18° Incontro

Amor, che ne la mente mi ragiona.


 

Continua il sesto capitolo

 

Abbiamo fin qui messo in evidenza come il problema della conoscenza sia un problema esclusivamente umano. Abbiamo visto che è l’uomo a dividere l’essenza dell’oggetto in percetto e concetto, e a ricomporla poi, nella sua anima, in forma di rappresentazione. Oggi cercheremo invece di evidenziare come la rappresentazione così ottenuta entri in rapporto nell’anima umana con la vita del sentire.

 

Dice infatti Steiner:

 

“Se la nostra personalità si estrinsecasse soltanto nella conoscenza,

l’intero mondo dell’oggettivo ci sarebbe dato in percezione, concetto e rappresentazione.

Ma noi non ci contentiamo di collegare, con l’aiuto del pensare, la percezione col concetto,

ma la colleghiamo anche con la nostra particolare soggettività, col nostro io individuale.

L’espressione di questo collegamento individuale è il sentimento, che si esplica come piacere o dispiacere”

(pp.90-91).

 

 

Possiamo avere dunque rappresentazioni che sentiamo piacevoli o simpatiche ed altre che sentiamo al contrario spiacevoli o antipatiche. Mi esprimo a bella posta così perché sono proprio la simpatia e l’antipatia a svolgere, nella vita del sentire e dell’anima, la medesima funzione che la diastole e la sistole svolgono nella vita del cuore, o che l’inalazione e l’esalazione svolgono in quella dei polmoni. Se si scende verso il corpo, simpatia e antipatia si danno come piacere e dolore (e quindi come sensazioni); se si sale viceversa verso lo spirito, si danno come amore e odio (e quindi come “forze morali”).

 

Dice ancora Steiner:

 

 

“Il pensare è l’elemento per mezzo del quale ci mescoliamo al divenire generale del cosmo; il sentire è quello per cui possiamo ritirarci entro i limiti del nostro proprio essere. Il nostro pensare ci unisce all’universo; il nostro sentire ci riconduce in noi stessi, ed esso soltanto fa di noi degli individui (…)

Si potrebbe essere tentati di vedere nella vita del sentimento un elemento più saturo di realtà che non l’osservazione pensante del mondo. A questo bisogna ribattere che soltanto per il mio individuo la vita del sentimento ha effettivamente tale maggiore importanza. Per l’universo la mia vita di sentimento non ha valore altro che se il sentimento, come percezione fatta sul mio sé, viene collegato con un concetto e per tale via si inserisce nel cosmo” (p.91).

 

 

Abbiamo già detto, al riguardo, che il sentire è normalmente “intransitivo” o (come direbbe Freud) “narcisistico”, mentre il pensare è normalmente “transitivo” o (come direbbe sempre Freud) “oggettuale” poiché si lascia assorbire dall’oggetto fino al punto di dimenticarsi di sé. Questo, essenzialmente, è un movimento d’amore.

Non è così per il sentire. Questo infatti ci riconduce sempre e soltanto a noi stessi. Mettiamo che voglia sapere qualcosa di un film e, interrogato un amico che lo ha appena visto, mi senta rispondere che l’ha trovato bello o brutto. Ecco che l’amico mi parla appunto di sé (di ciò che ha sentito e provato) e non del film: che mi parla ossia della sua reazione all’oggetto (del suo piacere o dispiacere), e non dell’oggetto. A me, che volevo sapere qualcosa del film, egli parla dunque di sé (di ciò che ha sentito e provato) e non del film. Come si vede, stando nel sentire stiamo al centro della soggettività. Dice infatti Steiner che il sentire “ci riconduce in noi stessi”, e che è grazie a esso che “possiamo ritirarci entro i limiti del nostro proprio essere”.

 

Potremmo, in virtù del percetto e del concetto, “ritirarci entro i limiti del nostro proprio essere”?

No, perché tanto l’uno che l’altro – come ormai sappiamo – sono “mondo”. Potremmo farlo allora grazie alla rappresentazione? Sì e no, perché nella rappresentazione, in quanto trait d’union tra noi e il mondo, siamo presenti noi, ma è presente anche il mondo. Solo quando la rappresentazione viene “investita” dal sentire entriamo dunque in pieno nella sfera della nostra soggettività, e veniamo quindi riportati interamente a noi stessi.

 

L’anima è una, ma la scienza dello spirito – come sapete – distingue al suo interno tre sfere: quella senziente, che confina in basso col corpo; quella razionale o affettiva, che si trova al centro; quella cosciente, che confina in alto con l’Io. Ebbene, proprio la sfera centrale (quella razionale o affettiva) ci viene indicata da Steiner come l’”anima dell’anima”. È qui, infatti, che la vita dell’anima manifesta nel modo più spiccato le caratteristiche della vita del sentire. Questa, peraltro, è una delle ragioni per le quali la via indicataci da Steiner non può essere definita “mistica”. Basandosi sul sentire, la via mistica può permettere infatti un’esperienza animica (o sognante) dello spirito, ma non una esperienza spirituale (o pienamente vigile) dello stesso.

 

Fatto si è che il mondo cerca sé stesso nell’anima umana e l’anima umana cerca sé stessa nello spirito (nell’Io).

Da questo punto di vista, è forse un bene (o quantomeno un segno di pudore) che, sul piano scientifico, si parli oggi di “psiche” e non più di “anima”. Dell’anima, infatti, abbiamo ormai perso ogni cognizione. Certo, anche la psiche è anima, ma è un’anima impoverita o mortificata dalla vita del corpo. Bisogna fare attenzione, però, perché se è vero, per un verso, che la vita del corpo impoverisce o mortifica quella dell’anima, è anche vero, per l’altro, che la vita dell’anima impoverisce o mortifica quella del corpo. A quest’ultimo proposito, vale ad esempio considerare che mai sarebbe nata la cosiddetta “medicina psicosomatica” se non ci si fosse in qualche modo resi conto che un’eccessiva intrusione della vita dell’anima in quella del corpo può produrvi degli effetti patologici.

 

In realtà, la vita della psiche non è che la “cassa di risonanza” della vita del corpo. Ciò vale in primo luogo per le sensazioni. Oggi siamo particolarmente avidi di sensazioni forti; senza di esse non riusciamo a sentirci vivi. Il che vuol dire che chiediamo al corpo di colmare il vuoto dell’anima. Lo costringiamo così a un “pluslavoro” che non soltanto lo affatica e lo logora, ma che oltretutto non risolve, se non momentaneamente, la cronica insoddisfazione dell’anima.

“Chi beve di quest’acqua – dice a questo proposito il Cristo – tornerà ad avere sete; chi invece berrà l’acqua che gli darò io, non avrà più sete in eterno”.

 

Scaligero sostiene, in uno dei suoi libri, che la gioia di esistere dovrebbe trasformarsi nella gioia di essere. In effetti, chi gode della gioia di essere non dipende da quella dell’esistere e può quindi, beneficiarne o meno, a seconda delle circostanze (“un ricco Essere – dice appunto Friedrich Georg Jünger – è conciliabile con un Non-avere”); chi gode della gioia di esistere fa di contro dipendere, da questa, quella dell’essere, e deve quindi beneficiare costantemente della prima se vuole assaporare la seconda.

 

Al riguardo, dice ancora il Cristo: “V’ho detto queste cose, affinché in voi dimori la mia gioia, e la gioia vostra sia piena”. Chi cerca infatti la Sua gioia (quella di essere), ha anche quella dell’esistere (che la rende “piena”) proprio perché non la ricerca né la pretende. Chi cerca invece non la Sua gioia, ma quella di questo esistere o di questo mondo, teme in realtà di essere: di essere, cioè, l’essere o l’uomo che è. Quale delle nostre solite gioie (ammesso che se ne diano e che, proprio a causa della loro mancanza, non ci si senta invece frustrati o depressi), può essere infatti detta propriamente “umana”? “Cumannari – si dice ad esempio in Sicilia – è megghiu i futtere”. Già, ma anche ammesso che vi sia qualcuno convinto del contrario, è questa forse un’alternativa tra due gioie propriamente “umane”? E che dire poi di quelle che derivano dalla ricchezza, dalla notorietà, dal successo professionale, dal prestigio sociale, se non addirittura dal mangiare o dal bere?

 

Sarà bene avere presente tutto questo perché il cammino di conoscenza indicatoci da Steiner è l’unico che possa consentire all’anima di risalire davvero la china lungo la quale è gradualmente scivolata e affondata nel corpo. Ma questo risalire dell’anima – non mi stancherò di ripeterlo – è una guarigione e dell’anima e del corpo. Per godere di quelle sensazioni che ci fanno sentire vivi, e che non servono quindi al corpo, ma alla psiche, finiamo infatti col ridurre il nostro corpo a “capro espiatorio”. Ove tuttavia considerassimo che il corpo – come abbiamo avuto già occasione di dire – è lo spirito visto dall’esterno e che lo spirito è il corpo visto dall’interno, ci renderemmo conto che il corpo non avrebbe invero bisogno che di essere lasciato alla sua sana e santa vita biologica (eterico-fisica), e di essere perciò liberato da quella vita psichica che, alla stregua di un parassita, vi attecchisce e ne stravolge (per eccesso o per difetto) le funzioni.

 

Volendo illustrare questo stato di cose, potremmo ricorrere ai due seguenti schemi:

1) Spirito                         1) Spirito

2) Anima

3) Corpo                          2-3) Anima-Corpo

 

Lo schema di sinistra rappresenta – per così dire – la “fisiologia” umana, quello di destra la sua “patologia”. Nel primo, vedete infatti che l’anima sta al proprio posto, tra lo spirito e il corpo; nel secondo, vedete invece che sta sullo stesso piano del corpo, al quale si sovrappone, allontanandosi in pari misura dallo spirito.

Ricordo, in proposito, che una volta un mio amico psichiatra, al termine di una discussione di carattere “metapsicologico” (esistono infatti dei Saggi sulla metapsicologia di Freud), se ne uscì proprio così: “Insomma, per me la psiche è un epifenomeno del corpo e lo spirito è trascendente”. Ebbene, una convinzione del genere non corrisponde esattamente allo schema di destra? Quando mai, infatti, si parlerebbe della psiche come di un “epifenomeno” del corpo se non ci si trovasse appunto in una simile condizione morbosa? E quando mai si parlerebbe dello spirito come di una realtà “trascendente” se l’anima, immergendosi nel corpo, non se ne fosse di fatto allontanata?

 

Questa, tuttavia, non è che una malattia storica o, per meglio dire, evolutiva. “Questa – dice infatti il Cristo, alludendo a Lazzaro – non è una malattia da morirne, ma è per la gloria di Dio, affinché il Figlio di Dio ne sia glorificato”. Ciò vuol dunque dire che – al pari di tutte quelle che si dicevano una volta di “crescenza” – è una malattia che è bene prendere (checché ne pensi Lucifero), ma dalla quale (checché ne pensi Arimane) è anche bene guarire.

 

Non è comunque possibile sanare l’anima se non si ha in vista la realtà immanente dello spirito. Pensate, al riguardo, a tutte quelle fiabe o leggende che narrano di una fanciulla e di un cavaliere che la libera dal mostro che la tiene prigioniera. Non indicano forse ch’è compito appunto dello spirito (del cavaliere) quello di liberare l’anima (la fanciulla) dal mostro (dal corpo)? Quel ch’è più interessante, però, è che alla fine di molte di queste storie (valga per tutte quella de La bella e la bestia) si scopre che il mostro è in realtà un principe ch’è stato a suo tempo ammaliato e reso ripugnante da una strega. Ciò conferma quindi che il corpo, ove non intervenisse la psiche (la strega) a corromperlo (a trasformarlo in una bestia o in un mostro), sarebbe ben altra cosa (un principe). In questo senso, la psiche corrisponde a quell’aspetto tenebroso dell’anima che il mito ci presenta quale Iside-Ecate e al quale contrappone quello luminoso della Iside-Sophia.

 

Pensate ancora, a quest’ultimo proposito, alla Beatrice di Dante. Jung la considera un’immagine dell’anima “psicopompa”: ossia, dell’anima che ci “guida”; già, ma dove potrebbe mai guidarci se, al di là di quelle del corpo e dell’anima, non esistesse – come crede Jung – nessun’altra realtà? E chi mai sceglierebbe una guida che, anziché aiutarlo a raggiungere la vetta della montagna, lo portasse a casa sua? Ne La Divina Commedia, Beatrice è davvero “psicopompa” poiché conduce Dante a Dio; non può invece esserlo nella psicologia junghiana, dove manca una chiara distinzione tra il regno dell’anima e quello dello spirito.

 

Come vedete, Steiner ha ben ragione di dire che, volenti o nolenti, siamo tutti figli di quel decreto del Concilio di Costantinopoli (dell’869 d.C.) che dichiarò “ortodossa” la dottrina che vede l’uomo costituito di corpo e anima ed “eterodossa” (o “eretica”) quella che lo vede invece costituito di corpo, anima e spirito.

Sentite quanto dice appunto, alla voce “Spirito”, questo recente Dizionario di teologia (cattolica): “La finitezza dello spirito umano si manifesta principalmente nell’essere egli legato necessariamente all’incontro, frammentario e imprevedibile, con ciò che gli è altro ed estraneo e quindi al suo corpo come punto medio fra soggetto ed oggetto. Lo spirito umano non è quindi “puro spirito”, ma essenzialmente “spirito-anima””.

Questa negazione “teologica” dell’immanenza dello spirito, sta però già da tempo producendo – come sarebbe stato del resto possibile prevedere – quella “scientifica” dell’anima. Una volta eliminato il cavaliere, si danno infatti ben poche speranze che la fanciulla non finisca prima o poi vittima del mostro che l’imprigiona.

 

Nel passo di cui ci stiamo occupando, Steiner dice “che si potrebbe essere tentati di vedere nella vita del sentimento un elemento più saturo di realtà che non l’osservazione pensante del mondo”. In effetti, noi pensiamo il mondo, ma non lo sentiamo: ovvero, non sentiamo la realtà del mondo, del concetto o dell’idea che pensiamo, bensì sempre e soltanto la nostra. Come potremmo sentire, d’altro canto, la realtà di ciò che pensiamo se questa stessa realtà non riusciamo nemmeno a pensarla? Se il concetto è “mondo”, sentirlo significherebbe infatti sentire il mondo, sentirlo più profondamente come anima o qualità. Allora sì che la vita del sentimento avrebbe valore, – come dice Steiner – non più soltanto per me, ma per l’intero universo.

 

Dovremmo immaginare il nostro sentire come una specie di organo di senso che, essendo ancora ripiegato su di sé, ci consente di sentire la qualità delle nostre soggettive reazioni agli stimoli che provengono dal mondo (l’Anima mundi), ma non quella oggettiva degli stessi. È su questo piano, in realtà, e non su quello del pensiero, che l’insegnamento di Kant mostra di corrispondere abbastanza bene alla realtà (quale critica, non della “ragion pura”, ma del “sentire impuro”).

 

In effetti, solo per mezzo di adeguati esercizi interiori possiamo riuscire a “raddrizzare” il sentire, e a orientarlo così verso il mondo (dice infatti il Battista: “Raddrizzate la via del Signore…”). Solo un sentire “transitivo” può consentire al calore del volere di emanciparsi dalle tenebre della psiche e di ritrovare la luce dell’anima. Ma ciò riguarda anche il mondo: fintantoché rimaniamo legati alle nostre personali opinioni (o rappresentazioni), noi infatti lo tradiamo: lo tradiamo perché, non donandogli la nostra anima, impediamo al mondo di sentirsi in noi, e a noi stessi di sentirci nel mondo. In effetti, quel movimento d’amore, di cui è già espressione il pensare, attraverso il sentire s’intensifica e si approfondisce, approssimandosi in tal modo a quel volere in cui più direttamente si manifesta e si esprime l’Essere stesso dell’amore.

Dice Steiner:

 

“La nostra vita è una continua oscillazione pendolare

fra la comunione col divenire generale del mondo e la nostra esistenza individuale” (p.91).

 

 

Quando dormiamo, ad esempio, entriamo appunto in “comunione col divenire generale del mondo”, mentre, quando vegliamo, entriamo in rapporto con la “nostra esistenza individuale”. Ciascuno di noi, dunque, non è mai interamente e continuamente dedito al primo o al secondo di questi due rapporti. Va tuttavia ricordato che, dal punto di vista tipologico o caratteriale, si può quasi sempre riscontrare un prevalere dell’uno sull’altro. Infatti, gli “stenici” (cioè coloro che, ammalandosi, diventano “isterici”) sono prevalentemente in preda alla “simpatia” per sé stessi, mentre gli “astenici” (cioè coloro che, ammalandosi, diventano “ossessivi”) sono prevalentemente in preda all’“antipatia” per il mondo. Sul versante isterico, si osserva quindi una soggettività temerariamente estroversa, esibita e invasiva, mentre su quello ossessivo si osserva una soggettività timorosamente introversa, inibita ed evasiva.

Dice ancora Steiner:

 

“Quanto più in alto saliamo verso la natura universale del pensare,

nella quale alla fine ciò che è individuale non ci interessa più che come esempio,

come esemplificazione del concetto,

tanto più si perde in noi il carattere dell’essere particolare, della singola ben determinata personalità” (pp.91-92).

 

 

Leggendo l’autobiografia di Steiner (La mia vita), o quella di Scaligero (Dallo Yoga alla Rosacroce), noterete appunto che entrambi mettono in risalto la propria storia o il proprio divenire spirituale e che le loro vicende personali (quelle che tanto appagano la nostra attuale e morbosa curiosità) o sono taciute o sono riferite – come dice Steiner – a mero titolo d’esempio.

 

Per quanto riguarda l’evoluzione dell’anima, nell’ultimo passo di Steiner vi è comunque un’indicazione assai precisa. Vedete, Jung parla, a questo proposito, di un “processo d’individuazione”: ovvero, del processo grazie al quale – per dirla con Nietzsche – “si diventa ciò che si è”. Secondo Jung, tuttavia, tale processo equivarrebbe a quello in virtù del quale un garofano diventa un garofano o una mucca diventa una mucca. Ma se si trattasse – vorremmo chiedergli – di un processo naturale (e per ciò stesso inconscio) a cosa servirebbero allora lo studio, l’analisi del profondo, l’interpretazione dei sogni e la presa di coscienza? E come mai, poi, tutti i garofani diventano garofani e tutte le mucche diventano mucche, mentre ben pochi esseri maschili e femminili diventano “umani”? Orbene, Jung ha distinto, sì, l’evoluzione della prima metà della vita da quella della seconda, ma non ha inteso che il cosiddetto “processo d’individuazione” può semmai riguardare la prima, non la seconda. Che Jung sia stato tutt’altro che chiaro al riguardo, può dimostrarlo anche il fatto che alcuni dei suoi più importanti seguaci (per fare un solo nome, Ernst Bernhard) non solo hanno collocato tale processo nella seconda metà della vita, ma lo hanno confuso, più o meno esplicitamente, con un processo di “iniziazione”.

 

In realtà, è proprio durante la prima metà della vita (o perlomeno nel corso della cosiddetta “età evolutiva”) che potrebbe parlarsi, volendo, di un “processo d’individuazione”. Nell’infanzia, non siamo infatti degli “individui” poiché non godiamo ancora di una coscienza dell’Io, bensì di una coscienza collettiva, famigliare o di gruppo. Quella, appunto, dalla quale si verrà in seguito e progressivamente differenziando la coscienza dell’Io quale “ego” autonomo e indipendente. Se il cammino della prima metà della vita è dunque il cammino che conduce dall’Io all’ego, quello della seconda metà è viceversa il cammino che conduce dall’ego all’Io. Ricordo che Scaligero mi disse appunto, una volta: “Nessuno può diventare un Io, se prima non è stato un ego”.

 

Non si creda, tuttavia, che il cammino iniziatico che conduce dall’ego all’Io, cancelli o annulli l’individualità. Certo, non è facile dar conto in poche parole di un fatto del genere perché non siamo affatto abituati a distinguere tra la singolarità (l’individualità corporea), la soggettività (l’individualità animica) e l’individualità vera e propria (quella spirituale). Possiamo comunque affermare che il cammino iniziatico universalizza, per un verso, l’ego e individualizza, per l’altro, l’Io.

 

 

“Una vera individualità – dice Steiner –

sarà quella che più si solleva coi suoi sentimenti nella regione dell’ideale” (p.92).

 

 

Proprio per questo abbiamo detto che le idee, dopo aver imparato a pensarle, dovremmo imparare a sentirle. Vedete, l’idea è in realtà un essere (un’entità) che non ha, a differenza di noi, un corpo fisico, ma che ha, come noi, un corpo eterico, un corpo astrale e un Io: cioè a dire, una vita, un’anima e uno spirito. L’intelletto, di questo essere, sa però cogliere soltanto l’immagine riflessa (la rappresentazione). Quest’ultima è dunque congeniale alla natura fisica dell’uomo (a quella dell’apparato neuro-sensoriale e, in specie, della neocorteccia), ma non è congeniale alla natura dell’idea che, quale suo arto inferiore, ha un corpo eterico (vivente), e non un corpo fisico (morto). Se si vuole cogliere direttamente l’essere vivente dell’idea, occorre perciò portarsi oltre l’intelletto (laddove il pensare non si dà più come rappresentare, bensì come immaginare).

 

Questo, tuttavia, pur essendo un passo importante (se non per molti versi decisivo), non ci mette ancora in grado di cogliere l’anima e lo spirito dell’idea. Ove parlassimo, tanto per fare un esempio, di funghi e non d’idee, un simile passo ci consentirebbe infatti di distinguere i funghi finti (morti) da quelli veri (vivi), ma non ancora, tra quelli veri (vivi), i funghi commestibili da quelli velenosi. Qui non ci troviamo più dunque sul piano della vita, bensì sul piano della qualità: su quello, cioè, in cui ci si può orientare solo se si è capaci di un qualche “discernimento degli spiriti”. In breve, si tratta di sperimentare il valore di un’idea prima sul piano conoscitivo o del pensare (quale verità), poi su quello estetico o del sentire (quale bellezza) e infine su quello morale o del volere (quale bene o bontà). Una cosa, ad esempio, è la bellezza, altra la bellezza della verità. La qualità della prima è infatti una qualità luciferica, e quindi una forza ostacolatrice.

 

Ciascuno di noi farebbe perciò bene ad adottare, nei confronti della vita ordinaria dei propri sentimenti, un atteggiamento di “legittima suspicione”. So che una raccomandazione del genere può risultare a prima vista sgradevole. Ove si consideri, tuttavia, che il Pathos, quale espressione della unione o dell’armonia tra il Logos e l’Eros, è cosa assai diversa dal Pathos quale espressione della divisione o della disarmonia tra gli stessi, ben si comprende allora quanto sia opportuno, soprattutto all’inizio del cammino, non fidarsi troppo dei propri gusti o delle proprie simpatie e antipatie.

 

Immaginate, ad esempio, che io venga a sapere dal dietologo che proprio il cibo di cui sono più ghiotto danneggia il mio organismo. È vero che ho così preso coscienza di una cosa che prima ignoravo, ma è anche vero che il cibo in questione non cesserà per questo di piacermi; è probabile, anzi, che riesca soltanto a “malincuore” a eliminarlo dalla dieta, e che questa decisione mi costi non poca fatica. Per raggiungere questo scopo, dovrò fare perciò affidamento sul volere e non sul sentire.

 

Vorrei fosse chiaro, comunque, che il cammino di cui stiamo parlando non mira affatto a “mortificare la carne”, bensì a “redimerla” o a farla “risorgere”. Il sostegno del volere al pensare sarà infatti provvisorio poiché, se ciò di cui abbiamo preso coscienza risponde a verità, si può allora esser certi che il sentire, presto o tardi, apprezzerà il nostro cambiamento, trasformando così l’iniziale senso di “dovere” in un finale senso di “piacere”.

 

Un’operazione del genere non ha nulla a che fare – s’intende – con quell’attività del volere nel pensare che caratterizza l’immaginazione. Ci siamo serviti di questo esempio solo per evidenziare il fatto che, soprattutto all’inizio del nostro lavoro spirituale, non possiamo fidarci più di tanto del nostro solito sentire. Ricordiamoci, infatti, che l’autentico sentire umano si è eclissato nel momento stesso in cui il pensare e il volere si sono separati, e che potrà tornare quindi a risplendere solo nel momento in cui il pensare e il volere si riuniranno. Ho detto “risplendere”, ma avrei fatto meglio a dire “risuonare”, poiché l’esperienza del sentire originario è in realtà un’esperienza musicale: quella appunto di cui parla Scaligero in specie nel Dell’amore immortale, nel Graal e nell’Iside-Sophia.

 

Avendo presente che in tale musicalità o armonia si manifesta la natura più vera e profonda dell’anima, ascoltate quanto si dice, al riguardo, nell’Iside-Sophia: “L’anima soffre sulla terra, attraversata da istinti e passioni, che di continuo distruggono il suo veicolo eterico-fisico. Soffre perché, aperta all’Io solo nell’astratto pensiero, viene dominata radicalmente dalla brama delle cose che appaiono. Ove possa liberarsi di questa brama, ove, aprendosi all’Io nel pensiero puro, ritrovi l’essere attraverso l’apparire, essa sente risorgere dal profondo la potenza della dedizione, come trasformazione della brama. La brama ritorna volontà pura. Le forze più basse sono invero le più alte, capovolte. Le forze infere divengono nel profondo forze di evocazione di ciò che è in alto, forze di mediazione tra l’umano e il Divino, forze di preghiera, se vengono ricongiunte con la loro origine trascendente. Questa è l’esperienza della Vergine. La brama è volontà di Divino, inversa: non si tratta di eliminare la brama, ma di darle un oggetto divino: perché l’umano è naturalmente divino. La coscienza dialettica lo ignora, perché trae le sue forze dal subumano”.

 

La brama, dunque, “è volontà di Divino, inversa”. Si ricordi, però, che in tanto la volontà è “inversa” in quanto “inverso” è l’oggetto verso il quale il pensiero la invita a dirigersi. Il realismo ingenuo, ad esempio, proprio perché sa delle cose e non delle idee, brama le prime e non vuole le seconde. Il fatto che Steiner, ne L’iniziazione, parli più del pensare e del sentire e meno del volere dipende dunque dalla circostanza che il problema della brama (forza condannata a restare sempre insoddisfatta) riguarda direttamente il pensiero e solo indirettamente la volontà. Per dirla in gergo “burocratico”, è come se la volontà, svolgendo mansioni “esecutive”, chiedesse al pensiero, che svolge invece mansioni di “concetto”, di indicarle e assegnarle il compito al quale applicarsi. Ma quale compito può indicarle e assegnarle un pensiero che giudica “reale” solo il sensibile, se non quello di averlo o di possederlo?

 

Per fare ancora un esempio, è come se la volontà non potesse far altro che mettersi a tavola per mangiare quello che il pensiero le ha cucinato: se il pensiero le ha cucinato cose, mangia cose, se le ha cucinato idee, mangia idee. L’anima, tuttavia, può essere saziata soltanto dalle idee (nell’idea – dice Scaligero – l’uomo “afferra il Divino che muove il mondo”).

A ben vedere, la cosiddetta “umana ed eterna insoddisfazione” è quindi una “grazia” o una “benedizione”. Se il sentire fosse soddisfatto delle “cose” cucinate dal pensare e mangiate dal volere, saremmo infatti perduti. Per fortuna, l’insoddisfazione invece c’incalza, sollecitandoci a trovare, nel profondo, ciò cui l’anima invero anela.

 

Mi è capitato più volte di dire, a questo proposito, che la scienza dello spirito non insegna affatto quel che si “deve” volere. Se così facesse, non sarebbe infatti una via libera, bensì una via autoritaria o dispotica. Nessuno dovrebbe dire a un altro che cosa “deve” desiderare o volere, ma dovrebbe aiutarlo soltanto a scoprire che cosa realmente desidera o vuole. Ecco perché la scienza dello spirito è in primo luogo una via della conoscenza.

 

Quasi tutti, in verità, siamo più o meno insoddisfatti senza saperne il perché. Crediamo che ci manchi ora questo, ora quello, ma, dopo aver ottenuto l’uno e l’altro, ci accorgiamo che l’insoddisfazione si ripresenta. Il cosiddetto “disagio giovanile”, ad esempio, una volta lo si mette in conto alla società del “benessere” (a quella del boom economico) e un’altra a quella del “malessere” (a quella della crisi economica e della disoccupazione). Il problema del disagio o dell’insoddisfazione è però un problema, non di “quantità” o di “avere”, ma di “qualità” o di “essere”: non un problema del corpo, insomma, ma dell’anima (la qual cosa è più manifesta – ovviamente – in tutti quei casi in cui la quantità, l’avere e il corpo non destano soverchie preoccupazioni). Ma qual è quel pensiero che sa oggi “discernere” i più veri e profondi bisogni dell’anima e far proprie e difendere, alla stessa stregua di un cavaliere, le sue ragioni?

 

Riflettete, Steiner ci parla non tanto della “libertà di pensiero” quanto piuttosto della liberazione del pensiero: c’invita, cioè, non tanto a essere dei “liberi pensatori” quanto piuttosto dei pensatori liberi. Reclamare la “libertà di pensiero” (di “opinione”) è infatti sacrosanto, ma insufficiente. È come se un detenuto reclamasse la libertà di muoversi a piacimento all’interno del suo carcere. Ma quand’è che un detenuto potrebbe avanzare una richiesta del genere? Quando ignorasse di muoversi all’interno di un carcere. Allorché Steiner ci parla della “liberazione del pensiero” ci parla dunque, e anzitutto, della sua liberazione dal carcere degli organi di senso fisici.

 

Ricordate Prometeo, colui che – come indica il nome – “conosce prima”? In questo titano possiamo scorgere una prefigurazione dell’ego. A dispetto degli dei, o contro gli dei, egli era infatti considerato (come l’ego) un “benefattore dell’umanità” (cui si diceva che avesse donato, tra l’altro, l’intelletto). Tuttavia, come il pensiero dell’ego è incatenato agli organi di senso fisici, così Prometeo fu incatenato da Zeus a una roccia; e come la prigionia del primo si accompagna, in noi, a un cronico disagio esistenziale, così quella del secondo fu accompagnata da un’aquila che veniva, ogni giorno, a rodergli il fegato. Ma quel ch’è vieppiù interessante è che Prometeo fu liberato da Eracle e reso poi immortale dal Centauro Chirone. Ove si tenga presente che Prometeo è un “titano” mentre Eracle è un “eroe”, e che la figura del Centauro corrisponde a quella zodiacale del Sagittario, ben si vedrà dunque come il titanismo dell’ego (dell’Io riflesso e terreno) non possa essere riscattato che dall’eroismo dell’Io (dell’Io spirituale e cosmico). E dalla stessa roccia dalla quale Eracle dovette liberare Prometeo, non dovette forse Artù liberare la spada? La roccia rappresenta infatti il corpo fisico (e in specie il cervello), mentre la spada rappresenta il pensiero che vi si trova imprigionato e che deve appunto esserne liberato.

 

Per darvi un’idea ancor più viva di questa dipendenza del pensiero intellettuale dal sistema neuro-sensoriale, vorrei fare un altro esempio. Immaginate che, mentre state guardando uno spettacolo con un binocolo, un mago riesca, in virtù di un sortilegio, a far sì che non possiate più staccare gli occhi dal binocolo. Una cosa del genere appare di certo inverosimile, se non persino grottesca. Purtuttavia, si tratta proprio di quanto è successo a tutti noi. Come non riusciremmo, in tal caso, a staccare gli occhi dal binocolo, così non riusciamo, nella vita di tutti i giorni, a staccare il pensiero dal cervello e dai sensi. Certo, possiamo farlo dormendo, ma in questo caso, – come ben si sa – a parte i sogni, c’è poco da vedere.

Un esempio del genere, può anche aiutarci a capire che la soluzione del problema – secondo quanto abbiamo detto e ripetuto – non è gettare alle ortiche il binocolo (l’intelletto), bensì riguadagnare la libertà di servirsene o non servirsene.

 

Al riguardo, ho già raccontato, nei miei Dialoghi sulla libertà, un curioso episodio capitatomi molti anni fa. Stavo a letto, sul punto di spegnere la luce per dormire, quando mia moglie mi disse: “Ma che fai, dormi con gli occhiali?”; “Sì – risposi subito scherzando – perché voglio vedere bene i miei sogni!”. Mi tolsi poi gli occhiali, spensi la luce, ma, invece di addormentarmi, mi misi a pensare: “Come mai, in effetti, la miopia e l’astigmatismo non m’impediscono di vedere bene i miei sogni?”. Continuai a pensarci per un po’, e alla fine così conclusi: “Li vedo bene, perché non li vedo con gli occhi”. Devo confessare che questa fu, per me, una piccola grande scoperta. Voleva dire, infatti, che il vedere è indipendente dagli occhi e che può perciò servirsene o meno. Nel caso appunto dei sogni, non se ne serve.

 

A scanso di equivoci, tengo a ricordare che questa mia conclusione non viene affatto smentita dalla neurofisiologia. Probabilmente sapete che questa distingue un sonno cosiddetto REM (che sta per “rapid eyes movements”) da un sonno cosiddetto non-REM. Ebbene, i neurofisiologi ci dicono che i sogni si presentano, sì, solo nelle fasi del sonno REM (che si alternano con quelle non-REM), ma che i “rapidi movimenti oculari” che vi si riscontrano non servono – come si potrebbe pensare – a vedere o seguire i sogni.

 

Tornando dunque a noi, se il vedere è indipendente dagli occhi (se non sono cioè gli occhi a vedere, ma siamo noi a vedere attraverso gli occhi), ciò vuol dire allora che una cosa è l’attività sensoriale (l’astralità o la sensibilità), altra l’organo attraverso il quale viene veicolata. E se anche il pensiero fosse indipendente dall’organo (dal cervello) che normalmente lo veicola (lo riflette)? E se, per sperimentare il vedere indipendente dagli occhi, possiamo sognare, cosa potremmo fare per sperimentare invece il pensare indipendente dal cervello? Nulla – dobbiamo rispondere – che ci sia dato, come il sognare, dalla natura. Il telescopio o il microscopio ci sono forse dati dalla natura? No, ci sono dati dal lavoro dell’uomo. Ebbene, anche il pensiero immaginativo (quel primo livello di pensiero ch’è indipendente dal cervello fisico) deve esserci dato dal lavoro dell’uomo: ovvero, dal nostro lavoro su noi stessi.

 

Vedete, noi somigliamo, in fondo, a dei palombari che lavorano, all’interno del loro scafandro, sul fondo del mare. Il nostro scafandro è il corpo fisico e grazie a questo lavoriamo sulla terra. Mentre un palombaro, però, non dimentica mai di essere un uomo che indossa uno scafandro, noi ci siamo invece dimenticati di essere un Io (un’entità spirituale) che indossa un corpo fisico.

 

Per dire tutto questo, siamo partiti dal problema della brama. Tutti sappiamo che cosa sia e tutti più o meno la patiamo. Chi non la patisce, infatti, di solito vegeta o è depresso. Si tratta però di scoprire che la forza della brama è la forza dell’Io che cerca sé stesso e che non può placarsi finché non si sia trovato. Ma l’Io può trovarsi solo attraverso il pensiero. Come si vede, il problema è ancora una volta il “bramato”, e non il “bramare”.

 

“Una vera individualità – rileggiamo – sarà quella che più si solleva coi suoi sentimenti nella regione dell’ideale”. Solo un pensiero che sia capace di sollevarsi “nella regione dell’ideale” può quindi permettere al sentimento di fare altrettanto; e solo un ideale pensato e sentito (o sentitamente pensato) può infiammare la volontà e permettere così alla brama di tramutarsi – come dice Scaligero – in dedizione: in quella dedizione che, se non è un libero e gioioso dono di sé, è allora un nulla. Se ci si dona infatti per dovere, ci si sente poi più bravi e più buoni e si torna in tal modo a sé stessi. Quando lo si fa invece per amore non si pensa affatto a sé stessi, ma si sa solo che non si può agire altrimenti: ovvero, che non si può fare che quel che si fa, perché è quel che si fa che si ama.

 

Dice Steiner:

 

“Vi sono uomini nei quali anche le idee più generali di cui sono capaci portano ancora quella particolare colorazione che le mostra indiscutibilmente dipendenti dal loro portatore. Ve ne sono altri i cui concetti si presentano a noi così privi d’ogni traccia personale come se essi non provenissero da un uomo in carne ed ossa” (p.92).

 

 

Ecco qui di nuovo a confronto i caratteri “stenici” e “astenici”. I primi sono infatti quei tipi che non ricavano il calore dell’anima dalle idee viventi, bensì riscaldano le idee morte al fuoco della loro natura personale (o del sangue); i secondi sono invece quei tipi in cui l’impersonale freddezza dell’intelletto (o del nervo) finisce col pervadere tutta l’anima, se non tutto l’essere. In entrambi i casi, avendo preso il “tipo” il sopravvento sull’Io, non si esce dunque dall’egoismo.

 

In uno dei misteri drammatici di Steiner, Lucifero dice: “Uomo, pensa te e senti me”, mentre Arimane dice: “Uomo, senti te e pensa me”. Il primo presiede dunque all’egoismo del volere attraverso il sentire (il narcisismo) e il secondo all’egoismo del volere attraverso il pensare (il dogmatismo). Cosa direbbe invece il Cristo? “Uomo, pensa, senti e vuoi me, perché solo pensando, sentendo e volendo me, sarai te stesso”.

 

Dice infine Steiner:

 

“Il sentimento è il mezzo per cui, principalmente, i concetti acquistano vita concreta” (p.92).

 

 

Fate attenzione. Abbiamo parlato del pensare quale verbo, movimento o attività: ovvero, quale realtà vivente (eterica), ma non ancora animica (astrale). Ecco infatti Steiner dire che, mediante il sentimento, cioè mediante qualcosa di animico, sono i concetti (e non il pensare) ad acquistare “vita concreta”. I concetti vivono infatti nel corpo astrale, così come le stelle vivono in cielo.

Superfluo quindi ricordare che non si può penetrare coscientemente nel loro regno (nel goethiano “regno delle Madri”) e udire il risuonare della loro armonia se non ha prima acquistato “vita concreta” il pensare.