19° Incontro

Amor, che ne la mente mi ragiona.


 

Settimo capitolo

 

Cominceremo stasera l’ultimo capitolo della prima parte del libro.

Il suo titolo è costituito da una domanda (Esistono i limiti della conoscenza?)

per rispondere alla quale dovremo riprendere in considerazione alcune delle cose dette finora.

 

Dice Steiner:

 

“Abbiamo stabilito che gli elementi per la comprensione della realtà vanno tolti da due sfere: quella del percepire e quella del pensare. La nostra organizzazione richiede, come abbiamo visto, che la piena, intera realtà, ivi incluso il nostro proprio soggetto, ci appaia dapprima come dualità. La conoscenza supera tale dualità, in quanto dai due elementi della realtà, percezione e concetto elaborato dal pensare, mette insieme la cosa intera.

La maniera in cui il mondo ci si presenta prima che per mezzo della conoscenza esso abbia acquistato il giusto aspetto, la chiameremo mondo dell’apparenza, in contrapposto all’entità unitaria composta da percezione e concetto. Diremo allora che il mondo ci è dato come dualità (dualistico), e che la conoscenza lo trasforma in unità (monistico). Una filosofia che parta da questo principio fondamentale si può chiamare filosofia monistica o monismo. Le sta di fronte la teoria dei due mondi o dualismo.

Quest’ultimo non considera i due lati della realtà unitaria come tenuti separati semplicemente per effetto della nostra organizzazione, ma come due mondi assolutamente distinti l’uno dall’altro: e i principi esplicativi di uno dei due mondi li cerca poi nell’altro” (p.93).

 

 

Ebbene, possiamo qui di nuovo apprezzare la modernità dell’impostazione di Steiner. Cosa vuol dire che il dualismo “non considera i due lati della realtà unitaria come tenuti separati semplicemente per effetto della nostra organizzazione”? Vuol dire che il dualismo non è cosciente della “nostra organizzazione”, così come non ne sono coscienti quei sedicenti “monismi” che riducono materialisticamente il primo dei suoi due termini (il soggetto, lo spirito o la mente) al secondo, o ne riducono spiritualisticamente il secondo (l’oggetto, la materia o il corpo) al primo.

La qualità “antroposofica” dell’impostazione di Steiner è rivelata dal fatto che egli ci propone invece di riportare tali termini nell’ambito di un’organizzazione umana della cui struttura e del cui modo di funzionare occorre prendere coscienza. Vedete, quando capita che qualcuno mi chieda: “Tu credi alla reincarnazione?”, io rispondo subito: “No”. Tale “no”, tuttavia, non si riferisce – come potrebbe sembrare – alla “reincarnazione”, quanto piuttosto al “credere”. Io, infatti, non credo alle ripetute vite terrene, ma so delle ripetute vite terrene: ne sono cioè consapevole. Impostare in modo moderno un problema significa appunto impostarlo, non nei termini del “credere” o “non credere”, bensì in quelli dell’essere “coscienti” o “incoscienti”. Non a caso la psicoanalisi o psicologia dell’inconscio è nata verso la fine del secolo diciannovesimo, quasi in coincidenza con la fine della prima fase evolutiva dell’anima cosciente (1879): di quell’anima, ossia, che esprime nel modo più pieno i caratteri della cosiddetta “modernità”.

 

Ma la scoperta dell’inconscio – come ho detto a suo tempo, citando l’omonima opera di Ellenberger – è la scoperta, non di una “cosa”, bensì di un fatto riguardante il rapporto che il soggetto ha con sé stesso e col mondo. “La coscienza in generale – scrive Hegel, nella sua Propedeutica filosofica è la relazione dell’Io con un oggetto, sia esso interno o esterno”. Tale relazione, non più intesa in modo “generale”, può essere vigile (cosciente), sognante (subcosciente) o dormiente (incosciente). Qualora ad esempio, dopo averla da sempre e del tutto ignorata, mi capitasse di scoprire l’esistenza dei gatti, avrei con ciò scoperto appunto l’esistenza dei gatti e non dell’inconscio. I gatti non cessano infatti di essere tali per il fatto che io ne ignoro l’esistenza. Dovremmo parlare d’incoscienza, insomma, solo quando ci riferiamo a un particolare stato della nostra coscienza in rapporto al suo stesso essere e a quello del mondo.

Per conquistare l’autocoscienza, l’uomo ha dovuto comunque “rimuovere” – in senso freudiano – la realtà dello spirito (ossia calarla provvisoriamente nell’incoscienza). È la realtà (autopercettiva) del corpo a dare infatti all’Io l’opportunità di pensarsi come un “ego” libero e indipendente: ovvero, come un essere singolo e per ciò stesso diverso non solo da tutte le cose del mondo, ma anche da tutti gli altri “ego”. Tuttavia, la fase evolutiva in cui l’ego (l’Io che ha coscienza di sé grazie al corpo fisico) ha sprigionato la sua forza propulsiva (che gli ha permesso, nel XV secolo, d’inaugurare l’individualismo e la modernità) si è ormai conclusa e avrebbe dovuto lasciare già il posto alla successiva: a quella, cioè, in cui l’Io ha coscienza di sé anche grazie al corpo eterico. Se è stato dunque necessario un tempo dimenticare lo spirito, è necessario ora invece ricordarlo, se si vuole evitare che, all’oblio dello spirito (divenuto ormai anacronistico), si accompagni quello dell’anima, e quindi di noi stessi. Il problema del dualismo non è quindi un astratto problema “teoretico”, bensì una vitale questione di progresso o regresso dell’autocoscienza.

 

Dice Steiner:

 

“Il dualismo riposa sopra una falsa concezione di ciò che chiamiamo conoscenza.

Divide tutta la sfera dell’essere in due campi, ciascuno dei quali ha le sue proprie leggi;

e li fa sussistere uno di fronte all’altro esteriormente.

Da un simile dualismo ha origine la distinzione, introdotta da Kant nella scienza e fino ad oggi non ancora bandita,

fra oggetto della percezione e cosa in sé” (pp.93-94).

 

 

Da qui in poi, si dovrà fare particolare attenzione perché non sarà facile seguire il testo senza avere ben presente la distinzione – da noi già proposta – tra l’“atto percettivo” (quale atto del soggetto), il “percetto” (quale oggettivo contenuto della percezione) e l’“immagine percettiva” (quale soggettivo risultato del processo percettivo).

Come abbiamo detto e ripetuto, il fenomeno della percezione consiste nell’incontro o nello scontro dell’essere del soggetto con l’essenza dell’oggetto. Non crediate che questo sia evidente.

Ne L’attrattiva Gesù, tanto per fare un esempio, don Luigi Giussani (ispiratore e fondatore di “Comunione e Liberazione”) confonde il giudicare col percepire e si dice per conseguenza convinto che sia il primo, e non il secondo, ad “accusare” o ricevere il “colpo dell’essere”. Il “colpo dell’essere” sta invece all’origine del processo percettivo, così come alla sua fine sta l’“immagine percettiva”. Tuttavia, la vera causa di molti fraintendimenti sta proprio nel fatto che è solo in virtù di questa finale immagine che noi prendiamo atto dell’esistenza dell’oggetto.

 

Alcuni infatti non si chiedono cosa ci sia nel mondo (corporeo e spirituale) prima che si formi in loro (nell’anima) tale immagine; altri invece se lo chiedono, ma non sanno cosa rispondere. Facendo parte di questa seconda schiera, Kant distingue appunto – come ricorda Steiner- “fra oggetto della percezione e cosa in sé”. Ma se non è la “cosa in sé”, cos’è allora l’“oggetto della percezione”? Non può essere altro – è chiaro – che l’“immagine percettiva”. Indicare quest’ultima quale “oggetto della percezione”, significa però confondere non solo l’“immagine percettiva” dell’oggetto (ciò che l’oggetto è per il nostro immaginare) con il “percetto” (con ciò che l’oggetto è per il nostro percepire), ma anche il percetto con l’”essenza” dell’oggetto (con l’entelechia o con ciò che l’oggetto è in sé).

 

Dice ancora Steiner:

 

“Finché le parti separate dell’universo sono determinate come percezioni, noi seguiamo semplicemente nella separazione una legge della nostra soggettività. Ma se consideriamo la somma di tutte le percezioni come una delle parti, e gliene contrapponiamo una seconda nelle “cose in sé”, facciamo una filosofia campata in aria, che si riduce a un semplice giuoco di concetti. Costruiamo una contrapposizione artificiale, ma per il secondo membro della medesima non possiamo trovare alcun contenuto, poiché per una cosa particolare questo può essere ricavato soltanto dalla percezione” (p.94).

 

 

È questo un punto importante. Abbiamo già parlato del cammino che muove dal realismo ingenuo, attraversa l’idealismo critico e giunge all’“individualismo etico” di Steiner, come di un cammino evolutivo che, partendo dallo stato di totale incoscienza del primo, perviene a una prima coscienza (animica) del soggetto nel secondo, e alla sua piena coscienza (spirituale) nel terzo. Abbiamo anche detto che l’idea della “cosa in sé” deriva dal fatto che, nell’ambito dell’attività conoscitiva, Kant ha portato alla luce il ruolo svolto dall’anima (dalla rappresentazione), ma non quello svolto dallo spirito (dal concetto). Prendendo coscienza della realtà soggettiva della rappresentazione, egli supera dunque lo stato d’incoscienza del realismo ingenuo (che – ricordiamolo ancora – proietta sulla realtà delle cose, o dei corpi, sia la realtà della rappresentazione sia quella del concetto), ma rimane incosciente della realtà oggettiva del concetto (che viene fantasticato quale “cosa in sé”).

 

Ma quale natura avrebbe questa “cosa in sé”? Quella reale del percetto o quella ideale del concetto? Nessuna delle due. Stando a Kant, infatti, non può avere natura reale poiché non si presta a essere direttamente percepita (potendo l’uomo percepire – a suo dire – solo la propria reazione all’azione della “cosa”); ma non può avere nemmeno natura ideale in quanto questa, avendo – sempre a suo dire – carattere “formale” e non “sostanziale”, non è ovviamente in grado di esercitare quell’azione che la reazione del soggetto presuppone. Scopriamo così che tale “cosa in sé” non apparterrebbe all’ordine reale (perché impercepibile) né a quello ideale (perché formale).

Ecco la ragione per la quale Steiner afferma che, in tal modo, si fa “una filosofia campata in aria che si riduce a un semplice giuoco di concetti”; “campata in aria”, in effetti, è una “cosa in sé” che dimostra, a conti fatti, di non essere né un “percetto” né un “concetto”.

Non vi è comunque manuale di filosofia che non parli, di quella kantiana, come di una “rivoluzione gnoseologica”. Da quanto detto, dobbiamo però concludere che si tratta di una rivoluzione incompiuta, e che, in quanto tale, ha finito col fare alla gnoseologia più male che bene. In ogni caso, è appunto La filosofia della libertà a riprenderne lo spirito innovatore e a portarlo a compimento.

 

Dice Steiner:

 

“Ogni modo di essere, che si voglia ammettere al di fuori del campo della percezione e del concetto, deve essere ascritto alla sfera delle ipotesi ingiustificate. A tale categoria appartiene la “cosa in sé” (…)

Al principio universale ipotetico si può dare un contenuto soltanto se lo si prende a prestito dal mondo dell’esperienza senza accorgersi di farlo.

Altrimenti esso rimane un concetto senza contenuto, un assurdo, che ha soltanto la forma del concetto” (p.94).

 

 

In effetti, non essendo la “cosa in sé” che un concetto “travestito” da cosa, a ciascuno si presenta l’occasione di scegliere, più o meno deliberatamente, il “travestimento” che più gli aggrada o gli si confà. I fisici, ad esempio, se la immagineranno “fisicamente”, i biologi “biologicamente”, i chimici “chimicamente”, e così via. A ciascuno, viene cioè offerta la possibilità d’immaginare una “cosa in sé” dotata delle medesime qualità delle “cose non-in sé” di cui si occupa abitualmente.

Tuttavia, altro non si fa così che tentare (in modo arbitrario, e – come dice Steiner – “senza rendersene conto”) di colmare il vuoto lasciato dal contenuto universale del concetto con quello particolare di una qualche rappresentazione (e, mediante questa, con quello individuale di un qualche percetto).

 

Immaginate, ad esempio, che si stesse parlando, anziché della “cosa in sé”, della “pianta in sé” (ciò che peraltro ha fatto Goethe, parlando della Urpflanze). Ebbene, non sarebbe forse arbitrario che questa, in qualità di “ragion d’essere” di tutte le piante o di realtà “universale”, la si pensasse o immaginasse dotata delle particolari qualità dei garofani, delle rose o dei papaveri?

Delle due, quindi l’una: o si nega, come fanno i nominalisti, la realtà universale del concetto, ma va allora negata anche quella della “cosa in sé”; o si afferma la realtà universale della “cosa in sé”, ma va allora affermata, come fanno i realisti, anche quella del concetto. L’unica cosa che non si può fare, insomma, è l’attribuire insieme, alla “cosa in sé”, una realtà universale e delle qualità particolari.

 

Hillman, ad esempio, ha pubblicato due suoi saggi in un piccolo libro intitolato: La vana fuga dagli Dei. Meglio avrebbe fatto però a intitolarlo: La vana fuga dalle idee. Non perché – sia chiaro – gli Dei siano idee (come vorrebbe l’idealismo), bensì perché le idee sono Dei o Entità spirituali (come vuole la scienza dello spirito). Anche Freud, d’altro canto, ha paragonato la propria visione del contrasto tra l’istinto di vita o Eros e l’istinto di morte o Thanatos, a quelle mitiche o metafisiche dell’antichità e, in particolare, a quella di Empedocle della lotta tra “Amore” (Philia) e “Odio” (Neikos). Quelle che in Empedocle erano forze “cosmiche”, vengono però da lui ridotte a forze “istintive” o “pulsionali” che per di più si caratterizzerebbero – stando almeno a quanto lo stesso Freud afferma nei celebri Tre saggi sulla teoria della sessualità – per un “particolare chimismo”. Ognuno ha dunque – verrebbe voglia di dire – la mitologia che si merita.

 

Tutto ciò sta comunque a dimostrare che la realtà spirituale delle idee o dei concetti, benché misconosciuta o disconosciuta, non cessa mai di operare e di apparire anche agli occhi di chi non vorrebbe vederla. C’è però da osservare che chi la teme, e non vuole quindi vederla, può anche arrivare allora a patirla. Pensate a un’“ossessione”. Non consiste appunto in un’idea che ci perseguita, e che in tanto lo fa in quanto noi, nell’incapacità di comprenderla, la fuggiamo o rifiutiamo? Non è raro, ad esempio, sognare dei ladri che tentano di forzare o scassinare la nostra porta di casa. Ebbene, tali ladri rappresentano appunto quelle forze (o quelle qualità) che, essendo da noi rifiutate, provano a ottenere con le “cattive” (e durante il sonno) quanto non riesce loro di avere con le “buone” (e durante la veglia).

Mi ricordo, a questo proposito, di una donna (nubile e sulla quarantina) che sognò una volta di avere in casa dei ladri che frugavano dappertutto cui si dava a offrire la bigiotteria che teneva in un cassetto, sperando così di salvare i gioielli che custodiva altrove. Vedete, è questo il tipico sogno di una persona apparentemente “aperta” e generosa, ma in realtà “chiusa” e ben poco disposta a mettere a repentaglio i propri presunti “valori” (“Il saggio – dice al riguardo Silesio – non aspetta che gli si tolga qualcosa; egli si toglie tutto da solo, per precedere i ladri”).

È dunque la paura relativa agli “averi” che ci impedisce di riconoscere e di accogliere gli “esseri”. Tale paura, vale a dire quella dei concetti o delle idee viventi, Evola la chiama “pavor metaphysicus” e Scaligero la giudica propriamente “animalesca”. È vero, infatti, che quando ci si avvicina lo spirito (vivente) siamo in genere inclini a darcela a gambe. Mi domando spesso, al riguardo, se l’attuale e preoccupante diffusione dei cosiddetti “attacchi di panico” non celi appunto questo risvolto. In tempi di materialismo, del resto, è giocoforza fare i conti con la paura dello spirito e dell’anima. Solo agli artisti (e in specie ai poeti) viene ad esempio concesso di parlare ancora di “anima”. Agli scienziati, affinchè non abbia a risentirne il “senso del pudore” della loro “comunità”, è concesso infatti di parlare soltanto di “psiche” (e di preferenza in chiave neurofisiologica).

 

Non sarebbe male ricordare, tuttavia, che verrà un giorno in cui saranno l’anima e lo spirito a vergognarsi di chi oggi si vergogna di loro. Kant, sul piano gnoselogico, e Jung, su quello psicologico, hanno avuto, è vero, il coraggio di non vergognarsi dell’anima, ma il loro sforzo è stato vano perché, per non avere davvero pudore dell’anima, non si deve avere pudore dello spirito. L’anima è infatti, a un tempo, il luogo e l’oggetto della contesa. È il luogo della contesa perché è innanzitutto col pensare, col sentire e col volere che ci si batte; è l’oggetto della contesa perché sono appunto il pensare, il sentire e il volere che occorre redimere e restituire all’Io.

 

Tornando comunque alla “cosa in sé”, Steiner dice:

 

“Il pensatore dualistico afferma quindi solitamente:

“Il contenuto di questo concetto è inaccessibile alla nostra conoscenza;

possiamo sapere che un tale contenuto esiste, ma non possiamo sapere che cosa esista”“ (p.94).

 

 

Ci sarebbe tuttavia da chiedersi: ma quel “che cosa esista” che dice di non “poter sapere”, il “pensatore dualistico” non può o non vuole saperlo?

In proposito, vorrei raccontarvi un fatto che mi è capitato diversi anni fa. Essendo stato invitato, da una scuola di psicoterapia di Roma, a tenere una conferenza su Jung agli allievi dell’ultimo anno, raccontai un sogno di un mio amico che aveva da poco ultimato un’analisi freudiana. In questo, il mio amico prima scopriva di avere un grosso foruncolo sul braccio destro, poi vedeva uscirne un verme, e in ultimo constatava la scomparsa del foruncolo e la guarigione dell’arto. Raccontai allora questo sogno per dimostrare che l’interpretazione junghiana non si oppone a quella freudiana, bensì la porta avanti o l’approfondisce. Come l’aveva infatti interpretato il suo analista? Gli aveva detto che il verme simboleggiava il suo problema inconscio e che la sua nevrosi (il grosso foruncolo) si sarebbe risolta quando tale problema fosse venuto alla luce.

Un’interpretazione del genere, – dissi in quell’occasione – pur essendo corretta, potrebbe essere però approfondita. Perché, infatti, il problema del sognatore viene rappresentato da un “verme” e non in altro modo? E perché il grosso foruncolo si trova proprio sul braccio destro e non altrove? Non sto adesso a dirvi in quale modo sarebbe stato possibile approfondire l’interpretazione del sogno, ma allora lo feci, nella speranza che ciò servisse, più di tanti discorsi, a chiarire le cose. Alla fine della conferenza, uno degli studenti chiese però la parola, si alzò e disse: “Mi scusi, ma non crede che in questo modo ci sia il rischio di capire un po’ troppo?”. Costui, dunque, anziché essere interessato, meravigliato o soddisfatto, era spaventato: paradossalmente spaventato all’idea che, grazie allo studio che aveva scelto e cui si era dedicato, si potesse arrivare davvero a capire qualcosa della vita dell’anima.

 

Questo fatto mi ricordò, già allora, la favola del cacciatore pauroso e del taglialegna. Ve la voglio leggere così come la racconta Esopo: “Un cacciatore, che seguiva la pista di un leone, chiese a un taglialegna se ne avesse visto le tracce e se conoscesse la sua tana. “Posso mostrarti addirittura il leone in persona!” rispose l’interpellato. Ma il cacciatore, pallido per la paura e battendo i denti, ribatté: “Sto cercando solo la traccia, io, mica il leone!”“.

Come vedete, anche quello studente, seguendo un corso di psicoterapia, si era messo sulla traccia dell’anima, ma quando ha avuto l’impressione di poterla incontrare davvero, si è poi spaventato. Vale la pena di riflettere su queste cose perché dovremmo anche guadagnarci, tra l’altro, la capacità di distinguere il problematicismo “sano” da quello “morboso” o “patologico”. Una cosa, infatti, è pensare e ricercare per meglio decidere e trovare, altra invece pensare e ricercare per evitare di decidere e trovare. Del resto, chi conosca anche solo un poco le nevrosi “ossessive” sa che ci si può servire del pensiero (riflesso) anche per sottrarsi alle proprie responsabilità ed esorcizzare così la paura di essere l’Io che si è. Anche in campo gnoseologico, la paura è dunque una pessima consigliera. È vero infatti che per amare bisogna conoscere, ma non meno è vero che per conoscere bisogna amare. Deve esserci chiaro che la verità mai si rivelerà alla paura, perché la verità si concede soltanto a coloro che la amano e le sono devoti. È piuttosto la menzogna a essere sorella della paura, e figlia di una cultura che quotidianamente avvilisce, mortifica o nega l’anima e lo spirito.

 

Dice Steiner:

 

“In ogni caso il dualista si vede obbligato a porre dei limiti insuperabili alla nostra capacità di conoscenza.

Il sostenitore di una concezione monistica del mondo sa invece

che tutto quanto gli occorre per la spiegazione di un dato fenomeno del mondo

deve trovarsi nel campo del mondo stesso” (p.95).

 

 

Pensate a un rebus. Ci viene presentata una vignetta e siamo chiamati a risolverla. Ma che cosa significa risolverla? Altro non significa che ri-costruire o ri-trovare il pensiero di colui che l’ha creata. Costui è partito infatti da una idea e l’ha trasformata in una vignetta; noi partiamo invece da una vignetta e dobbiamo trasformarla in una idea: non però in un’idea qualsiasi, bensì in quella dalla quale è scaturita la vignetta. Ma tale idea – si rifletta – non è che il modo in cui la vignetta si presenta allo spirito, così come la vignetta non è che il modo in cui l’idea si presenta ai sensi (alla vista). In tanto dunque io posso, osservando la vignetta, ri-trovare l’idea, in quanto la vignetta non è altro che l’illustrazione o l’immaginazione dell’idea. Parafrasando, potremmo perciò dire, con Steiner, che “tutto quanto ci occorre per la spiegazione” del rebus si trova “nel campo” del rebus stesso.

 

Tornando a noi, Steiner sostiene dunque che la verità del mondo non tanto è nelle cose quanto piuttosto è le cose: ovvero, che il fenomeno – per dirla in termini kantiani – non solo non “occulta” il noumeno, bensì lo “rivela”.

È questo, peraltro, uno degli insegnamenti più importanti di Goethe. Ricordate gli ultimi versi della sua lirica Senza dubbio (Al fisico)? “Tutto dà volentieri e riccamente / la Natura, non ha / un nocciolo e una scorza, / è tutta d’un sol getto. / Tu guarda te piuttosto / se sei nocciolo o scorza”.

Pensate: possiamo osservare una cosa (magari un monumento) a dieci anni, poi a venti, a trenta, a quaranta, e così via. La cosa è sempre la stessa, noi no. Siamo cresciuti, ci siamo trasformati e, per questo, di quella cosa siamo in grado di capire quello che prima non capivamo, ma che purtuttavia era lì.

In proposito, dice ancora Goethe: “Che cosa è più difficile di tutto? Vedere con i propri occhi ciò che si ha sotto il naso”. In verità, il mondo non ci nasconde od occulta nulla. Sono piuttosto i contingenti limiti della nostra coscienza a nascondercelo o ad occultarcelo, e a impedirci così di accogliere con amore l’offerta che ci fa di sé. Dicono gli orientali: “La bellezza è negli occhi di chi guarda”; nello stesso senso, potremmo perciò dire: “La verità è nel pensiero di chi pensa”.

 

Dice Steiner:

 

“Dal concetto del conoscere, come noi l’abbiamo esposto, segue che non ha senso parlare di limiti della conoscenza. Il conoscere non è un interesse generale del mondo, ma un affare che l’uomo deve aggiustare con se stesso. Le cose non domandano nessuna spiegazione (…)

I presupposti per il sorgere della conoscenza sono dunque attraverso l’io e per l’io (…)

Non è il mondo che ci pone le domande, siamo noi stessi che le poniamo” (pp.95-96).

 

 

Qualche decennio fa – come probabilmente ricorderete – si citavano spesso Wilhelm Reich e Marcuse (insieme a Marx e Mao) ed era di moda parlare, più o meno a sproposito, di “repressione sessuale”, di “sessuofobia” o di “castrazione”. Possiamo oggi dire che è stato un vero peccato che non si sia stati allora capaci di rivolgersi ad altri maestri, e di parlare semmai di “repressione animico-spirituale”, di “logofobia” e di “castrazione del pensiero”. Dico questo perché l’istituzionalizzare, in una maniera o nell’altra, i limiti della conoscenza, altro appunto non significa che tentare di “evirare” il pensiero.

Se si fosse fatta allora una rivoluzione “spirituale”, si sarebbe di certo infranto il tabù dei limiti della conoscenza umana. E’ impossibile d’altronde progredire se non si ha il coraggio di affrancarsi anzitutto da questo agnostico e castrante “complesso” (da quello, ad esempio, che ha spinto Gianni Vattimo a parlare di un pensiero “debole”).

“Gnosi” vuol dire infatti “volontà”: volontà di raggiungere per mezzo del pensiero la realtà del mondo e di noi stessi. Chi teme un movimento o uno slancio del genere, cercherà naturalmente di impedirlo o di mortificarlo cominciando a parlare dei limiti della conoscenza e tacciando di orgoglio (se non di follia) quei pochi che tentano invece di far propria l’amorosa volontà dello spirito di riunirsi alle cose, agli altri e a sé stesso.

 

La questione ha però un risvolto ancor più inquietante. Hegel, infatti, non solo afferma che “parlare di limiti del pensiero umano è vuota ciarla”, ma così aggiunge: “Chi parla d’una ragione soltanto finita, soltanto umana, chi parla soltanto dei limiti della ragione, mentisce contro lo spirito”.

Questo vuol dire che chi parla così “mentisce” contro quello “Spirito di verità” annunciato dal Cristo e del quale è detto che ci “insegnerà ogni cosa” e che ci “guiderà verso tutta la verità” perché non ci “parlerà da se stesso”. “Mentire” contro lo “Spirito Santo” significa dunque “peccare” contro lo “Spirito Santo” o “bestemmiarLo”.

 

Sarà bene pertanto ricordare a coloro che si compiacciono, in un modo o nell’altro, di parlare dei limiti della conoscenza (e che perciò disconoscono la “missione pentecostale” dell’antroposofia) il seguente e grave ammonimento del Cristo: “Qualunque peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito Santo non sarà perdonata. A chiunque parlerà male del Figlio dell’uomo sarà perdonato; ma la bestemmia contro lo Spirito, non gli sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro”.