità spirituale e cosciente, coniugando il dato della percezione, acquisito mediante il corpo, con quello del pensiero, acquisito mediante lo spirito. Tali nozze, però, possono essere celebrate soltanto nell’anima umana.

 

Dice Steiner:

 

“Se la nostra esistenza fosse così collegata con le cose, che ogni divenire del mondo fosse nello stesso tempo anche nostro divenire, allora non vi sarebbe distinzione fra noi e le cose. Ma in tal caso non ci sarebbero per noi neppure cose singole. Tutto il divenire scorrerebbe continuamente da una cosa all’altra. Il cosmo sarebbe un’unità e un’interezza chiusa in sé. La corrente del divenire non avrebbe mai un’interruzione” (p.74).

 

 

Pensate alla immagine alchemica del serpente che si mangia la coda (l’Ouroboros). Divorando incessantemente sé stesso e incessantemente rigenerandosi, tale serpente rappresenta appunto quell’inconscio divenire naturale che non ammette soluzione di continuità. Lungo questo anello, infatti, tutto diviene ininterrottamente e non c’è nulla che possa sottrarsi e opporsi a tale movimento per osservarlo e conoscerlo. (“Ho visto l’Eternità l’altra notte – canta appunto Henry Vaughan – come un grande anello di luce pura e sterminata, /Calma quanto splendente”).

 

Cosa succede però? Succede che l’anello a un certo punto si spezza e che, proprio là dove si è verificata la frattura, vengono a fronteggiarsi due opposte estremità. La precedente continuità si è infatti interrotta, e si è venuto a creare, tra un’estremità e l’altra dell’anello, uno spazio grazie al quale l’Io può finalmente fronteggiare sé stesso, e quindi osservare e conoscere il proprio divenire. Prima della frattura non vi era dualità, bensì unità. Ma – si faccia attenzione – ora non ci sono soltanto le due estremità dell’anello, ma c’è anche lo spazio che le divide. Il che significa che si sono venute a creare, non due, ma tre cose. Ebbene, questa terza cosa è l’uomo (la sua coscienza di veglia); ed è proprio la creazione di questa terza cosa, in realtà, ad aver prodotto, con la frattura, le altre due.

 

In questa luce, l’uomo ci si presenta dunque come un essere che spezza (percependo) e rinsalda (pensando), a un tempo, il silente e incessante divenire della natura. Non è che questo, in definitiva, il segreto dello spazio e della morte. Perché possa intervenire la coscienza è infatti necessario che si arresti, mediante lo spazio, l’ininterrotto fluire del tempo e, mediante la morte, l’ininterrotto fluire della vita: è necessario, insomma, che, a un terzo, l’uno appaia un due. Ma quel ch’è ancor più straordinario è che

• è appunto in questo terzo, vale a dire nell’uomo,

che l’incosciente unità naturale può riprendere a vivere quale cosciente unità spirituale.

• Una cosa, infatti, è l’uno sconosciuto, altra l’uno conosciuto.

• Per passare dal primo al secondo occorre però affrontare e superare la prova del due:

ovvero, la prova della separazione, della solitudine e della morte.

 

Dice ancora Steiner:

 

“A causa della nostra limitazione ci appare come singolarità ciò che in verità non è singolarità.

Mai, per esempio, la qualità singola del rosso esiste isolatamente per sé.

Essa è da ogni parte circondata da altre qualità, alle quali appartiene, e senza le quali non potrebbe sussistere.

Ma per noi è una necessità separare certi frammenti del mondo e considerarli a sé” (p.74).

 

 

Ecco dunque l’analisi; separazione, solitudine e morte non sono infatti che “analisi”.

Potremmo perciò dire che

• mediante il corpo e il percepire analizziamo    • e mediante lo spirito e il pensare sintetizziamo;

• o che il percepire “smonta” (solve) il mondo    • e il pensare lo “rimonta” (coagula).

Volendo, potremmo anche dire che si tratta di un qualcosa di analogo a ciò che fanno i bambini

quando, proprio per vedere come sono fatti, smontano e rimontano i loro giocattoli.

 

• All’origine è dunque la sintesi (a-priori),    • poi viene l’analisi,    • e poi ancora la sintesi (a-posteriori).

• Dalla prima (dall’Io come Essere) alla seconda (all’ego) siamo portati dalla natura,

• mentre dalla seconda (dall’ego) alla terza (all’Io come Spirito) dobbiamo portarci di nostra iniziativa.

 

Dice Steiner:

 

“La mia percezione di me stesso mi chiude in determinati confini, il mio pensare non ha nulla a che fare con tali confini. In questo senso io sono un essere doppio; sono chiuso in un campo, che percepisco come quello della mia personalità, ma sono anche portatore di un’attività che determina da una sfera più alta la mia esistenza limitata.

Il nostro pensare non è individuale come la sensazione e il sentimento. È universale. Acquista un’impronta individuale nei singoli uomini soltanto perché è in rapporto con le loro sensazioni e coi loro sentimenti individuali. I singoli uomini si distinguono fra loro per mezzo di queste particolari colorazioni del pensare universale.

Un triangolo ha un unico concetto. E per il contenuto di questo concetto, è indifferente che esso venga accolto dal portatore di una coscienza umana A o dal portatore di una coscienza umana B. Ma da ciascuna delle due coscienze è accolto in modo individuale” (pp.75-76).

 

 

È questa un’altra verità che ciascuno deve conquistare da sé. Sono d’altronde feconde solo le verità che si conquistano così. Si tratta infatti di pensieri che occorre pensare e ripensare: che occorre insomma meditare, fintantochè non sprigionino dal loro seno una forza in grado di restituire all’anima vita, luce e calore. Vedete, meditare è “covare” i pensieri. Difatti, come una gallina, covando, può far venire fuori l’essere vivente del pulcino dal morto guscio dell’uovo, così noi, meditando, possiamo far venire fuori l’essere vivente del concetto dal morto guscio della rappresentazione.

 

In effetti, dovremmo avere la sincerità e l’umiltà di ammettere che non abbiamo ancora imparato a utilizzare il pensiero al fine per cui ci è dato. Anche se il paragone è senz’altro grossolano, somigliamo infatti a degli individui che, avendo ricevuto in dono una Bibbia, non solo la utilizzino per metterla sotto una delle gambe di un tavolo traballante, ma credano pure che sia stata fatta e data loro per questo. A dirla tutta,

il pensiero è una forza cosmica e divina della quale ci siamo finora serviti

solo per ordinare, classificare e comprendere ciò che cade sotto i nostri organi di senso fisici.

 

L’esercizio della meditazione presuppone, però, quello della concentrazione. Per mezzo della concentrazione miriamo infatti (in modo – per così dire – “maschile”) a conquistarci una sempre maggiore padronanza del pensare; mediante la meditazione miriamo invece (in modo – per così dire “femminile”) a offrire il pensare, del quale siamo ormai divenuti padroni, a dei particolari pensieri in grado, mentre si trattengono nella nostra anima, di nutrirla, sanarla e risvegliarla.

Vedete, meditare un pensiero è come intrattenersi con un amico caro, o come ascoltare una musica tanto bella che – come si suol dire – “non ci si stancherebbe mai di sentire”. Meditare, insomma, significa concedersi all’essere del pensiero meditato. È vero, d’altro canto, che se noi ci concediamo a un pensiero, questo, a sua volta, si concede a noi.

Al mondo, ci sono molti pensieri che non trovano anime disposte ad accoglierli e amarli. Ricordate cosa si dice del Logos nel prologo del Vangelo di Giovanni? “Era nel mondo, e il mondo fu creato per mezzo di lui, ma il mondo non lo conobbe. Venne in casa sua, e i suoi non lo ricevettero”. E il Cristo stesso, in Luca, dice: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”.

 

In tutti i modi, come ci accertiamo, in genere, della genuinità del cibo che vogliamo assumere, così sarà bene accertarsi della genuinità del pensiero che vogliamo meditare. Ricordo che Scaligero mi disse, una volta, che l’esercizio della concentrazione lo si potrebbe fare perfino con un pensiero sbagliato, in quanto il pensare che si concentra ad esempio sul due più due che fa quattro non è sostanzialmente diverso da quello che si concentra magari sul due più due che fa cinque.

In effetti, se il contenuto del pensiero non è, per la concentrazione, che un pretesto per condurre l’osservazione dal piano del pensato a quello del pensare, lo stesso, per la meditazione, è invece decisivo, ed esige perciò una certa cautela.

Ove meditassimo infatti una menzogna, ci troveremmo a esporre la nostra anima alla sua azione patogena. E se è già grave pensare una menzogna, ancor più grave sarebbe arrivare, in virtù della meditazione, a parteciparne con tutta l’anima.

Difatti, la concentrazione è fredda, “anaffettiva” o – come dice Scaligero – “apsichica”, mentre la meditazione è calda e coinvolge la sfera del sentire. In definitiva, la meditazione, più che una “tecnica”, è un’arte. Ciascuno deve infatti scegliere il pensiero giusto al momento giusto; e tale momento deve essere in sintonia, non solo con la fase del cammino spirituale che sta attraversando, ma anche con quella relativa alla sua esistenza nel tempo e nello spazio. Dobbiamo avere il coraggio di assumerci questa responsabilità. Tenete presente che chi non si muove per timore di sbagliare, sta in realtà già sbagliando.

 

Risposta a una domanda

Quando parliamo di “cose”, parliamo di ciò che percepiamo per mezzo dei nostri organi di senso fisici. Orbene, la difficoltà che c’impedisce di realizzare che le realtà percepite sono idee è esattamente la stessa che c’impedisce di realizzare che le idee pensate sono realtà. Ove ci riesca di portarci al di là dell’abituale coscienza astratta, ci accorgiamo però che le idee sono entità spirituali viventi e animate.

Il nostro vero problema, in definitiva, è che le idee, ormai, ce le sappiamo solo rappresentare (astrattamente). Mi verrebbe voglia di dire – se me lo consentite – che abbiamo del tutto perso la capacità di apprezzarne il profumo, il gusto, il colore, il suono o, meglio ancora, il carattere e la sostanza morale.

Recita un vecchio adagio: “Dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei”. Ebbene, potremmo parafrasarlo dicendo: “Dimmi con che idee vai, e ti dirò chi sei”. Come stiamo attenti a sceglierci gli amici, così dovremmo stare attenti a sceglierci le idee. Si sa, infatti, che le “cattive amicizie” possono rovinare, ma non sempre si considera che le “cattive idee” possono fare altrettanto, se non peggio.