La direzione spirituale nella storia dell’Antico Testamento / Buddha, Elia, Gesù

L’aurora della rivelazione


 

Nel ciclo di conferenze L’impulso del Cristo e l’evoluzione della coscienza dell’Io

tenuto a Berlino tra il 1909 e il 1910,1 Rudolf Steiner disse, che nel corso dell’evoluzione

le guide divino-spirituali dell’umanità furono messe di fronte al fatto,

che nell’uomo esisteva qualcosa a loro sconosciuto: la coscienza morale.

Per conoscerla esse dovettero discendere sulla terra e incarnarsi.

Dal mondo spirituale, infatti, la coscienza morale umana non si dava loro a conoscere.

 

Da ciò potremmo arguire, che nelle entità del mondo spirituale non vi sia coscienza morale, che questa possa essere sviluppata solo sulla terra, dall’umanità terrestre.

Questa veduta è giustificata solo nel caso che si intenda espressamente la coscienza morale umana; non lo è, invece, se si giunge a negare la prerogativa della coscienza morale nelle entità delle Gerarchie.

In realtà tutte le entità del mondo possiedono una coscienza morale, ossia la forza della fantasia morale,

nel senso in cui questo termine è usato da Rudolf Steiner ne La filosofia della libertà.

 

Ogni essere reca in sé il segreto della propria individualità:

la coscienza morale, quale interiore sorgente creatrice,

è infatti ciò che fa di tutti gli esseri – anche delle entità delle Gerarchie – individualità originali.

 

Un’individualità esiste solo in quanto può aggiungere alla vita cosmica che la circonda,

qualcosa che può sorgere grazie al suo concorso.

 

Le Gerarchie del bene non sono automi,

benché per loro non vi sia la questione della scelta tra il bene e il male.

Esse servono il bene, cercando di compiere, movendo dalla propria coscienza morale,

atti di sacrificio sempre nuovi e più perfetti.

 

La fantasia morale del bene è illimitata.

Le entità che servono il bene si distinguono per le azioni sacrificali che scelgono di compiere.

Rinunciano liberamente ai diritti che possiedono nel cosmo,

per compiere a un livello superiore, mediante il sacrificio, qualcosa di più grande,

rispetto a ciò di cui sarebbero capaci restando nell’ambito dei propri diritti.

 

Qualcosa di simile vale anche per un certo gruppo di anime umane, che nello stato disincarnato del devachan prendono decisioni riguardo alla vita terrena che le attende. Ad esempio, un’anima può avere il diritto karmico ad una vita armoniosa e solare, circondata dagli amici, in un ambiente sociale congeniale alla propria natura. Tale è il diritto di quest’anima. Può però accadere che essa, esaminando la vita che l’attende alla luce della coscienza morale, rinunci liberamente al destino offertole dal karma. La coscienza di quest’anima può dirsi: “Hai davanti a te la possibilità di una vita armoniosa sulla terra. Non dovrai impiegare le tue forze nella lotta e nel dolore. Ma nel frattempo l’umanità affronterà prove, cui tu non sarai partecipe con la tua azione. Il tuo aiuto nella lotta per la verità è necessario all’umanità, più della tua felicità”. Una tale anima può dunque scegliere una missione, che comporti una vita molto differente da quella cui aveva diritto. La conseguenza può essere che essa venga posta dal destino a sostenere una lotta, destinata magari all’insuccesso per tutto il corso della vita.

 

In questo caso non si tratta di una questione di scelta tra il bene e il male, ma tra il bene e il meglio.

Nella facoltà di scegliere tra il bene e il meglio

si esplica la coscienza morale delle entità spirituali non incarnate.

 

Non è dunque la realtà della coscienza morale in quanto tale, a costituire un enigma per le entità spirituali,

ma la coscienza morale umana, posta tra il bene e il male.

Una simile posizione tra il bene e il male, è possibile solo in una compagine umana,

la quale non sta solo di fronte al male, ma lo ha accolto in sé.

 

Gli uomini sperimentano interiormente il bene e il male, poiché lo hanno accolto nel proprio essere.

Le entità spirituali non possono accogliere in sé il male, possono stare di fronte ad esso,

lo possono riconoscere nei suoi effetti, ma non lo possono sperimentare interiormente.

Se un essere spirituale dovesse accogliere in sé il male, diverrebbe con ciò un essere malvagio.

Gli esseri spirituali sono un tutto indiviso; solo l’uomo può congiungere in sé due nature.

 

È questa una conseguenza del peccato originale, il quale determinò un fatto nuovo nel cosmo:

l’esistenza di esseri che possano sperimentare interiormente sia il male, che il bene.

L’umanità è realmente peccatrice, poiché ha accolto in sé il male.

In seguito a ciò le è data una possibilità che gli altri esseri non hanno:

la possibilità dell’intuizione del male, accanto all’intuizione del bene.2

 

Questo fatto comporta un enorme rischio cosmico, poiché può accadere che l’umanità si affezioni al male [das Bòse ìiebgewinnen]. Affinché ciò non avvenga, ossia affinché l’equilibrio tra il bene e il male nell’organizzazione umana non sia rotto a favore del male, fu accordato all’umanità, fin dai primordi, un aiuto dal mondo spirituale.

Esso consistette principalmente in un apporto di forze nuove provenienti dall’alto, destinate a rafforzare la capacità del bene nell’umanità. A tal fine, entità delle Gerarchie superiori, rinunciando ai propri diritti, discesero, per legarsi direttamente all’umanità.

Tra queste entità, ve ne sono tre, cui l’umanità deve moltissimo,

e che nella storia occulta sono designate con i nomi di Buddha, Elia e Gesù.

 

L’entità di Gesù, che era in parte incarnata nel Gesù natanico,

ha esercitato un influsso armonizzante sulla natura umana a partire dall’epoca lemurica.

Si tratta di un Arcangelo disceso al grado di Angelo,

per poter essere direttamente in rapporto con l’umanità.

 

Rudolf Steiner descrive l’effetto della triplice compenetrazione dell’entità di Gesù da parte del Cristo

– nell’epoca lemurica, nel primo terzo dell’epoca atlantica e nell’ultimo terzo della stessa –

come un’armonizzazione dei sensi (nell’epoca lemurica), dei processi vitali (all’inizio dell’epoca atlantica)

e delle forze dell’anima (alla fine dell’epoca atlantica).3

 

I dodici sensi furono armonizzati dall’entità di Gesù, in modo che si tenessero reciprocamente in equilibrio interiore, il che non avviene, ad esempio, negli animali.

I sette processi vitali furono del pari equilibrati, in modo che la vita dell’anima potesse sperimentare se stessa, senza essere assorbita interamente da uno di essi. Ne conseguì la facoltà di espressione vocalica dell’anima mediante il linguaggio.

Infine le tre forze dell’anima, proprie del corpo astrale – pensare, sentire, volere – furono armonizzate, in modo che potesse sorgere l’esperienza dell’Io.

 

L’Io non era più completamente immerso nelle tre forze dell’anima, ma poteva ora sperimentare se stesso come un essere indipendente da esse.

In conseguenza di ciò nacque la facoltà del linguaggio umano: grazie alle vocali e alle consonanti, l’uomo potè dare espressione alle realtà oggettive.

 

Nella quarta epoca postatlantica avvenne la quarta compenetrazione dell’entità di Gesù da parte del Cristo

. Qui si trattò di armonizzare l’Io, come in precedenza erano stati armonizzati il corpo fisico, il corpo eterico e il corpo astrale. L’Io si esprime mediante i tre arti dell’uomo, costituenti le tre forze dell’anima senziente, dell’anima razionale e dell’anima cosciente.

 

Precisamente:

– la forza dell’Io che discende fino al corpo fisico, viene sperimentata come anima cosciente;

– l’attività dell’Io che opera fino al corpo eterico, viene sperimentata come anima razionale;

– l’entità dell’Io presente nel corpo astrale, viene sperimentata come anima senziente.

 

L’armonizzazione di questi arti dell’anima si compie grazie alla forza dell’amore.

È l’amore, infatti, a fare dell’uomo un essere unitario, in cui le intenzioni, i sentimenti e le azioni siano tra loro in accordo. Solo grazie all’amore, le idee e le azioni dell’uomo possono essere accordate tra loro: la conoscenza da sola non può farlo.

 

L’armonizzazione delle forze dell’Io

si compie grazie all’impulso d’amore che il Cristo Gesù ha donato all’evoluzione terrestre.

 

Affinché la comparsa del Cristo fosse possibile,

fu d’altra parte necessaria una lunga preparazione al risveglio della coscienza morale.

Affinché potesse nascere l’amore,

occorreva che fosse del tutto desta la coscienza morale dei tre arti dell’anima.

 

Nell’epoca precristiana, alcune entità spirituali operarono per risvegliare la coscienza morale nell’anima senziente, razionale e cosciente dell’uomo, in modo da rendere possibile l’Incarnazione del Cristo.

Gli effetti più profondi di questa azione furono esercitati da tre entità spirituali della gerarchia degli Angeli, le quali trasformarono la natura interiore dell’uomo per prepararla a quell’evento.

Una di queste entità fu quella che da epoche remote aveva operato in singoli uomini, finché si incarnò nel VI secolo a.C., provocando quell’avvenimento di portata storica noto come il ‘risveglio del Buddha’.

 

Nel Gotama Buddha ci troviamo di fronte a un essere della terza Gerarchia, che compenetra interamente, ossia fin nel corpo fisico, una natura umana. Per formarsi un’idea adeguata del processo per cui il principe Siddharta, figlio del Re Suddhodana, divenne un Buddha, occorre concepire tale processo come un risveglio mediante la forza della coscienza morale.

Prima della sua illuminazione sotto l’albero del Bodhi, il Buddha era infatti un uomo, cui il mondo spirituale era precluso. La vista della malattia, della vecchiaia e della morte fecero sorgere in lui – con l’intensità propria a un essere sovrumano – l’interrogativo intorno al dolore dell’umanità e alle sue cause.

 

Non nella conoscenza, ma in virtù della forza con cui gli interrogativi si destavano in lui,

potè manifestarsi l’entità gerarchica che dimorava nel Buddha.

Ciò che distingueva Buddha dagli iniziati umani del suo tempo non fu dapprima il suo maggiore sapere

– egli sapeva infatti meno degli altri, e andò a scuola dai bramani e dagli asceti -,

ma fu piuttosto il suo vigoroso e sovrumano domandare.

L’elemento sovrumano si rivelò in lui nella forza della coscienza morale.

La forza della coscienza morale lo condusse al destarsi di una coscienza superiore,

che a questo punto gli rivelò anche una elevata saggezza.

 

Possiamo allora dire: in Buddha abbiamo una coscienza umana,

al cui domandare umano fu conferita la forza di una coscienza morale sovrumana.

Se noi teniamo presente che nel Buddha la compagine fisica fu assunta da un’entità gerarchica,

possiamo allora considerare l’evento del Buddha come la prefigurazione della nascita della coscienza morale

nell’anima cosciente [das Entstehen des vorbildlichen Gewissens der BewuBtseinsseele].

 

L’anima cosciente è infatti quella parte dell’entità dell’Io che si esprime nel corpo fisico.

Con questo fatto si spiega anche la caratteristica principale della coscienza morale del Buddha:

che essa era cioè spiccatamente individuale.

L’anima cosciente, come tale, non è sociale; esplicandosi nel corpo fisico,

sperimenta se stessa come essere separato,

non partecipe del respiro che accomuna gli uomini in una vita sociale.

 

Per questo il principe Siddharta, alla vista del cadavere, si domanda: “Devo morire anch’io?”.

Le sue domande riguardano il destino della singola individualità, il che è appunto caratteristico dell’anima cosciente.

Certo, in seguito egli si rivolgerà all’umanità, predicando le “quattro nobili verità” – del dolore, della causa del dolore, della liberazione dal dolore, e delle vie che conducono alla liberazione dal dolore -, ma tanto il contenuto del suo insegnamento, quanto l’atteggiamento che gli è proprio, si indirizzano per loro natura alle singole individualità.

 

L’evento per cui egli è diventato Buddha, esiste per tutta l’umanità.

La dottrina del Buddha, invece, non potrebbe mai assumere un valore universalmente umano.

Fino a quando, infatti, l’intera umanità non avrà sviluppato l’anima cosciente,

la prefigurazione della stessa anima cosciente da parte del Buddha non potrà riguardare tutti gli uomini.

La dottrina del Buddha, d’altra parte,

in quanto indicava un cammino che conduceva a mete proprie dell’era precristiana,

ebbe valore per un certo numero di individualità che vissero in quell’epoca.

 

L’entità che si incarnò come Buddha, additò dunque all’umanità

il risveglio della coscienza morale individuale nell’anima cosciente.

 

Del tutto diversa fu l’azione di un’altra entità, chiamata a risvegliare la coscienza morale dell’anima senziente.

A tal fine essa non ebbe bisogno di discendere fino al corpo fisico, ma agì nelle forze dell’Io presenti nel corpo astrale.

Con più precisione si dovrebbe dire:

come il Buddha operò nel corpo fisico compenetrato dal corpo eterico,

così quell’entità designata nella Bibbia con il nome di Elia,

operò nell’attività che il corpo astrale svolge nell’ambito del corpo eterico.

 

L’azione dell’entità di Elia, qual è descritta nella Bibbia, si esplica specialmente

nell’adombrare un uomo senza immergersi in lui, conferendogli al tempo stesso una potenza elementare.

L’entità di Elia non si incarna: essa opera attraverso l’organizzazione dell’Io attiva nel corpo astrale,

avvolgendo quest’ultimo e aleggiando sopra di esso.

Avvolge come una nuvola l’uomo tramite cui agisce, ma non penetra interamente in lui.

 

Potenza aleggiante: tale è l’impressione che si ricava dall’entità di Elia, se si considerano le figure bibliche tramite cui essa operò. La potenza di natura con cui si manifestò l’entità di Elia, e che si espresse nei diversi miracoli descritti nell’Antico Testamento, non è però l’aspetto essenziale per una comprensione della stessa.

 

Più importante del suo potere sulle forze elementari, è l’effetto morale della sua azione.

Quest’ultima consistette principalmente nel risvegliare la coscienza morale, non dell’individuo,

ma della comunità nazionale d’Israele.

 

Così, ad esempio, il profeta Nabot-Elia,4 allorché si contrappose alla schiera dei sacerdoti di Baal,

non era solo un uomo, ma anche la voce e la forza dell’entità rappresentativa della coscienza morale del popolo.

E quando con il fuoco celeste incendiò il legno bagnato sull’altare, annunciò con questo segno che, se anche i cuori di Israele, a causa del culto di Baal, si erano allontanati dalla guida di Jahvè, essi potevano tuttavia ancora essere afferrati con potenza di natura dall’azione di un fuoco, come era avvenuto per il legno bagnato. Se infatti la forza morale-spirituale di Jahvè è in grado di incendiare materiale incombustibile nella natura extraumana, tanto più essa potrà incendiare i cuori intiepiditi nella natura umana.

 

Nel presente contesto non sarà fuori luogo accennare al rapporto esistente tra l’entità di Elia e Jahvè. La guida spirituale del popolo d’Israele era in realtà molto più complessa di quanto possa risultare dall’idea, giusta ma troppo vaga, del ‘popolo guidato da Jahvè’.

 

Per formarsi un’idea più precisa di questa guida, occorre considerare – oltre alle individualità umane – quattro entità spirituali – una quinta operava in un modo molto nascosto – cui era preposta la guida del popolo di Israele. Le azioni di queste entità si intrecciano così strettamente, che le più elevate agiscono tramite quelle a loro subordinate, dimorando talvolta in esse.

Così l’Io-sono, che parlò a Mosè tramite Jahvè Elohim, era la stessa entità del Cristo.

Fin dall’inizio della vicenda dell’Antico Testamento, Cristo operava tramite Jahvè, che in certo modo era il suo volto.

Come la luna di notte trasmette alla terra la luce del sole,

così Jahvè trasmetteva la luce dell’Io-sono, del Cristo.

 

Il popolo ebraico, benché fosse ‘eletto’, era tuttavia un popolo vero e proprio, ossia possedeva uno spirito tutelare.

Questo spirito doveva essere tale, da poter realizzare in un popolo gli impulsi più universali dell’umanità.

Tale era l’Arcangelo Michele, che agì a sua volta come il volto di Jahvè.

L’Arcangelo Michele fu lo spirito guida del popolo ebraico, poiché era particolarmente adatto

a rappresentare e realizzare, come spirito di popolo, gli intenti universalmente umani che esso doveva perseguire.

 

I popoli non possiedono però solo uno spirito di popolo, ma anche un’anima di popolo.

Non dobbiamo immaginare l’anima di popolo come una sorta di aura nebulosa,

che rappresenti la mera somma delle singole anime appartenenti a un certo popolo.

L’anima di popolo è un’entità spirituale concreta, appartenente, in genere, alla Gerarchia degli Angeli.

 

Per comprendere ciò, va tenuto presente che l’evoluzione da un normale Angelo custode individuale, ad uno spirito di popolo, o Arcangelo, non avviene con un salto, ma si svolge per gradi. Prima che un Angelo assurga alla dignità di Arcangelo, passa per il grado di anima di popolo, la quale può essere intesa come uno stadio intermedio tra la Gerarchia degli Angeli a quella degli Arcangeli.

 

L’anima di popolo opera diversamente dallo spirito di popolo, e anche dall’Angelo custode individuale.

Ciò che la distingue dall’Angelo custode individuale, è la sua attività complessiva all’interno di un popolo.

Ciò che la distingue invece da uno spirito di popolo è il modo del suo operare,

più simile a quello degli Angeli che a quello degli Arcangeli.

 

Si noti che non tutti gli Arcangeli sono spiriti di popolo,

ma alcuni di loro si trovano in uno stadio di transizione verso la gerarchia delle Archai.

• Vi sono, ad esempio, sette Arcangeli

che, per periodi di circa tre-quattrocento anni esercitano le mansioni di spiriti del tempo.

Le Archai stesse sono gli spiriti delle epoche di cultura, che durano circa ventidue secoli.

All’interno del periodo di reggenza di un’Arché, si susseguono sette periodi più brevi,

guidati dai sette Arcangeli in procinto di assumere la dignità di Archai.

Qualcosa del genere vale anche per le altre Gerarchie.

 

Questa digressione ha lo scopo di stimolare il lettore a non formarsi una rappresentazione schematica delle Gerarchie, ma a coglierle nella loro varietà individuale.

 

Riconoscere questa varietà individuale è importante specialmente per la gerarchia degli Angeli, che è la più vicina all’umanità. Si dovrebbero dapprima distinguere almeno tre gruppi di entità angeliche:

• gli Angeli custodi;

• gli Angeli con una speciale missione, che operano per gruppi karmici dell’umanità;

• e gli Angeli che operano come anime di popolo.

Gli ultimi, come abbiamo detto, costituiscono uno stadio intermedio verso la Gerarchia degli Arcangeli.

 

Per comprendere concretamente l’attività delle anime di popolo,

occorre confrontarla con quella degli Angeli custodi individuali e con quella degli spiriti di popolo.

 

Gli Angeli custodi ispirano l’Io dell’uomo, mentre egli, durante il sonno, si trattiene nel mondo spirituale;

gli Arcangeli ispirano il corpo astrale dell’uomo una volta all’anno, nel periodo di Natale.

L’anima di popolo, invece, ispira l’Io presente nel corpo astrale, cioè opera specialmente nell’anima senziente.

 

Mentre l’Angelo incontra l’uomo nel sonno,

quando l’Io e il corpo astrale sono svincolati dal corpo eterico e dal corpo fisico, 

l’anima di popolo lo incontra al confine tra il corpo astrale e il corpo eterico, là ove l’astrale è già legato all’eterico,

ma non è ancora disceso nel corpo fisico: nell’ambito, dunque, in cui si producono i sogni.

 

L’anima di popolo si esprime perciò soprattutto nei sogni divinatori di un popolo, nelle saghe e nelle fiabe che derivano da essi. Non sogna infatti solo il singolo uomo, anche i popoli sognano. Attraverso simili sogni di popolo, l’anima di popolo cerca di interpretare per la coscienza degli uomini le ispirazioni dello spirito di popolo. L’anima di popolo funge da interprete delle intenzioni dello spirito di popolo, soprattutto per mezzo dell’elemento simbolico da cui nascono le saghe e le fiabe. Essa trasmette i sogni dei popoli, che vivono nella coscienza dell’anima senziente.

 

Per l’anima razionale le saghe e le fiabe non hanno grande importanza; per l’anima cosciente non ne hanno affatto; nell’anima senziente esse vivono invece intensamente, sono un effetto della coscienza morale [Gemissen] di un popolo.

Come infatti la coscienza morale di un singolo uomo, la quale si esprime nel sentire e nel pensare, è un ricordo interiore di ciò che egli ha ricevuto nel sonno durante l’incontro con il suo Angelo, così le saghe e le fiabe di un popolo sono ciò che esso ha serbato nella propria coscienza dell’incontro con l’anima di popolo, quale interprete dello spirito di popolo.

In proposito va notato che intorno a nessun altro personaggio dell’Antico Testamento sono sorte e si sono tramandate più leggende nel popolo ebraico, quanto intorno a Elia.

Di più ancora: nella stessa Bibbia, la figura di Elia mostra un carattere leggendario. È invero l’unico personaggio nella storia dell’Antico Testamento, che da vivo sia salito al cielo su cavalli di fuoco.

Ciò rivela che Elia era l’anima di popolo dell’antico Israele.

 

Il compito dell’entità di Elia consisteva principalmente

nel risvegliare la coscienza morale comune di tale popolo.

Essa adempì tale compito con potenza maggiore di quella di una normale anima di popolo.

L’entità di Elia non era infatti un Angelo assurto alla dignità di anima di popolo,

ma un Angelo di natura singolare, dotato di poteri arcangelici e disceso al grado di anima di popolo.

 

Questo è il motivo per cui Elia possedeva una forza che superava quella delle normali anime di popolo. Egli era un Angelo tramite cui operava la forza dell’Io-sono propria degli Elohim. Per questo aveva talune prerogative della seconda Gerarchia, tra cui il potere sulle forze elementari del fuoco, dell’aria, dell’acqua e della terra.

 

Anche sulla natura umana Elia operò con più forza di una normale anima di popolo. Mentre infatti una normale anima di popolo opera nella genesi di saghe e fiabe, Elia non si limitava a suscitare immagini nella coscienza dell’anima senziente, ma conferiva a tali immagini una potenza elementare oggettiva, onde essi diventavano eventi, o ‘miracoli’. In tal modo si provocavano scosse nelle anime umane, affinché si risvegliasse in esse la coscienza della vocazione di Israele. Elia agiva sugli uomini come il tuono e il fulmine.

 

Nei cuori scossi balenava la realtà del patto con Jahvè, che era stato dimenticato. Essi si convertivano e mutavano i loro affetti. Questa caratteristica dell’attività di Elia si conservò a lungo nella memoria dell’umanità. Così, ancora i contadini della Russia prerivoluzionaria vedevano in Elia lo spirito che si rivela nel tuono. “Elia è arrabbiato”, si usava dire quando imperversava la tempesta.

 

Questo detto è più profondo di quanto appaia a prima vista. La forza di Elia che scuoteva le anime, era infatti la forza della santa ira del mondo spirituale. In Elia vi era il preannunzio della futura tempesta universale, del giorno del giudizio per la terra e i suoi abitanti. L’ambito di forze in cui sussisteva l’entità di Elia, si protendeva fino alla sfera del Padre. Nella sfera del Padre va ricercata la sorgente suprema della forza di Elia. Jahvè-Elohim che guidava l’azione di Elia, non era infatti solo il volto del Cristo, ma anche la mano giustiziatrice del Padre.

 

Il fatto che Jahvè avesse preso Israele sotto la propria protezione, non significava soltanto che lo sguardo del Figlio vegliava su questo popolo, ma anche che la mano del Padre era posata, con gesto protettivo e punitivo, sui suoi destini.

L’umanità non riesce però a comprendere l’amore del Padre. La forma più alta di amore che essa può giungere a conoscere nella vita tra la nascita e la morte, è quella del Figlio.

L’amore del Padre, invece, è da lei vissuto nella forma della santa ira, la quale rappresenta la forza più elevata operante nel cosmo. Questa forza era attiva in Elia quando egli, scuotendo le anime senzienti degli uomini, suscitava nel popolo il rimorso, inducendolo alla penitenza.

 

• Mentre Buddha, grazie al discernimento, additò all’umanità il modello della coscienza morale individuale;

• mentre Elia, scuotendo l’anima dall’esterno, risvegliò la coscienza morale della comunità nazionale;

• una terza entità operò al fine di predisporre la nascita di una coscienza morale perfetta,

conciliando quelle due polarità.

 

Per comprendere l’attività del Gesù natanico – diversa da quella di Zarathustra – nel periodo precedente la sua quarta compenetrazione da parte dell’entità del Cristo , va notato prima di tutto che egli, già mentre si preparava alla missione di armonizzare le forze dell’Io nell’umanità – esercitava un’influenza armonizzatrice sulla stessa.

Ciò fu possibile in quanto l’anima razionale o affettiva costituisce già di per sé

un accordo tra l’anima senziente rivolta all’esterno e l’anima cosciente rivolta all’interno.

Appunto per questa ragione Rudolf Steiner scelse, per designare quest’arto dell’anima umana, il termine “anima razionale o affettiva” [ Verstandes – oder Gemutsseele]. Essa, infatti, riunisce in sé due nature: l’affetto, che tende verso l’anima senziente, e la ragione, che tende verso l’anima cosciente.

 

Questi due poli dell’anima razionale possono anche essere intesi come il polo della fantasia artistica e il polo dei concetti logici.

Per il fatto che l’entità di Gesù agiva sull’anima razionale, destandovi la coscienza morale,

tale azione si svolgeva in due direzioni: suscitando

•  da un lato, mediante impressioni esteriori, moti dell’animo che si trasformavano poi in atteggiamenti di pensiero;

•  e destando dall’altro, mediante pensieri, una consapevolezza interiore che avrebbe condotto ad azioni coscienti.

 

Il primo aspetto dell’azione dell’entità di Gesù si può scorgere in quella corrente spirituale che è legata alle figure di Apollo e del ‘figlio di Apollo’, Orfeo.

La poderosa influenza musicale, che preparò gli animi delle popolazioni europee alla futura evoluzione del pensiero – influenza di cui Rudolf Steiner ha parlato in ripetute occasioni – fu l’espressione di questa azione.

L’impulso artistico che precedette la ricca vita di pensiero del mondo greco, è riconducibile all’ispirazione dell’entità di Gesù.

 

L’altra direzione in cui agì questa entità, può essere colta attraverso la figura di Krishna, quale è tramandata, ad esempio, nella Bhagavad Gita. Nella Bhagavad Gita – il libro che parla di Krishna – non è così importante l’effetto artistico, quanto piuttosto la dottrina, da cui si ricava una serie di pensieri guida.

Questi pensieri non sono però fine a se stessi: essi hanno il compito di produrre un cambiamento nella coscienza di coloro che li accolgono. Esponendo ad Arjuna il suo insegnamento intorno ai tre guna – le tre condizioni primordiali dell’esistenza – Krishna indica una quarta condizione, in cui l’anima si innalza come Io libero sopra i tre guna, che l’uomo ha in comune con la natura.

In tal modo egli intende predisporre la nascita della coscienza morale individuale,

per la quale il singolo soggetto si libera dalla condizione dell’anima di gruppo.

Il superamento dell’anima di gruppo fu decisivo per Arjuna, allorché egli, alla testa di un’armata, si trovò esitante a fronteggiare un’altra armata, in cui parenti e amici avevano assunto le vesti di nemici. Solo dopo aver accolto per intero l’insegnamento di Krishna, ispirato dall’entità di Gesù, Arjuna si decise a combattere.

Il discernimento individuale si dimostrò più forte dell’influenza dell’anima di gruppo: tale è, per la storia spirituale dell’umanità, la natura dell’evento che si compie sul campo di battaglia di Kurukshetra.

 

Il discernimento interiore della legge del karma – del dharma

costituì la preparazione alla coscienza morale individuale, operata da Krishna.

 

L’entità di Gesù operò, dunque,

•  da un lato sull’affetto, predisponendo l’esperienza della coscienza morale collettiva 

e dall’altro sulla ragione, predisponendo l’esperienza della coscienza morale individuale.

La sua azione teneva dunque il mezzo tra le grandi polarità di Elia e Buddha.

 

Così cooperarono tre entità,

per preparare la nascita di quella coscienza morale che permise al Cristo di discendere sulla terra.

La coscienza morale destinata ad accogliere in sé il Cristo, doveva essere del tutto desta,

il che vuol dire desta nell’anima senziente, nell’anima razionale e nell’anima cosciente.

 

Ma che cosa significa che la coscienza morale deve essere desta in questi tre arti dell’anima?

Significa che si sono destate la coscienza del sé spirituale, dello spirito vitale e dell’uomo spirito!

Non riusciremo mai a cogliere nella sua vera profondità

la poderosa immagine del Gesù natanico che si avvia verso il battesimo del Giordano,

se non ravviseremo in essa la potenza dell’atma, la vita del buddhi e la luce del manas

che agiscono rispettivamente nel suo corpo fisico, nel suo corpo eterico e nel suo corpo astrale.

 

Un tale destarsi dell’eterna e trina coscienza morale,

fu la conseguenza dell’azione concorde di tre entità,

che avevano poste le condizioni di questa meravigliosa realtà nel corso di lunghe epoche.

 

I raggi del Buddha avevano agito in essa, la forza di Elia le aveva preparato la via, la vita di Gesù l’aveva ricolmata.

Tutte le sacre melodie di Orfeo, tutte le illuminazioni del Buddha, tutta l’abnegazione del cuore di Gesù

– anche i frutti più maturi dell’esperienza di Zarathustra –

vivevano nella figura della coscienza morale desta dell’umanità che si avviava verso il Giordano.

 

Le vie che condussero alla nascita di questa coscienza furono complesse, più di quanto si è cercato di tratteggiare nel presente capitolo. Esse avevano tuttavia una cosa in comune: il fatto cioè che la nascita della coscienza morale precedente l’incarnazione del Cristo fosse, come ogni nascita, un processo doloroso.

Tale è infatti la legge di ogni nascita dopo la caduta dell’umanità, tanto della nascita fisica, quanto della nascita di una nuova coscienza: a ogni nuova realtà che deve venire al mondo, si può far posto solo mediante il dolore.

 

Il mondo, infatti, dopo il peccato originale, è sempre ‘occupato’, non vi è mai posto per il nuovo;

ogni novità va pagata col prezzo del sacrificio.

 

Perciò il cammino che conduce alla conoscenza spirituale, alla rivelazione spirituale, è un cammino

che, attraverso il dolore, giunge alla somma felicità di una coscienza morale rischiarata dal sole.

La gioia è la promessa data all’umanità dalla guida divina;

ma tale gioia può nascere solo se le si dà accesso mediante il dolore.

 

La coscienza morale è il bene più alto dell’umanità.

Di essa si vede spesso solo un lato, il suo essere fonte di inquietudine interiore,

dei cosiddetti ‘rimorsi della coscienza’.

Solo a poco a poco si imparerà invece, che essa può essere la sorgente inesauribile della gioia.

Essa è il Sole interiore, che illumina tutte le oscurità della vita.

 

Accecato dalla luce di questo Sole, Paolo cadde a terra sulla via di Damasco.

A questo stesso Sole si riferiva, quando disse: “Non io, ma il Cristo in me”.

 

 


 

Note:

1- (O.O. n. 116). Ed. it., L’impulso-Cristo e la coscienza dell’Io, Roma 1994, Tilopa ed.

2 – Nelle Meditazioni sui Tarocchi (ed. it. presso Estrella de Oriente, 2° vol., 2001), l’Autore affermerà invece: “Si può cogliere in profondità, cioè intuitivamente, solo ciò che si ama. L’amore è l’elemento vitale della conoscenza profonda, della conoscenza intuitiva. Ora, non si può amare il male, il male è dunque inconoscibile nella sua essenza. Si può comprenderlo solo a distanza, come puri osservatori della sua fenomenologia” (lettera XV, p. 131, corsivi dell’Autore).

3 – Cf. R. Steiner, Vorstufen zum Mysterium von Golgatha (O.O. n. 152).

4 – Seguendo un’indicazione di R. Steiner (conf. Del 17 settembre 1912 nel ciclo Il Vangelo di Marco, O.O. n. 139), l’Autore identifica la figura di Nabot, di cui si parla in 1 Re 21, con la “personalità fisica di Elia”. “Elia è una figura invisibile, mentre Nabot è la sua impronta visibile nel mondo fisico”: così esprime tale rapporto lo Steiner nella summenzionata conferenza.