2° Incontro – Continua il primo capitolo

Amor, che ne la mente mi ragiona.


 

Vorrei cominciare, stasera, col mettere in luce quella che potremmo chiamare la logica interna del testo.

 

Riferendosi a questa, Steiner ha detto, una volta,

che sarebbe bene arrivare a possederne lo svolgimento

così come un direttore d’orchestra possiede quello della musica che si accinge a dirigere.

• Una cosa è infatti impadronirsi di alcune considerazioni o conclusioni (ossia, di alcuni pensati),

• altra impadronirsi di quel  m o v i m e n t o  del pensare

dal quale quelle considerazioni o conclusioni sono scaturite.

 

Per fare quanto ci siamo riproposti, dobbiamo comunque tornare a Spinoza.

Fate attenzione a questo passo: • “Questa pietra, – dice – ora cosciente del suo sforzo…”.

La pietra è dunque cosciente del proprio “sforzo”, cioè del proprio movimento o del proprio agire, ma non è cosciente di quel che ha dato origine al movimento stesso: ovvero di ciò che, nella sfera meccanica, chiamiamo “causa” e che, nella sfera del comportamento umano, chiamiamo invece “motivo”.

 

Queste distinzioni terminologiche le dobbiamo in verità a Schopenhauer. Sapete che, nel suo sistema, la volontà svolge all’incirca lo stesso ruolo che Hegel assegna invece al pensiero. Secondo Schopenhauer sarebbe una medesima volontà a manifestarsi in forme diverse nei vari regni della natura.

 

Una sola volontà si darebbe quindi

• come legge di causa-effetto nel regno minerale,

• come legge di stimolo-reazione nel regno vegetale,

• e come legge di motivo-azione nel regno animale e umano.

 

“La differenza tra stimolo e motivo – dice testualmente – la si può spiegare fisiologicamente così: lo stimolo provoca immediatamente la reazione, la quale proviene dalla parte stessa sulla quale ha agito lo stimolo, il motivo invece è uno stimolo che deve fare il più lungo giro attraverso il cervello, là dove per suo influsso nasce innanzitutto un’immagine ed è questa che provoca in modo immediato la reazione conseguente che viene chiamata ora atto del volere, ora atto dell’arbitrio”.

 

Da determinista egli equipara dunque il comportamento umano a quello animale, e si dice convinto che, come ogni effetto è determinato da una causa, così ogni reazione è determinata da uno stimolo e ogni azione da un motivo.

Riguardo al comportamento umano, nel quale considera quindi determinante il motivo e non l’Io (la natura e non lo spirito), egli afferma che si dovrebbe essere proprio degli stolti per continuare a parlare di libertà. Scrive infatti:

• “Dove la causalità è più comprensibile (cioè nel regno minerale – nda) in modo minimo riconosciamo l’essenza della volontà e dove la volontà si manifesta in modo innegabile (cioè nel regno umano – nda) la causalità si trova a tal punto oscurata che un rozzo intelletto potrebbe arrischiarsi a negarla”.

Tale “rozzo intelletto” – per Schopenhauer – è naturalmente quello dei sostenitori del “libero arbitrio”: ovvero, di coloro che vorrebbero distinguere, da un lato, il comportamento umano da quello animale, senza però distinguere, dall’altro, l’io abituale dall’Io spirituale.

 

Volendo riprendere i termini dei nostri schemi, potremmo quindi dire:

pur partendo dalla comune convinzione che l’uomo sia costituito solo

• da un corpo fisico (costituzione),  • da un corpo eterico (temperamento)  • e da un corpo astrale (carattere),

i seguaci del “libero arbitrio” si distinguono dai deterministi in quanto pongono l’agente o la libertà

proprio là dove i secondi pongono il motivo o la necessità

(vale a dire, una molteplicità di “agenti” psichici, chimici o fisici).

 

Come potete vedere, entrambi hanno a un tempo torto e ragione.

I sostenitori del “libero arbitrio” hanno infatti ragione nell’affermare la libertà,

ma hanno il torto di attribuirla all’anima (alla psiché),

• mentre i deterministi hanno ragione nel non attribuirla all’anima, ma hanno il torto di negarla.

 

Una considerazione del genere è particolarmente importante poiché ci permette di osservare che sia gli uni che gli altri non fanno in fondo che scontrarsi con uno stesso limite di pensiero: ossia, con quel limite del pensiero “legato ai sensi” che costringe gli uni, in nome della libertà, all’astrazione o all’illusione (luciferica) e gli altri, in nome del realismo, alla negazione (arimanica).

 

 

In un contesto del genere, cosa propone Steiner?

Pur prendendo atto, con i deterministi, che l’azione è causata dall’agire e che l’agire è causato dal motivo,

egli propone di distinguere i motivi coscienti da quelli inconsci.

 

Scrive infatti:

• “Sono forse le azioni degli uomini tutte di un unico genere? L’azione del guerriero sul campo di battaglia, quella dello studioso nel laboratorio scientifico, e quella dell’uomo di stato nelle più intricate circostanze diplomatiche, possono seriamente essere messe allo stesso livello con l’azione del bambino che cerca il latte? È ben vero che un problema si risolve tanto più facilmente quanto più semplice è il caso di cui si tratta. Ma è anche vero che già molte volte l’incapacità di discernimento ha portato ad una confusione senza fine. Ed è una differenza assai profonda quella che corre fra il caso in cui so perché faccio una cosa e il caso in cui non lo so (pp.16-17).

 

Schematizzando, possiamo quindi dire che il primo passo che compie Steiner è quello di sviluppare e trasformare la sequenza del determinismo (motivo→agire→azione) nel seguente modo:

 

 

Va comunque sottolineato che Steiner non sostiene affatto che un motivo cosciente sia, in quanto tale, libero.

Egli si limita infatti a dire:

• se si ammette una differenza tra un motivo cosciente e un motivo incosciente,

l’azione che deriva dal primo dovrà essere allora giudicata diversamente da quella che deriva dal secondo.

 

Steiner – non è superfluo ripeterlo – non giudica quindi “libera” la prima e “necessaria” la seconda,

ma dice soltanto che

• l’azione prodotta da un motivo cosciente

• dovrà essere valutata in modo necessariamente diverso da quella prodotta da un motivo incosciente.

 

I deterministi parlano dunque genericamente di motivi, mentre Steiner distingue

• quelli che possono avvalersi del riconoscimento della coscienza    • da quelli che non lo possono.

Prima di decidere se un’azione cosciente sia o non sia libera,

si dovrà perciò cercare di capire – secondo Steiner – se sia o non sia libera la coscienza stessa.

 

Infatti scrive:

 

“Infatti sta proprio qui la questione: sapere se la ragione, se scopi o decisioni

non esercitino sull’uomo una costrizione analoga a quella che esercitano gli impulsi animali.

Se, senza mio intervento, una decisione ragionevole sorge in me

con la stessa necessità con cui sorgono in me la fame e la sete,

allora io posso soltanto seguirla per costrizione, e la mia libertà è un’illusione” (p.18).

 

 

Non possiamo quindi stabilire, sin dal principio, che l’azione cosciente è, in quanto tale, libera,

poiché dobbiamo prima scoprire quale sia il valore dell’essere coscienti:

poichè dobbiamo prima scoprire, cioè, quale sia il valore del pensare

(in quanto è questa la sola attività che svolgiamo in pieno stato di veglia).

 

Scrive appunto Steiner:

 

“È evidente  che un’azione non possa esser libera se il suo autore non sa perché la compie.

Ma come stanno le cose per le azioni dei cui motivi si diventa coscienti?

Questo ci porta alla domanda: “Quale è l’origine e il valore del pensare?”.

Infatti, senza la conoscenza dell’attività pensante dell’anima, non è possibile farsi un concetto

di che cosa sia conoscere qualcosa, e quindi anche conoscere un’azione” (p.21).

 

 

Eccoci dunque al punto in cui il problema etico vira nella direzione di quello noetico.

Prima di proseguire, sarà comunque opportuna una precisazione.

Steiner – secondo quanto abbiamo visto – si chiede

come stiano le cose “per le azioni dei cui motivi si diventa coscienti”.

 

Si può però “diventare coscienti”

• sia di motivi che non si sono ancora tradotti in azioni,

• sia di motivi che si sono già tradotti in azioni,

ma che, nel momento in cui hanno informato l’agire, erano ancora incoscienti.

 

Sia chiaro, quindi, che Steiner si riferisce ai primi e non ai secondi: che si riferisce, ossia,

ai motivi che riguardano azioni future (di cui siamo consapevoli a-priori),

• e non a quelli che riguardano azioni passate (di cui prendiamo coscienza a-posteriori).

 

Nella sua Fenomenologia della coscienza morale, Eduard von Hartmann sostiene

che la volontà umana è determinata soprattutto da due fattori: dalle “cause motrici” (o motivi) e dal carattere.

• Le prime, in veste di “stimoli ambientali”, condizionano la volontà umana dall’esterno,

• mentre il secondo la condiziona dall’interno.

 

Infatti, – spiega Steiner –

 

“se si considerano gli uomini come tutti uguali o soltanto irrilevantemente diversi,

allora il loro volere appare determinato dal di fuori, cioè dalle circostanze che ad essi si presentano.

Se si considera invece che per uomini diversi una rappresentazione diventa motivo di azione

soltanto quando il loro carattere è tale che la rappresentazione susciti in essi un desiderio,

allora l’uomo appare determinato dal di dentro e non dal di fuori” (p.17).

 

 

• Dati dunque due individui caratterialmente “uguali” o “irrilevantemente diversi”, che diremo perciò A ,

• e due stimoli “disuguali” o “rilevantemente diversi”, che diremo B e C, avremo le reazioni (o azioni) b e c:

ovvero, delle reazioni (o azioni) la cui diversità rifletterà direttamente quella degli  s t i m o l i .

 

• Dati invece due individui caratterialmente “disuguali” o “rilevantemente diversi”, che diremo B e C,

• e due stimoli “uguali” o “irrilevantemente diversi”, che diremo perciò A, avremo le reazioni (o azioni) b e c:

ovvero, delle reazioni (o azioni) la cui diversità rifletterà direttamente quella dei due  c a r a t t e r i .

 

In questo caso, tanto per fare un esempio, l’idea di festeggiare il Carnevale, recandosi magari a un ballo in maschera, è più probabile che si traduca in azione in un carattere “stenico” (estroverso) che non in un carattere “astenico” (introverso).

Alla stessa stregua di Schopenhauer, anche von Hartmann è quindi convinto che la traduzione di una rappresentazione in azione non è frutto di una libera scelta, bensì necessaria conseguenza del fatto che una rappresentazione, in quanto congeniale o “simpatica” al nostro carattere, suscita in noi la voglia di realizzarla.

 

Il determinista – come abbiamo detto –

ritiene dunque che l’agire e l’azione siano sempre “effetti” di precise “cause” (esogene o endogene).

• Ci si potrebbe tuttavia domandare:

ma il determinista, quell’agire e quell’azione liberi di cui nega l’esistenza, come se li rappresenta?

Non può rappresentarseli – possiamo rispondere –

che come un agire e un’azione “de-motivati”: ovvero, come degli effetti privi di causa.

 

Se si tiene conto di questo, si fa chiaro allora che il determinista di fatto nega, non tanto l’esistenza (in sé) della libertà, quanto piuttosto l’esistenza della libertà nella forma in cui, più o meno coscientemente, se la rappresenta.

Ciò conferma che il vero problema è quello di imparare a pensare la libertà.

 

Ed è per questo che noi ci chiediamo quale sia, nel caso dell’agire cosciente

(si pensi, magari, a quello di un neurochirurgo durante una delicata operazione al cervello),

il soggetto che, all’interno di quell’insieme di “cause” che formano, quali cellule, il tessuto del corpo astrale

(detto anche, non a caso, “corpo causale”),

sceglie proprio quella che, in quanto adatta alla situazione specifica,

viene deputata a determinare la forma dell’azione.

Noi ci chiediamo, insomma, quale sia la “causa” delle cause.

 

E se siamo d’accordo nel giudicare non libera ogni azione

la cui causa risieda nel corpo fisico (minerale), nel corpo eterico (vegetale) o nel corpo astrale (animale),

ci domandiamo, tuttavia, se non sia da giudicare altrimenti quell’azione la cui causa risieda invece nell’Io.

Per quale ragione, infatti, non potrebbe porre in essere delle cause anche l’Io

(vale a dire, l’elemento umano nell’uomo)?

 

Ma come si fa a riconoscere chi pone le cause?

In effetti, operare un riconoscimento del genere è tutt’altro che facile.

Si tratta infatti di una “diagnosi differenziale” che presuppone, in colui che voglia effettuarla,

la capacità di un vero e proprio “discernimento degli spiriti”: capacità che può essere comunque educata

e sviluppata da chiunque assimili con serietà e profondità la scienza dello spirito.

• In ogni modo c’è da dire che il   c h i   viene quasi sempre   r i v e l a t o   dal   c o m e .

 

A tale proposito, si dice che Freud, una volta, abbia risposto a un suo interlocutore: “Quello che dici mi convincerebbe, se non lo dicessi nel modo in cui lo dici”. In quel frangente, il come era stato dunque, per Freud, più importante del cosa.

Ma perché era stato più importante? Perché il come manifesto può rivelare il chi immanifesto od occulto.

 

Ho qui con me Psicologia e Alchimia e vorrei farvi ascoltare quanto dice in proposito Jung:

• “Particolarmente la domanda “Chi agisce” merita la massima attenzione. Perché in ultima analisi è la risposta a questa domanda che decide del valore dell’azione. Per la società, è vero, il Cosa dell’azione ha in un primo momento l’importanza massima, poiché ha evidenza immediata. A lunga scadenza però anche il giusto agire in mano all’uomo sbagliato avrà effetti nefasti. Chi sa vedere lontano, si farà altrettanto poco abbagliare dall’agire giusto della persona sbagliata quanto dall’agire sbagliato della persona giusta. Per questa ragione il medico delle anime dirige la sua attenzione non al cosa, ma bensì al come dell’azione, perché in esso è compresa tutta l’essenza della persona che agisce”.

 

• Certo, Jung distingue la persona “giusta” da quella “sbagliata”,

• mentre Steiner distingue, in una stessa persona, l’“Io” dal “corpo astrale”

e raccomanda a sua volta di fare attenzione al come (alla modalità)

poichè è appunto questo a poterci guidare alla scoperta di chi, tra i due, sia l’”agente” effettivo.

 

• “La via del cuore – dice Scaligero – passa per la testa”.

Non disponendo del tempo necessario ad approfondire un’affermazione del genere, mi limiterò qui a osservare che una via del cuore che non passi per la testa non è una via del cuore, ma una via viscerale o “isterica”.

D’altro canto, anche una via del cuore che non passi per la testa, ma vi si arresti, non è una via del cuore, ma una via cervellotica o “nevrastenica”.

Varrebbe la pena meditare, al riguardo, l’immagine dell’evangelista Giovanni che, nell’Ultima cena affrescata dal Ghirlandaio nel convento di Ognissanti, posa la testa sul petto o sul cuore del Cristo.