15° Incontro

Amor, che ne la mente mi ragiona.


 

Continua il quinto capitolo

 

Questa sera, per riallacciare il filo delle nostre ultime considerazioni, vorrei subito leggere quel che dice Steiner:

 

“Presso gli esseri pensanti, di fronte alla cosa esterna sorge il concetto.

Esso è ciò che della cosa riceviamo non dal di fuori, ma dal di dentro.

La compensazione, la riunione dei due elementi, interno ed esterno, deve fornire la conoscenza.

La percezione dunque non è nulla di compiuto, di finito in sé, ma è uno dei lati della realtà totale.

L’altro è il concetto. L’atto conoscitivo è la sintesi di percezione e concetto.

Ma soltanto percezione e concetto di una cosa formano la cosa completa” (pp.76-77).

 

 

Orbene, se “soltanto percezione e concetto di una cosa formano la cosa completa”, possiamo allora osservare, al fine di mettere ancora una volta in risalto la peculiarità dell’approccio scientifico-spirituale, che, di siffatta “cosa completa”, l’approccio filosofico privilegia unilateralmente il concetto (smarrendo i fatti), mentre quello scientifico-naturale privilegia unilateralmente la percezione (smarrendosi tra i fatti).

 

Gentile, ad esempio, in un saggio intitolato: Cattolicismo e storia nei libri del Semeria, a commento di un’obiezione rivolta da Semeria all’apologetica tradizionalista, scrive: “Questa risposta può bastare all’apologista, ma non serve al razionalista; perché si fonda su un principio di fede, non di ragione; e non ha per ciò verun valore scientifico”. Come vedete, egli oppone il “principio di ragione” a quello di “fede”, assegnando al primo un valore “scientifico”. Così facendo, mostra tuttavia d’ignorare che

• l’epoca (teosofica) in cui la verità era anzitutto una “verità di fede”, poiché riposta in Dio (o nella Sua rivelazione),

• ha lasciato, sì, il posto a un’epoca (filosofica) in cui la verità era anzitutto una “verità di ragione”,

poiché riposta nell’uomo,

• ma che quest’ultima, a partire dal 1413 d.C., ha lasciato a sua volta il posto a un’epoca (scientifica)

in cui la verità è anzitutto una “verità di esperienza” o di “percezione”, in quanto riposta nelle cose o nel mondo.

 

È vero che, con lodevole tenacia, Fichte scrive, nel 1794, la prima Dottrina della scienza, nel 1810 la seconda, e che Hegel, nel 1817, scrive la Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, ma non meno è vero che Francesco Bacone, ne La grande instaurazione del 1620, aveva già così raccomandato: “L’essenziale è di non allontanare mai l’occhio della mente dalle cose stesse, onde raccoglierne le immagini così come sono; non permetta mai Iddio che noi proponiamo i sogni della nostra fantasia invece della copia fedele del mondo”.

 

Cos’è dunque “essenziale” per Bacone? È chiaramente detto:

1) l’osservare o il percepire (il “non allontanare mai l’occhio della mente dalle cose stesse”);

2) le immagini percettive (le “immagini” delle cose “così come sono”);

3) le rappresentazioni (le “copie fedeli del mondo”).

 

• Ciò conferma che, per l’anima cosciente (almeno nel corso della sua prima fase di sviluppo),

il criterio della verità non è più in Dio o nell’uomo, bensì nelle cose o nel mondo:

non più nel pensare, cioè, ma nel percepire (sensibile).

• A un dato del pensiero definito “ideale”, si viene infatti a contrapporre un dato della percezione definito “reale”.

 

Orbene, una scienza dello spirito che voglia essere davvero tale non deve rinnegare questo presupposto dell’anima cosciente, bensì farlo proprio ed estenderlo dal campo della realtà sensibile a quello della realtà extrasensibile. È col criterio dell’esperienza o della percezione che un ricercatore dello spirito deve perciò affrontare gli “oggetti” interiori: vale a dire, i pensieri, i sentimenti e gli impulsi della volontà.

 

Occorre però realizzare che il dato percettivo

• per un verso lo si percepisce perché è “reale”,  •  ma per l’altro è “reale” perché lo si percepisce:

che il suo carattere di realtà, ossia, dipende

• tanto dalla natura dell’oggetto    • quanto da quella dell’attività mediante la quale il soggetto lo afferra.

 

Non si deve dimenticare, infatti, che l’atto percettivo è un atto volitivo

e che in esso è presente, seppure in modo incosciente, la viva forza dell’Io.

 

• L’uomo sente quindi “reale” il mondo percepito

in quanto sente “reale” quella parte del proprio Io che vive nel volere e di cui non ha coscienza,

• mentre sente “ideale” il mondo pensato poiché sente “ideale” quella parte del proprio Io che vive nel pensare

e della quale, per ora, ha solo una coscienza riflessa (rappresentativa).

Insomma,  • nel percepire l’Io è, ma non sa di sé,    • mentre nel pensare sa di sé, ma non è.

 

Negli oggetti, nelle cose e negli altri, l’uomo non fa dunque che ricercare sé stesso:

non fa cioè che ricercare l’essere di quell’Io incosciente e volitivo che può riunirlo al mondo,

dopo che il non-essere dell’ego cosciente e pensante lo ha separato dallo stesso.

 

Ciò non significa – sia chiaro – che si debba rinunciare al secondo a favore del primo (come fanno tutti coloro che tentano, in un modo o nell’altro, di mortificare, ottundere o spegnere l’intelletto), ma che si deve ricondurre l’essere volitivo dell’Io all’interno di quello pensante così che quest’ultimo possa finalmente accedere a una coscienza viva e reale di sé stesso e del mondo.

 

• Nel corso della prima fase di sviluppo dell’anima cosciente, che cosa è dunque diventato il pensare umano?

“È diventato propriamente il servitore, – dice Steiner, in L’antroposofia e la scienza della natura

un semplice mezzo per la ricerca     (…) Il pensiero è diventato un mezzo formale di aiuto per afferrare la realtà.

• Entro la scienza esso non è più qualcosa che si automanifesta”.

• Ciò che ormai si “automanifesta” è infatti l’oggetto,

del quale il pensiero, secondo la scienza attuale, non può essere appunto che “servitore”.

 

Già, ma che cos’è l’oggetto? Vedete, gli scienziati prima osservano e studiano i fenomeni, poi formulano delle ipotesi e, in ultimo, non riconoscendo, a differenza dei filosofi, “verun valore scientifico” alla sola ragione, procedono alla loro verifica sperimentale (reale o percettiva). Giudicano infatti probativo, non ciò che viene dato loro dal pensare (l’ipotesi), bensì ciò che, in virtù dell’esperimento, viene dato loro dai sensi (la verifica): ossia, ciò che vedono con gli occhi, odono con le orecchie o toccano con le mani. Peccato, tuttavia, che nessuno di loro sia in grado di dirci, a tutt’oggi, cosa davvero sia, in sé, ciò che si vede con gli occhi, si ode con le orecchie o si tocca con le mani.

 

L’orizzonte della nostra odierna coscienza di veglia è di fatto limitato da un lato dalle immagini percettive e dall’altro dalle rappresentazioni. Solo chi riesca a osservare e quanto si trova al di là delle prime e quanto si trova al di qua delle seconde, potrà quindi scoprire che i percetti che si trovano all’origine delle immagini percettive e i concetti che si trovano all’origine delle rappresentazioni sono una stessa cosa, e che non si tratta dunque – come sostiene Kant – di due realtà eterogenee (coloro che conoscono in modo più profondo la scienza dello spirito rammenteranno che, al di là delle immagini percettive, si trovano – le entità della prima e della seconda Gerarchia (mediate, nelle loro attività creatrici, dagli Spiriti dei “cicli”, dagli Spiriti delle “specie” e da quelli degli “elementi”), mentre, al di qua delle rappresentazioni, si trovano le entità della terza Gerarchia – ossia, gli Angeli, gli Arcangeli, e le Archài). La nostra attuale coscienza di veglia non sa dunque di vedere, udire o toccare delle entità spirituali che, prima di darsi come concetti al pensare, si danno come percetti al volere.

 

“Negli organi dei sensi – scrive appunto Scaligero, in Iside-Sophia – lo spirito dell’uomo, grazie a una loro mirabile struttura psico-fisica, incontra ogni volta nel sensibile lo Spirito del mondo”.

 

Vorrei di nuovo ricordare, perciò, che la scienza dello spirito non ci chiede di abbandonare il criterio della verifica sperimentale, bensì di applicarlo oltre il limite della sfera sensibile. Potremmo dire, insomma, che

• si fa scienza della natura quando si pensa (come ideale) quanto si percepisce (come reale),

• mentre si fa scienza dello spirito quando si percepisce (come reale) quanto si pensa (come ideale).

Solo così, del resto, l’anima cosciente può passare dalla fase di sviluppo “scientifico-naturale” a quella “scientifico-spirituale” o “antroposofica” (succedendo così degnamente sia a quella teosofica sia a quella filosofica).

 

Ma torniamo all’affermazione di Steiner secondo la quale “l’atto conoscitivo è la sintesi di percezione e concetto”.

In quanto sintesi, l’atto conoscitivo deve essere però preceduto dall’analisi.

 

Immaginate, ad esempio, una sentinella che, dagli spalti di un fortino, scruti davanti a sé il deserto (un po’ come avviene ne Il deserto dei tartari di Buzzati). Il suo sguardo si perde all’infinito quando, d’improvviso, appare all’orizzonte qualcosa. Ebbene, l’incrociarsi dello sguardo della sentinella con ciò ch’è apparso all’orizzonte equivale di fatto a un invisibile scontro di forze. La presenza dell’oggetto, infatti, subito limita o arresta lo sguardo del soggetto. Il che vuol dire che la forza dell’essenza del primo limita o arresta quella dell’essere del secondo.

Ricordate Leopardi? “Sempre caro mi fu quest’ermo colle, / e questa siepe, che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude…”. Proprio là dove viene sperimentato un tale limite, avviene dunque quell’urto (tra la volontà del soggetto e quella dell’oggetto) dal quale il primo ricava l’immediata e sicura sensazione che là, dove il suo sguardo si è appunto arrestato, qualcosa è: dal quale il primo ricava, cioè, la sensazione dell’essere. In tal modo, tuttavia, egli sente e sa che qualcosa è, ma non può ancora determinare qual è la cosa che è. È solo in seconda istanza, infatti, che quanto ha sperimentato, in prima, come forza indeterminata, potrà essere appreso come forma, qualità o determinazione.

 

Ecco come, attraverso l’uomo, fa dunque irruzione, nella quieta sintesi della natura, l’analisi.

L’uomo – come abbiamo detto e ripetuto – è però chiamato a ricreare in sé stesso tale sintesi

coniugando, nell’atto conoscitivo, l’atto percettivo con quello pensante.

• Il percetto non è infatti che il concetto sconosciuto,    • mentre il concetto non è che il percetto conosciuto.

Quando questi due elementi si riuniscono nell’anima, nasce la rappresentazione;

in virtù della memoria l’esperienza acquisisce poi durata.

 

Dice Steiner:

 

“profondamente radicata nella coscienza dell’uomo ingenuo

è l’idea che il pensare sia astratto, senza alcun contenuto concreto,

e che possa tutt’al più fornire una controimmagine “ideale” dell’unità universale, ma non questa stessa.

Chi giudica così non ha mai compreso chiaramente che cosa sia la percezione senza il concetto” (pp.78-79).

 

 

Sospendo qui la lettura perché vorrei premettere, a quanto seguirà, qualche breve considerazione. Vedete, se noi scriviamo 2 + 2 = 4, fra il primo e il secondo 2 poniamo il segno “più” (+) e tra il secondo 2 e il 4 quello “uguale” (=). Ma cosa indicano questi segni? Senza dubbio qualcosa di diverso da ciò che indicano i numeri. Ebbene, supposto che i numeri indichino delle cose concrete (magari delle mele), cosa indicherebbero allora i segni che stanno fra loro? È presto detto: indicherebbero le relazioni intercorrenti tra tali cose concrete. Dire infatti “A + B”, “AB”, “A x B” e “A : B” significa dire che due stessi elementi (A e B) stanno in rapporto tra loro in quattro modi diversi (nei modi cioè della somma, della sottrazione, della moltiplicazione e della divisione).

I segni indicano dunque delle relazioni. Ma le relazioni – chiediamoci – sono o non sono? E se sono, cosa sono?

Qual è – vale a dire – la loro sostanza o la loro natura? Sono reali o irreali?

E se sono reali, in qual modo può essere conosciuta e sperimentata la loro realtà?

 

Eccoci così tornati, formulando questi interrogativi, all’esercizio della concentrazione. Sostiene Scaligero che tale esercizio altro non rappresenta che il metodo sperimentale della scienza applicato al pensiero. Chiunque ne abbia una certa pratica sa che, in una prima fase, la nostra attenzione è soprattutto catturata dai suoi contenuti. Se ho deciso, ad esempio, di concentrarmi sul bottone, sarò infatti attento a passare in rassegna i diversi tipi di bottone, i diversi modi in cui vengono lavorati e realizzati, le diverse funzioni che sono chiamati ad assolvere, e così via. Ciò vuol dire che, in una prima fase, mi vedrò soprattutto impegnato a far sì che le rappresentazioni che si succedono siano il più possibile oggettive e conseguenti. È solo in una seconda fase, infatti, che ci si può distrarre dal contenuto delle singole rappresentazioni per tentare di concentrarsi su quell’invisibile “filo” che le collega e che consente loro di succedersi in modo ordinato e coerente.

Orbene, è appunto rendendo visibile tale “filo” che si rende visibile la relazione (eterica) che collega tra loro le rappresentazioni: che si rende cioè visibile, e quindi percepibile, quella realtà fluente o dinamica del pensare (quale verbo) che tesse incessantemente i rapporti tra i pensati (quali sostantivi). In tale realtà, si ha il movimento del volere nel pensare o il movimento stesso dell’Io.

In virtù di questo esercizio, possiamo dunque scoprire, non solo che la relazione è, ma anche che è prima e più delle cose. Queste infatti, in quanto pensati, non sono che dei coaguli o dei precipitati dell’ininterrotto fluire del pensare; li potremmo paragonare a dei ghiaccioli che si distinguono, sì, dall’acqua, ma che sono pur sempre fatti di acqua e in essa galleggianti.

 

Poco fa, abbiamo sentito dire – da Steiner – che chiunque creda che il pensare sia astratto e non abbia perciò “alcun contenuto ideale concreto”, “non ha mai compreso chiaramente che cosa sia la percezione senza il concetto”.

Ebbene, proviamo allora a immaginarle queste percezioni prive di pensiero. A cosa somiglierebbero? Somiglierebbero alle tessere di un mosaico sparse alla rinfusa, oppure ai numeri della tombola quando, prima di essere estratti uno a uno per essere disposti in bell’ordine sul cartellone, se ne stanno ammucchiati tutti insieme nella calza.

Cos’è quindi “la percezione senza il concetto”? Un vero e proprio caos in cui non si distingue il sopra dal sotto, la sinistra dalla destra, il davanti dal dietro: in cui, insomma, non vi è nulla di qualificato o determinato che possa, in quanto tale, essere messo in rapporto con il resto.

 

Dice appunto Steiner:

 

“Guardiamo dunque un momento questo mondo della percezione:

ci appare come un aggregato di singole cose senza nesso,

semplicemente una accanto all’altra nello spazio, e una dopo l’altra nel tempo.

Nessuna, delle cose che entrano od escono dalla scena della percezione, ha alcunché da fare con l’altra,

il mondo è una molteplicità di oggetti equivalenti.

Nessuno ha una parte più importante dell’altro nel congegno del mondo” (p.79).

 

 

Come vedete, Steiner afferma che il mondo, senza il pensiero, ci apparirebbe come un “aggregato di singole cose senza nesso”. Tenendo conto del modo in cui si formano la rappresentazione e l’immagine percettiva, potremmo però aggiungere che anche le “singole cose”, senza il pensiero, ci apparirebbero come un mero “aggregato” di singoli dati (stimoli) “senza nesso”. Ogni singolo oggetto – come abbiamo già provato a dimostrare – non è infatti, dal punto di vista puramente percettivo, che un “aggregato” di stimoli, impulsi o eventi cerebrali irrelati.

Ciò vuol dire dunque che al mondo, senza il pensiero, non solo non si darebbe il nesso tra le singole cose, ma non si darebbero nemmeno le singole cose.

 

Ma torniamo a osservare il fenomeno dal punto di vista adottato da Steiner. Abbiamo già visto che ogni nesso non è un nesso tra “cose”, ma tra “concetti”, e che non potrebbe darsi perciò un nesso tra le cose (si ricordi l’esempio del fruscìo dell’erba e della pernice) se queste non venissero prima risolte in concetti.

 

 

“Senza il pensiero funzionante – dice infatti Steiner – l’organo rudimentale del corpo di un animale, che è senza importanza per la sua vita, ci appare dello stesso valore dell’organo che ha la più grande importanza.

I singoli fatti acquistano la loro importanza per sé e per le altre parti del mondo, solo quando il pensare tira le sue fila da essere ad essere. Questa attività del pensare è un’attività piena di contenuto

(…) Questo contenuto, il pensare lo porta incontro alla percezione, attingendolo al mondo dei concetti e delle idee. In contrapposizione al contenuto della percezione che ci è dato dall’esterno, il contenuto del pensare appare nell’interno. La forma in cui appare a tutta prima, vogliamo chiamarla intuizione.

È, rispetto al pensiero, ciò che l’osservazione è per la percezione. Intuizione ed osservazione sono le fonti della nostra conoscenza” (p.79).

 

 

Incontro al “contenuto della percezione”, vale a dire al percetto, l’Io porta dunque il “contenuto del pensare”, vale a dire il concetto; ed è nell’anima umana che avviene la loro riunione o il loro coniugio. Osservando le cose in questo modo, gli opposti limiti del materialismo e dell’idealismo divengono ancora più chiari. Il primo si presenta infatti come una filosofia degli oggetti o delle cose, mentre il secondo come una filosofia dei concetti o delle idee. Ebbene, in rapporto alla realtà dell’uomo, il primo si dimostra troppo “basso” e il secondo troppo “alto” (diceva Protagora: “Di tutte le cose è misura l’uomo”). Tra l’“alto” e il “basso”, laddove vive l’anima umana, rimane così un “vuoto”: ed è proprio per sfuggire all’horror vacui che l’uomo finisce col perdersi arimanicamente nel materialismo (negli oggetti o nelle cose) o lucifericamente nell’idealismo (nei concetti o nelle idee).

Penso sia bene sottolinearlo perché è facile distinguere la posizione di Steiner da quella del materialismo, ma non altrettanto (almeno per mia esperienza) da quella dell’idealismo. A tal fine, è importante soprattutto osservare che Steiner non prende le mosse, come Hegel, dall’idea, bensì dal pensare come “movimento” o come “atto”; nè si sforza, come Gentile, di ricavare da tale “atto”, una “teoria generale dello spirito”, bensì lo afferra, lo domina, ne risale il movimento, per così accedere a nuovi e superiori livelli di coscienza.

 

Il suo insegnamento, inoltre, muove, sì, come quello della psicologia (soprattutto junghiana), dall’anima umana, ma non vi rimane intrappolato (come capita al soggettivismo o al relativismo) in quanto la trascende: in quanto, cioè, le spalanca l’orizzonte dello spirito, la emancipa dalla tirannia del corpo e la risana, restituendole il suo originario rango di mediatrice (ricordate Dante? “I’ son Beatrice, che ti faccio andare: / Vengo di loco, ove tornar desìo. / Amor mi mosse, che mi fa parlare.”).

 

Abbiamo detto, poc’anzi, che la nostra attuale coscienza di veglia, essendo limitata da un lato dall’immagine percettiva e dall’altro dalla rappresentazione, ignora tanto ciò che si trova al di là della prima quanto ciò che si trova al di qua della seconda. Ebbene, mentre il materialismo e l’idealismo, nei confronti di ciò che si situa appunto al di là dell’immagine percettiva e al di qua della rappresentazione, ci chiedono in fondo un atto di fede, che cosa ci propone invece Steiner? Ci propone, partendo proprio dal centro di questo angusto spazio, di osservare e comprendere il modo in cui tanto la prima che la seconda scaturiscono da quella viva attività del pensare che passa normalmente “inosservata”.

 

“Quello che soprattutto manca all’uomo – scrive Scaligero – è il respiro dell’anima indipendente dall’esistenza animale,

il senso verace del sentire”.

In effetti, per l’anima che soffre, costretta com’è nel ristretto spazio della coscienza intellettuale, scoprire il movimento del pensare equivale a scoprire un orizzonte in cui poter finalmente espandere il proprio respiro e riprendere così vita e calore. Il moto (afferente) con cui si risale dall’individuale (dal percetto) all’universale (al concetto) non è infatti che un’inalazione spirituale, mentre quello (efferente) con cui si discende dall’universale (dal concetto) all’individuale (al percetto) non è che un’esalazione spirituale. L’anima umana, seppure inconsciamente, vive dunque al centro di questo ritmo o di questa pulsazione che collega il mondo fisico a quello spirituale.

 

Nell’ultimo passo che abbiamo letto, Steiner dice: “In contrapposizione al contenuto della percezione che ci è dato dall’esterno, il contenuto del pensare appare nell’interno”.

Orbene, perché del primo dice che ci è “dato” (dall’esterno), mentre del secondo dice che ci “appare” (nell’interno)? Perché il secondo – come abbiamo visto – ci è “dato” dallo spirito, ma “appare” nell’anima. Potremmo però chiederci: “Se il primo ci è dato dall’esterno e il secondo appare nell’interno, dove si trova allora lo spirito, all’esterno o all’interno?”.

Potrà sembrare strano, ma a un interrogativo del genere non si può che rispondere così: lo spirito non si trova né all’esterno (dov’è il corpo), né all’interno (dov’è l’anima), bensì all’esterno dell’interno. Come c’è infatti da attraversare una prima soglia per passare dal mondo del corpo a quello dell’anima, così c’è da attraversarne poi una seconda per passare dal mondo dell’anima a quello dello spirito. Chi attraversa quest’ultima esce dunque dal mondo interno; non però per tornare in quello del corpo, bensì per entrare in quello dello spirito: ovvero, in quel mondo che costituisce appunto l’esterno dell’interno.

Ma qui viene il bello. Cos’è infatti lo spirito quale “esterno dell’interno”? Nient’altro che l’interno dell’esterno: nient’altro, ossia, che l’essenza o il fondamento tanto del corpo che del mondo. In un sana evoluzione interiore si deve dunque partire dal mondo sensibile e arrivare, attraversando quello animico, al mondo spirituale, così da poter ritornare poi a quello sensibile, avendone ormai disvelato e afferrato il segreto o la chiave.

 

 

“Spiegare una cosa, – dice Steiner – render comprensibile una cosa,

non significa dire altro se non ricollocarla in quel complesso

da cui, per la disposizione sopra descritta della nostra organizzazione, essa era stata strappata” (p.80).

 

 

Ho fatto prima l’esempio delle tessere di un mosaico e dei numeri della tombola. Potrei comunque riprendere anche quello del puzzle che abbiamo già utilizzato quando ci siamo trovati a parlare degli atomisti. Abbiamo dunque davanti a noi i molti pezzi del puzzle; ne preleviamo uno e ci domandiamo: dove lo devo mettere? Qual è il suo posto nella figura?

 

 

“L’enigmaticità di un oggetto – dice per l’appunto Steiner – risiede nel suo stato di separazione” (p.80).

 

 

In effetti, il singolo pezzo in tanto è “enigmatico”

in quanto è stato appunto “strappato” da “un complesso” che solo lo “spiegava” o “rendeva comprensibile”.

 

Come si crea infatti un puzzle? Si prende una qualsiasi figura e la si riduce in un determinato numero di pezzi; questi vengono ammucchiati poi in una busta, in attesa che qualcuno si diverta a ricostruire pazientemente la figura originaria. Colui che prepara il gioco va dunque dall’uno al molteplice, mentre colui che lo risolve va dal molteplice all’uno. In tanto può però andare dal molteplice all’uno, in quanto ciascun pezzo si “rende comprensibile” solo in rapporto agli altri, così come tutti si “rendono comprensibili” solo in rapporto all’insieme. Stando così le cose, potremmo dunque dire, tornando a noi, che è il percepire a preparare il “gioco” del conoscere trasformando l’uno nel molteplice, e che è il pensare a risolverlo trasformando il molteplice nell’uno.

 

Dice appunto Steiner:

 

“Ciò che nell’osservazione ci si presenta sotto forma di cose singole, si riconnette però, membro a membro, per mezzo del mondo coordinato e unitario delle nostre intuizioni; e per mezzo del pensare noi ricomponiamo in uno quello che avevamo separato attraverso la percezione” (p.80).

 

 

Cos’è dunque la percezione?

 

“La domanda, – risponde Steiner – posta così in generale, è assurda.

La percezione sorge sempre perfettamente determinata, come un contenuto concreto.

Questo contenuto è dato direttamente e si esaurisce nel dato.

Riguardo a tale dato si può soltanto domandare che cosa esso sia al di fuori della percezione, cioè per il pensare.

La domanda “che cosa è la percezione?”

può quindi riferirsi solamente all’intuizione concettuale che le corrisponde” (p.82).

 

 

Sarebbe invero arduo comprendere questo passo se non avessimo già imparato a distinguere, nel fenomeno generale della percezione, i tre diversi momenti dell’atto percettivo, del percetto e dell’immagine percettiva. Se può essere infatti “assurdo” domandare cosa sia “in generale” tale fenomeno, non è invece assurdo domandare cosa siano i tre momenti in cui si articola.

 

Orbene, l’atto percettivo, in quanto atto, è del tutto indeterminato.

Il dire – come fa Steiner – che “la percezione sorge sempre perfettamente determinata, come un contenuto concreto” non può riferirsi perciò all’atto, ma solo al percetto o all’immagine percettiva. Poiché egli specifica, tuttavia, che tale contenuto è dato “direttamente”, dobbiamo scartare l’immagine percettiva (ch’è data indirettamente) e conservare il percetto. È questo infatti quel dato che, in alcuni dei nostri esempi, abbiamo chiamato X in quanto è appunto nel pensare, e quindi “al di fuori della percezione”, che abbiamo “l’intuizione concettuale” che gli corrisponde e che ci permette di sapere “che cosa esso sia”.

 

 

“Da questo punto di vista, – prosegue comunque Steiner –

la questione della soggettività della percezione, nel senso dell’idealismo critico, non può affatto venir posta.

Soggettivo si può chiamare soltanto quel che viene percepito come appartenente al soggetto.

Il formare un nesso fra il soggettivo e l’oggettivo non può spettare a nessun processo

che sia reale in senso primitivo, cioè a nessun percepibile divenire, ma solo al pensare.

Per noi è dunque oggettivo ciò che per la percezione appare posto al di fuori del soggetto della percezione” (p.82).

 

 

Il percetto è dunque oggettivo poiché, “per la percezione”, appare “posto al di fuori del soggetto della percezione” stessa, mentre l’atto percettivo e l’immagine percettiva sono soggettivi poiché li si percepisce “come appartenenti al soggetto”.

Abbiamo già visto, del resto, che il percetto è mondo così come il concetto è mondo, e che per questo rimangono entrambi fuori dalla portata di quella coscienza ordinaria che abbraccia l’immagine percettiva e la rappresentazione: che abbraccia, cioè, tutto quello che appartiene al soggetto e non al mondo.

L’immagine percettiva che ho io dell’oggetto A è infatti diversa da quella che ne ha il mio vicino, non foss’altro per il fatto che io l’osservo da qui mentre lui l’osserva da lì. Diversa pure è la sensazione perché diverso è il modo in cui entrambi reagiamo alla sua presenza; e ancora diversa è la rappresentazione poiché, in quanto sintesi di percezione e concetto, conserverà traccia della diversa prospettiva in cui è stato osservato l’oggetto e della diversa qualità dell’organizzazione sensoriale mia e del mio vicino.

 

Un ottimo esempio del modo in cui da un solo concetto si possono ricavare diverse rappresentazioni ci è offerto da quelle cosiddette “proiezioni ortogonali” di cui quasi tutti ci siamo occupati ai tempi della scuola. Ricordate? Da uno stesso cilindro, ad esempio, (ossia, da uno stesso “solido” od oggetto “tridimensionale”) si ricavavano in genere tre diverse proiezioni (cioè a dire, tre diverse figure “piane” o “bidimensionali”): una sul piano orizzontale (la pianta); una sul piano verticale (il prospetto); una sul piano laterale (il profilo). Siffatte proiezioni rappresentavano quindi lo stesso oggetto osservato da tre punti di vista diversi. Orbene, ove ponessimo al posto del cilindro un concetto (quale realtà o entità spirituale) e, al posto dei tre piani di proiezione, i diversi cervelli di tre persone, in ciascuno di questi avremmo allora una diversa e piatta immagine: ovvero, una diversa e piatta rappresentazione di quell’unico e “solido” concetto.

 

Dice inoltre Steiner che “il formare un nesso fra il soggettivo e l’oggettivo non può spettare a nessun processo che sia reale in senso primitivo, cioè a nessun percepibile divenire, ma solo al pensare”.

 

Ciò significa che

• se abbiamo, da una parte, il percetto e il concetto oggettivi,

• l’immagine percettiva e la rappresentazione soggettive,

• al centro abbiamo però quel pensare che, in modo trans-oggettivo o trans-soggettivo,

si fa garante, giudicando, del “nesso” tra i primi e le seconde.

 

Come abbiamo visto, è infatti grazie al pensare che l’Io, prima integra il percetto col concetto,

e poi apprende l’entelechia così ricostituita quale rappresentazione e quale immagine percettiva.

Abbiamo anche detto, comunque, che se l’uomo non potesse errare nel giudizio,

avrebbe allora e la scienza e la verità in modo istintivo, e non perciò liberamente.

 

La libertà che ci consente di sbagliare è tuttavia la stessa che ci consente di riconoscere gli sbagli e di superarli.

La libertà che ci porta all’errore non è dunque che il necessario presupposto della libertà che può guidarci alla verità.

Ciò che non s’impone più per istinto o per natura, possiamo farlo infatti per amore:

per amore degli altri, del mondo, e quindi del nostro stesso e vero essere.