16° Incontro

Amor, che ne la mente mi ragiona.


 

Continua il quinto capitolo

 

Stasera, prima di riprendere la lettura, vorrei tornare su quel passo che comincia con la domanda:

“Che cosa è dunque la percezione?”.

 

• Abbiamo detto che il percetto e il concetto sono una stessa cosa (l’essenza dell’oggetto)

che, sperimentata in un primo momento dal percepire (o dal volere) come forza indeterminata,

e in un secondo momento dal pensare come concetto determinato,

viene in ultimo appresa dalla coscienza intellettuale e come immagine percettiva e come rappresentazione.

 

Va comunque sottolineato che l’esperienza percettiva è a tal punto viva da assurgere a indiscusso criterio di convalida del reale. Di rado infatti dubitiamo di quanto ci capita sotto gli occhi o di quanto tocchiamo con le mani, mentre sovente dubitiamo di quanto “ci passa – come si usa dire – per la testa”.

• Diversa è dunque l’esperienza di una forza (fatta da un volere “privo” di pensare)

• da quella di una forma (fatta da un pensare “privo” di volere).

 

Il compito è dunque quello di scoprire che, all’origine, quella forza è la forza della forma e che quella forma è la forma della forza: che all’origine, insomma, forza e forma costituiscono quell’unità che Aristotele chiamava entelecheia, e che noi possiamo chiamare anche “essenza” o “concetto vivente”. Allorché s’incontra con tale unità, l’uomo la scinde esperendone, con una parte di sé, la forza e, con un’altra parte di sé, la forma.

Tanto è netta questa scissione che l’uomo è portato poi a pensare che la forza non appartenga alla forma, bensì a un qualche trascendente che, a seconda dei casi, vedrà come materia, come energia, come inconscio, come spirito, ecc.: come altro, insomma, dal pensiero che lo pensa. Questa è la trappola; e non è facile uscirne giacché, per farlo, non basta speculare, ma occorre agire interiormente.

 

 

Cartesio, ad esempio, fonda la filosofia moderna dicendo: “Cogito, ergo sum”, e non: “Cogito et volo, ergo sum”; la fonda cioè sul pensare, ma non anche sul volere. Egli ha così la forma dell’Io, ma non la sua forza. Proprio quella forza che – in ossequio alla legge per la quale ciò ch’è inconscio tende a essere proiettato – finisce infatti con l’attribuire, in contrapposizione alla res cogitans, alla res extensa.

Con Cartesio ci troviamo comunque agli inizi della fase evolutiva dell’anima cosciente e quindi agli inizi dell’attività scientifica dell’intelletto (si rammenti che Francesco Bacone, Galilei e Keplero sono contemporanei di Cartesio, e che quest’ultimo nasce appena cinquantatre anni dopo la morte di Copernico). È dunque in questo contesto che, nel secolo diciannovesimo, fanno improvvisa irruzione, soprattutto attraverso Schopenhauer, Eduard von Hartmann, Nietzsche e Freud, la volontà e l’inconscio: che nel contesto cosciente della forma, cioè, fa improvvisa irruzione quello incosciente della forza.

Questa viva realtà della forza non si presta però a essere domata o umanizzata dalla spenta irrealtà della forma. Aveva un bel dire Freud: “Ov’era l’Es, ivi regnerà l’io”. In realtà, basta guardarsi intorno per realizzare che oggi, semmai, “ov’era l’io, va regnando sempre più l’Es”. Del resto, se così non fosse, per quale ragione Hillman, uno dei più noti seguaci della psicologia del profondo, avrebbe dato qualche anno fa alle stampe un libro intitolato: 100 anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio?

 

Questa, tuttavia, non è che una sfida evolutiva: cioè a dire, la sfida dell’“uomo del sottosuolo” all’intellettuale “borghese” (scienziato o umanista che sia). Il pensiero attuale, infatti, mai potrà vincere tale sfida se non supererà sé stesso per ritrovare, nel profondo di sé, quella forza che sembra a prima vista incalzarlo e provocarlo dall’esterno.

• Dice lo Yoghi: “Se io fossi fuoco, il fuoco non mi brucerebbe”. Ebbene, potremmo dire allora, parafrasando, che se il pensiero fosse vivo la vita non lo sovrasterebbe, se fosse luminoso la luce non lo abbacinerebbe, e se fosse caldo il calore non lo dissolverebbe. Ma per essere appunto vivo, luminoso e caldo, il pensiero deve risorgere dalla tomba della coscienza intellettuale e portarsi, grado a grado, a quei livelli superiori di coscienza che Steiner chiama rispettivamente “immaginativo”, “ispirativo” e “intuitivo”.

 

Pensate per esempio alla sessualità. Ma davvero si crede di poter conoscere questa forza, in cui è riposto e custodito il segreto della vita, con lo stesso pensiero con cui risolviamo i giochi de La settimana enigmistica o compiliamo, per il fisco, il modello 740? Oppure con quello del tutto astratto con cui ci si compiace di aver magari appreso le lezioni di Marx, Freud o Einstein? Perdonate se mi esprimo in modo un po’ brutale, ma è doveroso dire che la logica del reale, quella per la quale viviamo o moriamo, gioiamo o soffriamo, amiamo od odiamo, s’interessa ben poco di quella con la quale tentiamo invano – come diceva Marx – di “mettere le brache al mondo” o di ridurlo alle nostre attuali proporzioni.

A questo proposito, sentite cosa dice Steiner in Parsifal e Amfortas: • “Gli insegnamenti che già da molto tempo si riversano sull’uomo, quel che si crede bene insegnare ai bambini e di coltivare in essi, e che diviene il terreno della moderna cultura, non va apprezzato in funzione dell’intelligenza astratta che si preoccupa di comprendere e riscontrare l’esattezza dei propri presupposti: la cultura va, invece, valutata in funzione dell’azione da essa esercitata sull’anima, delle impressioni e del beneficio che l’anima ne riceve”.

 

Tornando al passo con il quale abbiamo cominciato, permettetemi di dire ancora qualcosa sul problema della realtà oggettiva e di quella soggettiva. Abbiamo visto che l’oggetto della percezione (il percetto) sta nel mondo ed è perciò oggettivo, mentre la rappresentazione sta nel soggetto ed è perciò soggettiva. Ci sono quindi un mondo oggettivo e un mondo sogettivo, e in entrambi si presentano dei fenomeni. Il problema è dunque quello di scovare se vi sia una relazione tra questi e, in caso affermativo, quale sia. Ma trovare questa relazione significa trovare il pensare in quanto il pensare è già relazione. Il pensare deve dunque trovare sé stesso.

Abbiamo visto, inoltre, che parliamo del corpo come di una realtà esteriore, che parliamo dell’anima come di una realtà interiore, ma che quando parliamo del concetto, parliamo di una realtà che appare, sì, nel mondo interiore dell’anima, ma che vi giunge dall’esterno: ovvero, da quel mondo che abbiamo appunto indicato quale “esterno dell’interno”.

 

Tanto il percetto che il concetto sono dunque mondo e non ancora uomo.

L’uomo sta infatti in mezzo, tra il percetto e il concetto, laddove sta l’anima

e laddove sta quel conoscere che sintetizza percetto e concetto portandoli a coscienza in forma di rappresentazione.

• Definendo dunque “soggettivo” ciò che appartiene al soggetto,

dobbiamo considerare tali e la rappresentazione e l’immagine percettiva.

• Non a tutti è chiaro, tuttavia, che anche la seconda appartiene al soggetto

poiché – sulla scia dei realisti ingenui – viene per lo più identificata con l’oggetto o con la cosa.

 

Eppure, facendo nostra (almeno in questo) la lezione di Kant, dovremmo renderci conto che il mondo più che vederlo lo immaginiamo. Quella immagine percettiva che il realista ingenuo crede essere la sorgente del processo conoscitivo non solo non ne è la sorgente, ma ne è anzi la foce. Non creiamo di certo il mondo, ma creiamo l’immagine del mondo. E ove ci riuscisse di conoscere come la creiamo, conosceremmo anche il mondo e noi stessi.

 

Dice Steiner:

 

“Il soggetto della mia percezione rimane per me percepibile quando la tavola,

che in questo momento mi sta davanti, sarà scomparsa dal campo della mia osservazione.

L’osservazione della tavola ha prodotto in me una modificazione, anch’essa permanente.

Io conservo la capacità di poter suscitare più tardi un’immagine della tavola; questa capacità rimane unita a me.

La psicologia chiama quest’immagine “rappresentazione mnemonica”.

È però l’unica cosa che con diritto si possa chiamare rappresentazione della tavola” (pp.82-83).

 

 

La tavola presente, e che osservo, è dunque un’immagine percettiva; quella assente, e che ricordo, è invece una rappresentazione. In effetti, l’incontro o lo scontro con l’oggetto lascia nel soggetto una traccia, e per ciò stesso lo modifica.

 

Di certo ricorderete che, in precedenza, abbiamo paragonato quanto assumiamo mediante l’attività percettiva a ciò che assumiamo mediante l’alimentazione. Ebbene, un proverbio arabo dice: “Mangiando si ammala, digerendo si guarisce”. È questa una grande verità. Difatti, ogni volta che introduciamo nel nostro organismo un oggetto estraneo, si avvia un processo di “malattia” che la digestione, annullando l’estraneità dell’oggetto, s’incarica di “guarire”.

Parafrasando, potremmo perciò dire: “Percependo si ammala, pensando si guarisce”.

È importante tener conto di questo, in quanto il numero degli stimoli dai quali siamo quotidianamente raggiunti è ormai tale da renderci praticamente impossibile il pensarli e il digerirli tutti. Orbene, considerate che questi stimoli (questi percetti) non assimilati possono – a detta di Steiner – accumularsi come elementi tossici e produrre in noi dei fenomeni patologici anche di carattere fisico. Lo ricordo perché spero che aiuti a intendere la piena realtà di questi processi e a realizzare quanto potrebbero rivelarsi perciò salutari, perfino fisicamente, una più sobria attività percettiva da un lato, e una più incisiva attività pensante dall’altro.

 

Aggiunta alla seconda edizione del 1918

 

Dice Steiner:

 

“La concezione che qui è stata indicata può essere considerata quella a cui l’uomo

viene, a tutta prima, portato come naturalmente

quando comincia a riflettere sui suoi rapporti col mondo” (p.83).

 

 

Dobbiamo qui tornare al momento in cui abbiamo cercato di mostrare come il passaggio dal realismo ingenuo all’idealismo critico costituisca un’evoluzione della coscienza. Abbiamo visto che ciò di cui il realista ingenuo rimane ignaro, Kant comincia a portarlo alla coscienza e a scoprire così che tanto l’immagine percettiva quanto la rappresentazione non risultano in modo diretto dall’azione dell’oggetto sul soggetto, bensì in modo indiretto dalla reazione del soggetto all’azione dell’oggetto. L’uomo, grazie a Kant, comincia quindi a prendere coscienza della propria attività conoscitiva. Tuttavia, non appena nasce questa consapevolezza, ecco affacciarsi una nuova difficoltà.

 

 

“Chi vuole elaborarsi – dice infatti Steiner – una concezione sul rapporto fra l’uomo e il mondo, diventa cosciente che egli stabilisce per lo meno una parte di tale rapporto col farsi delle rappresentazioni delle cose e dei processi del mondo. Con questo il suo sguardo viene distolto da quanto sta fuori, nel mondo, e diretto verso il suo mondo interiore, verso la sua vita di rappresentazione” (p.84).

Una tale riflessione su sé stesso non consente quindi “all’uomo di guardare ad una realtà, quale la coscienza ingenua crede di avere dinanzi a sé, ma gli permette soltanto di guardare alle sue rappresentazioni; queste si insinuano fra il suo proprio essere e un mondo più o meno reale, quale il punto di vista primitivo crede di poter affermare” (pp.84-85).

 

 

In cosa consiste tale difficoltà? Consiste nel fatto che l’attività pensante del soggetto, scoperta da Kant, anziché porsi – ai suoi occhi – come un prezioso tramite tra l’uomo e il mondo, vi si frappone, invece, come un fatale ostacolo. Egli è convinto, infatti, che l’attività rappresentativa del soggetto costituisca una sorta d’invalicabile muro che separa il soggetto stesso tanto dalla propria essenziale realtà quanto da quella dell’oggetto.

 

• Se il realista ingenuo ritiene dunque che la realtà ci dia il pensare (il rappresentare),

Kant ritiene invece, non che il pensare ci dia la realtà (il noumeno),

ma che ci dia soltanto la sua illusione (il suo fenomeno).

 

Dice al riguardo Steiner che una convinzione del genere 

 

“occorre viverla, per trovare la via di uscita grazie al riconoscimento dell’errore a cui essa conduce” (p.84).

 

 

In effetti, un conto è prendere una qualsiasi Storia della filosofia per togliersi la curiosità di sapere quello che dice Kant, altro è immedesimarsi nella sua concezione fino al punto di sperimentarne gli effetti nell’anima, così come si sperimentano magari, nel corpo, quelli di determinate sostanze o di determinati farmaci. Sappiamo tutti, ad esempio, che ci sono dei farmaci per “uso interno” e altri per “uso esterno”. Ebbene, se facciamo delle concezioni o delle visioni del mondo lo stesso uso che si fa delle pomate, ci sarà allora difficile valutarne l’efficacia terapeutica (o esistenziale). Come Giona, infatti, prima di essere liberato, stette tre giorni e tre notti nel ventre di un “gran pesce” o di una balena, così noi, prima di esserne liberati, dovremmo trovare il coraggio di farci “inghiottire” dalle diverse forme di pensiero.

 

Chi conosce il Wilhelm Meister di Goethe sa, ad esempio, che il protagonista, nei suoi anni di “noviziato” o di “formazione”, viene segretamente educato da una “loggia” o da una “società iniziatica” che applica nei suoi confronti una “pedagogia dell’errore”; questi viene cioè portato incontro all’errore perché trovi ogni volta in sé stesso quella forza della verità che gli permetta di riconoscerlo come tale e di superarlo. Tale “pedagogia dell’errore” si trasforma così in una “pedagogia della verità”: ovvero, in un vivo processo di autentica formazione umana. Grazie a un siffatto insegnamento, Wilhelm Meister cresce dunque nella verità e la verità cresce in lui. La verità – come abbiamo già ricordato – non è infatti un “oggetto” o una “cosa”, bensì un “soggetto” o uno “spirito”. Come tale, non la si può “avere”, ma la si può “essere”: per esserla, occorre però divenirla.

 

Naturalmente, ciò che vale per Kant e per l’idealismo critico vale anche, a maggior ragione, per Steiner e per la scienza dello spirito. Si può afferrare lo spirito di un insegnamento soltanto vivendolo. Con quale spirito – potremmo perciò chiederci – seguiamo la scienza dello spirito? Non sarebbe male, in effetti, porsi ogni tanto questa domanda, poiché la verità della scienza dello spirito è riposta nel suo “spirito”.

L’opera di Steiner – dice appunto Scaligero – “dettata dallo spirito, esiste soltanto per ritornare quel movimento interiore, a cui il mondo spirituale risponde: esiste per un collegamento con l’ordine invisibile degli esseri e delle forze, non per divenire un sapere”.

 

Vedete, a noi capita di muovere dalla periferia, vale a dire da questo o quel libro, da questo o da quel particolare interesse, ma dovremmo capire, a un certo punto, che quel che è essenziale sta al centro: ossia, nel palpitante cuore o nella viva sorgente dell’insegnamento. Soltanto tale spirito può infatti agire sul sentire e sul volere, trasformandoli.

Provate invece a calarvi nello spirito di Kant e state a vedere quale effetto produca nella vostra anima. Credete forse che le giovi il venire a sapere di essere chiusa nell’universo delle proprie rappresentazioni e di dover perciò dare un addio alla realtà del mondo, degli altri e dell’Io?

Pensate ancora una volta all’amore. L’amato è prigioniero delle proprie rappresentazioni, l’amata delle sue. Lui non può quindi raggiungerla e lei non può fare altrettanto. In effetti (se mi passate la battuta), solo un autentico fenomeno (non in senso kantiano) riuscirebbe ad amare l’altro come un “noumeno”, pur essendo convinto che non è che un “fenomeno” (in senso kantiano).

 

Dice Goethe: “Solo ciò ch’è fecondo è vero”.

Per l’anima, in effetti, è vero solo ciò che le dà vita, luce e calore: ovvero, solo ciò che le permette di essere appunto un’anima, e non soltanto una psiche vincolata al corpo e svincolata dallo spirito.

 

Comunque sia, giacché siamo quasi arrivati alla fine di questa aggiunta, e quindi alla fine del quinto capitolo, proporrei, prima di concludere, di ricordare le principali tappe del cammino che abbiamo percorso.

 

• Siamo partiti dal realismo primitivo e abbiamo visto che questo

• è cosciente della realtà del corpo,      • ma è incosciente sia di quella dell’anima sia di quella dello spirito.

Poiché tali elementi incoscienti li proietta però sul corpo, dovremmo in realtà dire che il realismo primitivo non ha neppure una obiettiva coscienza del corpo o, meglio ancora, che ne ha una alterata o falsata.

 

• Siamo poi passati all’idealismo critico e abbiamo visto che questo

• è cosciente del corpo e dell’anima,        • ma è incosciente dello spirito.

Anche in questo caso dobbiamo pertanto ripetere quanto abbiamo appena detto del realismo ingenuo. Essendo incosciente della realtà immanente dello spirito, e proiettandola quindi su un’ipotetica realtà trascendente (su quella della “cosa in sé” da una parte, e su quella dell’“Io in sé” dall’altra), anche l’idealismo critico finisce con l’avere una coscienza alterata o falsata del corpo e dell’anima.

 

Stando così le cose, ben si capisce allora che, passando a Steiner, non dobbiamo limitarci ad aggiungere alla coscienza del corpo dei realisti ingenui e a quella dell’anima degli idealisti critici, la coscienza dello spirito, bensì dobbiamo, alla luce di questo terzo, nuovo e superiore elemento, rivedere la coscienza degli altri due.

Solo a chi ritiri le proprie proiezioni, si può infatti rivelare la vera natura e del corpo e dell’anima.

È dunque la coscienza dello spirito a garantire tanto quella dell’anima quanto quella del corpo.

Non ci si sorprenda di questa affermazione. Si è infatti materialisti proprio perché la materia, non conosciuta e dominata, la si deifica o mitizza (cioè la si sogna); così come si è psichisti quando si fa la stessa cosa con l’anima. Basta leggere, del resto, qualche libro del già citato Hillman per capire che cosa significhi deificare o mitizzare l’anima (cioè sognarla).

 

Detto questo, torniamo dunque alla nostra “aggiunta” per vedere come si conclude.

 

“Alla confusione cui si giunge con la riflessione critica in relazione a questo punto di vista, – dice Steiner – si sfugge soltanto se si osserva che, entro ciò che si può sperimentare e percepire interiormente in sé stessi ed esteriormente nel mondo, esiste qualcosa che non può sottostare alla fatalità che la rappresentazione si frapponga fra i processi esteriori e l’uomo che li contempla. E questo è il pensare.

Di fronte al pensare l’uomo può rimanere fermo al punto di vista primitivo” (pp.85-86).

 

 

Abbiamo detto, a suo tempo, che il realismo ingenuo deve essere superato non per il suo realismo, ma per la sua ingenuità. Ma in che cosa consiste tale ingenuità? Nel materializzare le idee o nello scambiarle per cose. Appunto per questo, Scaligero – come abbiamo visto – ci esorta a passare dal realismo delle cose al realismo delle idee.

 

In ogni caso, per avere più chiaro quest’ultimo passaggio,

converrà riprendere quel detto Zen in cui si parla di alberi e di montagne.

Il realista ingenuo è convinto infatti, quale uomo comune, che le montagne sono montagne e gli alberi sono alberi, poiché, tanto le prime che i secondi, sono, per lui, delle realtà sensibili: nulla di più, ossia, di quanto egli veda con gli occhi o tocchi con la mano.

L’idealista critico è convinto invece, quale discepolo, che le montagne non sono montagne e gli alberi non sono alberi, poiché, tanto le prime che i secondi, altro non sono, per lui, che delle realtà rappresentative: nulla di più, ossia, di reazioni soggettive agli stimoli oggettivi provenienti dalle inconoscibili “montagne in sé” e dagli inconoscibili “alberi in sé”.

Steiner è convinto infine, quale maestro, che le montagne sono montagne e gli alberi sono alberi, poiché tanto le prime che i secondi sono, per lui, delle realtà ideali o spirituali: ossia, delle realtà che tutti potremmo vedere con gli occhi del pensiero solo che avessimo la pazienza, la costanza e l’umiltà di educarli per consentir loro di aprirsi.

Sembra dunque, a prima vista, che il realista ingenuo e Steiner affermino la stessa cosa, ma – come ormai dovrebbe esserci chiaro – non è affatto così.

• In rapporto alle cose, il pensiero realistico è ingenuo (e quindi ingiustificato) in quanto non vi si riconosce;

• in rapporto al pensare (o ai concetti), non è ingenuo (e pertanto giustificato) in quanto vi si riconosce.

Ecco il perché Steiner dice che “di fronte al pensare l’uomo può rimanere fermo al punto di vista primitivo”.

 

Facciamo un altro esempio. Probabilmente sapete che, per Freud, Dio non esiste, giacché quello che molti credono essere Dio altro non sarebbe, in realtà, che il risultato della loro proiezione “nei cieli” della figura paterna. C’è però un problema. Se il processo di guarigione o di maturazione interiore comporta – come si sostiene – un progressivo ritiro delle proiezioni, cosa succede, allora, quando ne viene riportata in terra e restituita al mittente una siffatta? Cosa succede, insomma, quando si cessa di dare a Dio quel ch’è di Cesare? Di fatto, possono accadere sole due cose: o si comincia a dare a Cesare quel ch’è di Cesare e a Dio quel ch’è di Dio; oppure si comincia a dare a Cesare quel ch’è di Dio cadendo così in un’opposta unilateralità. D’altro canto, non è inverosimile pensare, ove si considerino il carattere, la biografia e l’estrazione culturale di Freud, che sia stato proprio lui a vivere non tanto Dio come un padre, quanto piuttosto il padre come un Dio.

 

Comunque sia, ci troviamo qui di nuovo alle prese con il rapporto tra la rappresentazione e il concetto. Una cosa, infatti, è il concetto o l’idea di Dio, altra la Sua rappresentazione. E non si dovrebbe dimenticare che quando si parla di proiezione si parla appunto di rappresentazioni e non di concetti. C’è perfino chi identifica Dio col potere, col successo, con la fama o col denaro, se non addirittura con l’attore, col cantante o con lo sportivo preferito: molti insomma Lo cercano e Lo inseguono, ma ben pochi Lo trovano poiché sono incapaci di pensarLo correttamente.

 

Poiché però al mondo c’è tutto (vale a dire, lo spirito, l’anima e il corpo) il vero problema è allora quello di riuscire a mettere ogni cosa al suo posto. Quando diciamo, recitando il Pater noster: “Venga il Tuo regno!”, è come infatti se dicessimo: “Venga il Tuo ordine!” o “Venga il Tuo kòsmos!” (“come in cielo così in terra”).

Si ricordi sempre, al riguardo, che le cosiddette “entità ostacolatrici”, non essendo “entità creatrici”, possono generare il male soltanto mettendo in dis-ordine il creato; e uno dei modi migliori di metterlo in disordine è appunto quello di mettere le cose o le rappresentazioni al posto delle idee, confinando quest’ultime in un qualsiasi al di là che dia garanzia di non poter essere raggiunto dall’uomo.

Dice in proposito Nietzsche: “A che scopo un al di là, se non fosse un mezzo per insozzare l’al di qua?”.