17° Incontro

Amor, che ne la mente mi ragiona.


 

Sesto capitolo

 

Stasera, prima di cominciare il nuovo capitolo, vorrei richiamare l’attenzione sul suo titolo: L’individualità umana.

Che cos’ha di particolare? Vedete, abbiamo finora detto e ripetuto che

• l’essenza dell’oggetto (l’entelechia) si dà, attraverso il percepire, come percetto o forza

• e, attraverso il pensare, come concetto o forma;

• e abbiamo più volte sottolineato che tanto il primo che il secondo sono perciò “oggetto” o “mondo”.

 

Abbiamo anche detto, però, che il mondo, sul piano del percetto, lo sperimentiamo come “essere”, mentre, su quello del concetto, lo apprendiamo come “non-essere” in quanto ne prendiamo coscienza solo dopo che il concetto si è tramutato in rappresentazione. Di norma, siamo quindi coscienti, non del concetto vivente, bensì della sua spenta immagine riflessa: cioè a dire, di quella immagine meramente “ideale” che induce i nominalisti a negare la realtà del concetto. Ma è “l’individualità umana”, col suo inserirsi nell’unità del mondo, a produrre questa scissione o questa dualità: quella codificata appunto da Cartesio nei termini della res cogitans e della res extensa. E’ la medesima individualità a dover dunque risanare la scissione che ha prodotto nel mondo, così come, nel Parsifal, è la medesima lancia a dover risanare la ferita che ha procurato ad Amfortas.

Orbene, se siamo stati finora attenti soprattutto al modo in cui viene a prodursi tale scissione o ferita, faremo adesso invece attenzione al modo in cui questa comincia a essere rinsaldata o risanata. A tal fine, ci occuperemo anzitutto della rappresentazione.

 

Dice infatti Steiner:

 

“La principale difficoltà nella spiegazione delle rappresentazioni si trova per i filosofi nella circostanza che non siamo noi stessi le cose esterne, e che le nostre rappresentazioni debbono tuttavia avere una forma corrispondente alle cose”. Tuttavia – aggiunge – “la domanda: “Come acquisto io notizia dell’albero che sta dieci passi lontano da me?” è posta in modo completamente sbagliato. Essa scaturisce dall’idea che i limiti del mio corpo siano assolutamente pareti separatorie, attraverso le quali penetrano in me le notizie delle cose. Ma le forze che agiscono entro la mia pelle sono le stesse di quelle che esistono al di fuori. Io sono dunque realmente le cose” (p.87).

 

 

Ricorderete che, parlando del realismo ingenuo, abbiamo accennato all’idea di un soggetto concepito come un essere del tutto estraneo al mondo: come un essere, cioè, che osserva, pensa e riproduce in sé stesso il mondo come se non ne fosse parte. Ma l’uomo non è soltanto colui che osserva, pensa e riproduce in sé stesso il mondo (mediante il proprio apparato neuro-sensoriale), bensì anche colui che vive nel mondo, col mondo e del mondo (nel suo apparato respiratorio e circolatorio e soprattutto in quello metabolico). Lo stesso mondo che produce il minerale, il vegetale e l’animale, produce anche l’uomo. Potremmo anzi dire che il mondo, proprio per arrivare a farsi uomo, si è dovuto fare prima minerale, poi vegetale e poi ancora animale. Questi tre regni li ritroviamo infatti all’interno dell’uomo.

Ma perché il mondo si è fatto uomo? Perché l’essere del mondo, facendosi uomo, potesse conoscersi appunto come “essere” e farsi, per ciò stesso, “spirito”. Ma questo il mondo non ce l’impone. Esso non ci dà più infatti (come nell’antichità) un’immediata e oggettiva coscienza di sé (quale essere), bensì ci dà un’immediata e soggettiva coscienza di noi stessi (quali ego). Ciò vuol dire dunque che il mondo si è fatto uomo per arrivare a pensarsi, sentirsi e volersi, ma che l’uomo non si è ancora fatto mondo, ed è pertanto capace, al momento, di pensare, sentire e volere soltanto sé stesso.

Ma questa è appunto la chiave della libertà. È vero, infatti, che il mondo attende che l’uomo lo pensi, lo senta e lo voglia, ma è vero anche che il mondo vuole che l’uomo lo faccia, non per dovere, ma per amore; e si può fare per amore solo ciò che si fa liberamente. L’amore, del resto, o è un libero dono di sé o non è nulla.

 

Dice appunto Steiner, in una delle sue conferenze sull’Apocalisse:

 

”Soltanto ed unicamente quando ogni io è così libero e indipendente da poter anche non amare,

soltanto allora il suo amore è un dono del tutto libero”.

 

 

Tornando all’ultimo passo letto, non è dunque necessario pensare che tutto l’albero che “sta dieci passi lontano da me”, debba passare o introdursi in me dall’esterno, perché quell’albero che sta fuori di me (quale percetto) sta pure in me (quale concetto).

In effetti, non si sarebbe mai parlato di una corrispondenza tra il “macrocosmo” e il “microcosmo” se tutto ciò che è fuori dell’uomo non stesse anche in lui, e se tutto ciò che è nell’uomo non stesse anche fuori di lui. Ma ciò ch’è più importante (e di cui per lo più non ci si preoccupa quando si ricorda la predetta corrispondenza) è che è quanto sta nell’uomo a poter conoscere quanto gli sta fuori, e che è quanto sta fuori dell’uomo a volersi conoscere per mezzo di quanto sta in lui.

Ciò sta quindi a significare che deve esservi un qualcosa che stabilisce un legame tra ciò che è dentro e ciò che è fuori, e che non sta, per ciò stesso, né dentro né fuori, bensì sta, come un assoluto, al di là di queste due correlative categorie; e questo è appunto quell’Io che si colloca – come abbiamo visto – tanto al di là dell’ego o del soggetto “interno” quanto del non-ego o dell’oggetto “esterno”.

 

 

“Io sono dunque realmente le cose”, dice Steiner.

Certo, – afferma subito dopo – “non io in quanto sono soggetto della percezione,

ma in quanto sono una parte del divenire generale del mondo”.

 

 

Io dunque mi colloco, non solo fuori delle cose, ma (quale “soggetto” della percezione)

anche fuori di me stesso (quale “oggetto” dell’autopercezione o quale “parte del divenire generale del mondo”);

e proprio perché mi colloco fuori di me stesso (grazie all’apparato neuro-sensoriale)

posso conoscere quella parte di me che è tutt’una col mondo

e nella quale sono quindi operanti le forze minerali (fisiche), vegetali (eteriche) e animali (astrali).

 

Dice ancora Steiner:

 

“La percezione dell’albero e il mio io stanno dentro uno stesso intero. Il divenire generale del mondo suscita in ugual misura lì la percezione dell’albero, qui la percezione del mio io. Se invece che conoscitore del mondo, io fossi creatore del mondo, oggetto e soggetto (percezione e io) sorgerebbero in uno stesso atto: poiché essi si condizionano l’un l’altro reciprocamente. Come conoscitore del mondo posso trovare ciò che entrambi hanno in comune, come entità appartenentisi a vicenda, soltanto attraverso il pensare, che collega i due per mezzo dei concetti” (pp.87-88).

 

 

Dunque, all’interno di “uno stesso intero”, io, come soggetto percipiente, ho quali oggetti di percezione, lì l’albero e qui me stesso: ho cioè l’albero e me stesso come due “percepiti” o percetti. Come soggetto pensante, li ho invece come due concetti. Il primo l’ho infatti come “albero” od “oggetto” e il secondo come “io” o “soggetto”. Ebbene, che cosa hanno in comune questi due concetti? È presto detto: il pensare che li collega e dal quale entrambi scaturiscono. A questo proposito, ricordiamoci di quanto abbiamo già sentito dire da Steiner: “Soltanto con l’aiuto del pensare noi possiamo designarci come soggetto e contrapporci agli oggetti. Perciò il pensare non deve mai venir considerato come un’attività puramente soggettiva. Il pensare è al di là di soggetto e oggetto” (p.50). Proprio qui, tuttavia, ci è dato osservare un fatto molto particolare. È vero, infatti, che sia il concetto di soggetto sia quello di oggetto sono, in quanto prodotti dal pensare, due “pensati”, ma è vero anche che il soggetto è un “pensato-pensante” (in modo intellettuale o rappresentativo). Ciò vuol dire dunque che tale soggetto è un “pensato”, rispetto al pensare, ma un “pensante”, rispetto all’oggetto.

 

Osservate questo schema:

 

Come vedete, abbiamo in alto l’Io quale “Pensante” reale. Subito sotto abbiamo invece il “Pensare” quale suo atto e, più sotto ancora, i due concetti che ne scaturiscono in forma di “soggetto” e “oggetto”. Vediamo infine, scendendo sul piano del “rappresentare”, che il primo viene a porsi nei confronti del secondo, divenuto a questo livello “pensato-pensato”, res extensa o non-ego, in veste di “pensato-pensante”, res cogitans o ego.

 

Mentre “soggetto” e “oggetto” sono dei concetti, tanto il “pensato-pensante” quanto il “pensato-pensato” sono dunque delle rappresentazioni. Il “Pensare” dell’Io è infatti un pensare vivo (o – per dirla con Gentile – un “atto puro”), mentre quello dell’ego è un pensiero riflesso o morto. E’ questo pensiero, tuttavia, che consente all’ego di avere una coscienza rappresentativa e del non-ego e di sé stesso, e di pervenire quindi all’autocoscienza.

 

Questo schema ci aiuta altresì a capire il perché Steiner dica che “se invece che conoscitore del mondo, io fossi creatore del mondo, oggetto e soggetto (percezione e io) sorgerebbero in uno stesso atto”. Come si vede, infatti, dall’Io (ch’è “uno” col “creatore del mondo”) sorgono, “in uno stesso atto”, tanto il “soggetto” (l’io) che l’“oggetto” (la percezione).

In quanto “conoscitore del mondo”, ovvero “pensato-pensante”, res cogitans o ego, debbo dunque, per ritrovare l’Io (o il “Pensante” reale), risalire coscientemente e volitivamente quella corrente creatrice che discende inconsciamente e naturalmente dal “Pensare” al “rappresentare”.

 

Torniamo comunque al testo e osserviamo che Steiner, dopo aver brevemente discusso delle “cosiddette prove fisiologiche della soggettività delle nostre percezioni”, così conclude:

 

 

“I fatti fisiologici sopra citati non possono dunque gettar luce sul rapporto fra percezione e rappresentazione” (p.89).

 

 

Perché non lo possono? Per la semplice ragione che, in virtù di tali fatti, si vorrebbero spiegare delle percezioni per mezzo di altre percezioni. Nessuna percezione può però spiegare un’altra percezione. Sul piano sensibile, tutte le percezioni altro non fanno infatti che coesistere nello spazio e succedersi nel tempo. Alla percezione A, ad esempio, può far seguito quella B, a questa quella C, e così via. Finchè si rimane nel campo della percezione, si possono dunque registrare delle successioni, ma non è possibile stabilire, tra A, B, e C, alcun nesso qualitativo: alcun nesso, ad esempio, di causa ed effetto. Una cosa, infatti, è giudicare cronologicamente il “post” (ovvero, che C viene dopo B e che B viene dopo A), altra giudicare qualitativamente il “propter” (ovvero, che A è causa di B e che B è causa di C).

 

 

Allorché dunque il fisiologo – come dice Steiner – “dal fatto che una scarica elettrica suscita nell’occhio una sensazione luminosa, conclude che ciò, che noi sentiamo come luce, fuori del nostro organismo è soltanto un processo meccanico di movimento, dimentica che egli non fa che passare da una percezione all’altra, e che perciò non va mai al di fuori della percezione” (p.88).

 

 

Vedete, Steiner ha spesso detto che non vi è un solo dato sperimentale della moderna ricerca scientifica che sia in contraddizione con ciò che insegna la scienza dello spirito, ma che vi sono invece diverse teorie scientifiche che vengono smentite dalla ricerca scientifico-spirituale. Se la filosofia ha infatti il torto di curare unilateralmente il pensiero, sottovalutando o trascurando l’esperienza, la scienza ha viceversa quello di curare unilateralmente l’esperienza, sottovalutando o trascurando il pensiero. Proprio quel pensiero – si deve ricordare – del quale non può però fare a meno per elaborare il materiale fornitole dall’esperienza.

 

 

“Nel momento in cui una percezione spunta sull’orizzonte della mia osservazione, – dice Steiner – entra in azione in me anche il pensare. Un membro del mio sistema di idee, una determinata intuizione, un concetto si collega con la percezione” (p.89).

 

 

Come abbiamo visto, questo è un processo del tutto inconscio. Mi rendo conto che possa apparire in un certo senso paradossale il parlare di processi inconsci trattando della coscienza. Purtuttavia è così. Proprio la coscienza, in effetti, è il più grande dei misteri (Einstein, se non ricordo male, pare abbia detto appunto che “la cosa più incomprensibile del mondo è la sua comprensibilità”).

Il vero inconscio, checché ne pensi Freud, è quello che sta all’origine della coscienza. Quest’ultima, se vuole davvero penetrare nell’inconscio, deve perciò imparare a penetrare nel mistero del suo stesso essere. Ma per poterlo fare deve educarsi, rafforzarsi e svilupparsi. Se già la psicoanalisi, del resto, pur muovendo sul piano psicologico, è una teoria ch’è insieme una prassi o una prassi ch’è insieme una teoria, la scienza dello spirito non può essere, a maggior ragione, che un pragma.

Al riguardo, negli ambienti o nei circoli sedicenti “esoterici”, si usa spesso parlare (ma quasi mai con la dovuta serietà) di “veggenza”; la più sana e sicura delle “veggenze” è però quella del pensiero. Per poter osservare le dinamiche dei concetti, del giudicare e delle immaginazioni che presiedono alla formazione delle immagini percettive e delle rappresentazioni occorre infatti sviluppare almeno un poco di “chiaroveggenza” (d’immaginazione) e di “chiaroudienza” (d’ispirazione).

 

Ma torniamo a noi. “Nel momento in cui una percezione – come dice Steiner – spunta sull’orizzonte della mia osservazione”, io sperimento in modo vivo la presenza di un essere che non sono simultaneamente in grado di qualificare o determinare e che perciò chiamo X. Entra allora in azione il pensare, ma io non me ne avvedo perché sono attento all’essere che è spuntato sull’orizzonte della mia osservazione e non a quanto accade in me. Mediante il pensare un concetto si collega con la percezione (con il percetto) e viene così a prender forma l’immagine percettiva.

 

 

“Che cosa rimane poi – chiede però Steiner – quando la percezione sparisce dal mio campo visivo?” E risponde:

“La mia intuizione, collegata con quella determinata percezione che si è formata al momento del percepire (…)

La rappresentazione non è altro che un’intuizione riferita ad una determinata percezione, un concetto

che è stato una volta congiunto con una percezione ed al quale è rimasto il rapporto con tale percezione (…)

La rappresentazione è dunque un concetto individualizzato” (p.89).

 

 

Ed eccoci così arrivati all’uomo. Difatti, tra l’universalità del concetto e l’individualità del percetto, laddove si colloca la rappresentazione, si colloca la particolarità dell’essere umano. L’anima umana è posta dunque tra lo spirito, che è il corpo visto dall’interno, e il corpo, che è lo spirito visto dall’esterno; ed è per questo che l’Io, per mezzo dell’anima, può adottare l’una o l’altra prospettiva.

L’evoluzione dell’anima coincide dunque con l’evoluzione di quel pensare che si dà, al suo livello più basso, nella forma del rappresentare. Tale livello è comunque prezioso perché, facendo da base all’autocoscienza, è il solo dal quale sia lecito prendere le mosse per un’evoluzione spirituale che voglia essere davvero libera e cosciente.

 

Risposta a una domanda

Il concetto non ha forma. Tutti possiamo rappresentarci, ad esempio, un cane, ma nessuno può rappresentarsi il cane. Non appena una tale realtà prende forma, si discende infatti dal piano del concetto a quello dell’immaginazione o della rappresentazione. Vedete, il concetto è forma, ma non ha forma. È – potremmo anche dire – forma in potenza, ma non in atto; e come un prestidigitatore è capace di estrarre da un solo cappello molteplici oggetti, così l’Io è capace di estrarre da un solo concetto molteplici rappresentazioni.

 

Dice Steiner:

 

“Il mio concetto di un leone non è formato traendolo fuori dalle mie percezioni del leone.

Ma la mia rappresentazione del leone è dovuta alla percezione.

Io posso comunicare il concetto di un leone a chiunque non abbia mai visto un leone;

ma non mi riuscirà di creare in lui una rappresentazione viva, senza la sua diretta percezione” (p.89).

 

 

Ho già ricordato, a questo riguardo, che Jung, a un certo punto della sua ricerca, ha parlato delle cosiddette “immagini archetipiche”. Giustamente convinto, tuttavia, che un’immagine non è in grado di reggersi su di sé, in quanto è sempre immagine o riflesso di qualcosa, ha parlato anche degli “archetipi in sé”, sostenendo che da ognuno di questi possono derivare molteplici “immagini archetipiche”.

È stato questo, indubbiamente, il momento più alto o profondo della sua ricerca. Non si è purtroppo accorto, però, che la realtà di tali “archetipi in sé” altro non è che quella dei concetti. Ma perché non se n’è accorto? Perché l’ha incontrata, nella sua manifestazione simbolica, come una forza in grado addirittura di ammalare o di guarire. È perciò comprensibile che non gli sia riuscito di riconoscere, in questa, un’espressione di quei concetti che siamo abituati a considerare, nominalisticamente, un’astrazione o un’irrealtà.

Vedete, è come se un tizio, passeggiando in campagna, incontrasse dei cavalli, ma non li riconoscesse, avendoli visti, fino allora, sempre e soltanto in fotografia; ed è incontestabile che quelli che ha visto e conosce, a differenza di quelli che si trova ora davanti, non emanano odori, non respirano, non nitriscono, non si muovono, né trottano o galoppano. Ecco il perché, incontrando nella psiche i concetti viventi, non li si riconosce come tali e si pensa allora di chiamarli “archetipi in sé” e di considerarli appartenenti a una non meglio precisata sfera “psicoidea”. Come ho già avuto occasione di farvi notare, si tratta di una disavventura analoga a quella capitata, in campo neurofisiologico, a John Eccles. Gli stessi vivi e ignoti concetti che Jung scambia per “archetipi in sé”, Eccles li scambia infatti per “psiconi”.

 

Tutto questo, comunque, dimostra almeno due cose: 1) che tanto è vera, viva e operante la realtà dei concetti che anche la moderna ricerca scientifica finisce, ogni tanto, per imbattervisi; 2) che tanto è vero quello che dicevamo a proposito dello squilibrio, nella scienza attuale, tra lo sviluppo delle capacità di osservazione e quello delle capacità di pensiero, che quando essa s’imbatte nella realtà dei concetti non è poi in grado di pensarla o di riconoscerla come tale.

 

In tutti i casi, teniamo ben presente che una cosa è l’immagine percettiva, altra la rappresentazione e altra ancora il concetto. Se la prima è infatti tridimensionale (poiché si dà nello spazio) e la seconda bidimensionale (poiché si dà nell’anima), la terza è invece unidimensionale (poiché si dà nello spirito).

Nell’esperienza quotidiana, ciò che più si avvicina alla realtà qualitativa del concetto è la nota musicale. Il legame originario tra i concetti, che Goethe direbbe fondato sulle “affinità elettive”, è infatti fondato, ancor più profondamente, sull’“armonia”: su quella, ossia, che s’indicava, un tempo, quale “armonia delle sfere” (“Cerco – diceva Mozart – due note che si amano”).

 

Quando parla dell’esperienza del concetto, anche Scaligero parla dell’esperienza di un nucleo di forza o di un germe di volontà sempre pronto a sprigionarsi non appena venga toccato o stimolato dalla percezione. La funzione di quest’ultima, del resto, è appunto quella di estrapolare, da quell’insieme costituito dal mondo dei concetti, il singolo concetto. A tale proposito, sentite cosa dice Hegel, nella Enciclopedia delle scienze filosofiche: “Il Sensibile viene innanzitutto spiegato in base alla sua origine esteriore, cioè in base ai sensi o agli organi di senso. Sennonchè, la semplice denominazione dell’organo di senso non ci fornisce nessuna determinazione relativa a ciò che viene colto mediante tale organo. Ora la differenza del Sensibile rispetto al pensiero è posta in base a quanto segue. La determinazione del Sensibile è la Singolarità, e, poiché il Singolare (del tutto astrattamente l’atomo) si trova anche in una certa connessione, ecco che il Sensibile è un’Esteriorità reciproca le cui forme astratte più prossime sono la giustapposizione e la successione”.

 

Ebbene, non abbiamo detto in precedenza che la “giustapposizione” (nello spazio) e la “successione” (nel tempo) sono le uniche “immediate” connessioni che possono stabilirsi tra i dati forniti dalla percezione? Ciò che più importa rilevare, comunque, è che la percezione, in tanto riesce a strappare il singolo concetto dal suo mondo, e quindi a individuarlo, in quanto la determinazione del sensibile – come dice Hegel – è appunto la “singolarità”.

Ma riprendiamo la lettura. Dice Steiner:

 

“La rappresentazione sta dunque in mezzo fra percezione e concetto. È il concetto determinato, legato alla percezione. Io posso chiamare mia esperienza la somma di tutto quello di cui posso formarmi delle rappresentazioni (…)

Il viaggiatore che non adopera il pensiero e il dotto che vive in sistemi astratti di concetti sono ugualmente incapaci di acquistare una ricca esperienza. La realtà ci si presenta come percezione e concetto; l’immagine soggettiva di questa realtà ci si presenta come rappresentazione” (p.90).

 

 

L’esperienza umana è dunque tanto più ricca quanto più ricco è il numero delle rappresentazioni: ovvero, di ciò che si dà nell’anima quale risultato dell’incontro tra il corpo (il percepire) e lo spirito (il pensare). Non possiamo perciò considerare pienamente umana né l’esperienza del percepire senza il pensare, né quella del pensare senza il percepire. La scienza dello spirito non ci educa quindi né all’amore della realtà priva d’idee (tipico dei realisti ingenui o primitivi) né all’amore delle idee prive di realtà (tipico degli idealisti o dei sognatori).

 

Dal punto di vista psicologico, il “viaggiatore” e il “dotto” menzionati da Steiner di nuovo ci ricordano, rispettivamente, il tipo “estroverso” e quello “introverso” di Jung. Nei termini della medicina antroposofica, il primo è il tipo “stenico”, il secondo quello “astenico”. Per quel che qui c’interessa, basterà dire che il primo tende istericamente a “fare” anche quanto dovrebbe pensare, mentre il secondo tende ossessivamente a “pensare” anche quanto dovrebbe fare. Nel caso dello “stenico”, la volontà naturale (o brama), tende infatti a oscurare o deformare il pensiero intellettuale (dando magari luogo alla cosiddetta “pseudologia fantastica”); in quello dell’“astenico”, il pensiero intellettuale tende invece a soffocare o irretire la volontà naturale.

Ciò conferma dunque che la sintesi di percezione e concetto può essere positivamente operata solo dall’Io: solo da un soggetto, cioè, che sia al di là dei condizionamenti tipologici o caratteriali. Si deve d’altronde ricordare che la categoria del “tipo” o della “specie” è una categoria animale e non umana. Qualcuno si aspetta forse che i castori tessano delle tele o che i ragni costruiscano delle dighe? Non credo. Per ogni animale, la “specie”, in quanto specializzazione, costituisce infatti un limite naturale e inderogabile.

Dunque, l’“astenico”, portato per natura a privilegiare il pensiero, e lo “stenico”, portato per natura a privilegiare la percezione, mai potrebbero portarsi al di là del proprio “tipo” o della propria “specie” (e quindi al di là delle proprie tendenze e opinioni) se, in quanto uomini e non animali, non fossero un Io. In effetti, l’equilibrio che tutti ricerchiamo è anzitutto l’equilibrio tra il pensare e il volere. Gli equilibri o gli squilibri si manifestano infatti nella sfera del sentire, ma non è in questa che nascono. Se prevale, ad esempio il polo dell’intelletto, il sentire si raggela; se prevale quello della volontà (naturale), si surriscalda.

 

Risposta a una domanda

La memoria interviene nel momento stesso in cui si forma la rappresentazione che “fissa”, per così dire, il concetto. Dovremmo tuttavia distinguere “il ricordo in sé”, così come viene custodito nella memoria, dalla “rappresentazione mnemonica” che ce ne facciamo tutte le volte che lo rievochiamo o riportiamo alla coscienza. Allorchè ricordiamo o rivediamo le nostre esperienze trascorse, altro infatti non facciamo che ricondurre alla coscienza e al presente, in forma d’immagine, quanto continuerebbe altrimenti ad albergare nell’inconscio e nel passato, in forma di concetto.

 

C’è poi da dire, a parte il problema della memoria, che anche le rappresentazioni possono evolversi e svilupparsi. Ma questa evoluzione o questo sviluppo delle rappresentazioni altro non è che l’evoluzione e lo sviluppo della vita dell’anima. L’Io mira infatti a raggiungere la sua stessa realtà, ma sa che, per farlo, deve prima raggiungere quella delle idee in sé.

Una cosa è infatti l’evoluzione formale di una rappresentazione, altra il suo trascendimento. Pensate, ad esempio, all’acqua messa a bollire sul fuoco. Una cosa è il progressivo aumento della sua temperatura, altra il suo passaggio, al raggiungimento dei cento gradi, dallo stato liquido a quello gassoso. Per capire il modo in cui può essere trasceso il rappresentare, occorre dunque pensare a un processo analogo a quello mediante il quale una sostanza solida si trasforma prima in sostanza liquida e poi in sostanza aeriforme o gassosa.

Il concetto si dà infatti,

• sul piano rappresentativo, allo stato solido (spaziale),  • su quello immaginativo, allo stato liquido (temporale)

• e su quello ispirativo, allo stato aeriforme o gassoso (qualitativo).

 

Ricordo di aver letto una volta queste parole: “La fedeltà è l’amore che dura, il riflesso dell’eterno nel tempo degli uomini”. Ebbene, cos’altro è appunto la fedeltà, se non l’amore come “tempo”? E cosa sono l’accordo e l’armonia (quei soli suoni – dice Scaligero – che “incantano il serpente”), se non l’amore come “qualità”?

È vero, dunque, che dell’amore possiamo farci rappresentazioni più o meno elevate, ma è altrettanto vero che se vogliamo arrivare a congiungerci “intuitivamente” con l’Essere stesso dell’amore, dobbiamo sperimentare prima la sua continuità grazie all’immaginazione, e poi la sua qualità in virtù dell’ispirazione.

Insomma, mentre siamo noi, all’inizio, a farci una rappresentazione dell’amore, è l’amore, alla fine, a fare di noi una sua rappresentazione, una sua icona o una sua incarnazione.