20° Incontro

Amor, che ne la mente mi ragiona.


 

Continua il settimo capitolo

 

Ci stiamo occupando del problema dei limiti della conoscenza, e quindi dell’agnosticismo.

Stando a questo Dizionario di filosofia può essere infatti inserita in questa sfera “ogni dottrina filosofica la quale affermi che l’assoluto è inaccessibile alla mente umana, e limiti le possibilità conoscitive dell’uomo all’ambito fenomenico”.

Tenendo conto di questo, si capisce allora il perché la scienza dello spirito antroposofica possa essere ricondotta, a prima vista, nella sfera dello gnosticismo. Ad esempio nel Dizionario di teologia di Karl Rahner ed Herbert Vorgrimler, alla voce “Antroposofia”, si rimanda appunto alla voce “Gnosi”.

Chiariamo subito, perciò, che l’antroposofia non ha nulla a che vedere con l’antica “gnosi”; può comprenderla, infatti, solo chi sappia vederla come il frutto più maturo della cosiddetta “modernità” (o dell’anima cosciente). È vero – secondo quanto sostengono i “tradizionalisti” – che esiste una “saggezza perenne” (indipendente quindi dal tempo e dallo spazio), ma ciò non vuol dire che il rapporto tra questa e l’uomo non possa essere storicamente mutevole. Per seguire e accompagnare l’evoluzione dell’uomo, essa infatti si manifesta, di epoca in epoca, in forme diverse. E la scienza dello spirito antroposofica di Rudolf Steiner non ne è che l’espressione atta a essere compresa e accolta dalla costituzione interiore dell’uomo moderno.

 

Ma chi è che parla dei limiti della conoscenza? Innanzitutto gli uomini di chiesa. Per loro, infatti, una cosa è la conoscenza, altra la fede. Alcuni anni fa, conobbi all’Università un gesuita che nutriva un vivo interesse per la psicoanalisi. Ebbene, ricordo come fosse oggi che ogni volta che il discorso cadeva su Jung mi diceva: “Jung non lo posso accettare perché è uno gnostico”. Egli preferiva dunque il “materialista” Freud allo “gnostico” Jung. E perché? Perché Freud, occupandosi principalmente del corpo (della cosiddetta “psicosessualità”), non s’intromette (come fa, seppure a suo modo, Jung) negli affari dell’anima e dello spirito gestiti dalla fede.

 

Quel ch’è curioso, tuttavia, è che, nel parlare dei limiti della conoscenza, si aggiungono, agli uomini di chiesa, i liberali: proprio coloro, cioè, che dovrebbero esserne gli storici avversari. Basti pensare che, nel 1907, Pio X, per condannare il “modernismo” e i “liberi pensatori”, decise di emanare una specifica enciclica (Pascendi dominici gregis) e di vincolare a un solenne giuramento “antimodernista” chiunque intendesse rivestire un ufficio ecclesiastico. Allora, si credeva dunque che il pensiero liberale fosse ispirato dal demonio; oggi ci si è accorti invece che a ispirarlo sono solo dei demonietti burloni che, se non parlano più esplicitamente dei limiti della conoscenza umana, parlano però, come Popper, della sua “fallibilità”. I suoi maestri sono infatti convinti che, dimostrata la “finitezza” del pensiero umano, nessuno possa più credere di possedere la verità né tantomeno avanzare la pretesa di imporla gli altri.

 

Ho già parlato, sin dall’inizio, della verità come di una realtà che si può essere, ma non avere, e non tornerò perciò sull’argomento. Mi limiterò soltanto a ricordare che è questa strada a sfociare nel soggettivismo, nel relativismo e, oggi in particolare, nella sterile e verbosa sagra delle opinioni. In ogni modo, quel che più interessa rilevare è che, per quanto riguarda il tema della limitatezza del conoscere umano, il “diavolo” e l’“acqua santa” mostrano di andare sorprendentemente d’accordo.

“In questo caso – osserva per l’appunto Hegel – la filosofia deve combattere con un duplice avversario. Da un lato, è noto, la pietà religiosa ha proclamato non esser la ragione o il pensiero in grado di conoscere il vero, la ragione condurre soltanto all’abisso del dubbio, doversi rinunziare al pensare autonomo e, per giungere alla verità, costituirsi prigionieri della cieca fede nell’autorità (…) D’altra parte è altrettanto noto che la cosiddetta ragione si è fatta valere, ha respinto la fede nell’autorità, e ha voluto rendere razionale il Cristianesimo, sicché in sostanza soltanto il mio intuito, la mia convinzione personale mi obbligherebbero a riconoscere qualche cosa. Ma è meraviglioso come questa tesi sul diritto della ragione sia stata poi capovolta e in modo da risultarne che la ragione stessa non possa riconoscere nulla di vero. Questa cosiddetta ragione da un lato combattè la fede religiosa in nome e con la forza del pensiero razionale, e contemporaneamente si volse contro la ragione e diventò nemica della vera ragione”.

 

Al di là dei presunti limiti del pensiero, per i chierici c’è dunque la fede e per i laici il nulla. Né i primi né i secondi considerano, perciò, che i limiti del pensiero non sono assoluti, bensì relativi ai diversi gradi di coscienza. Al riguardo, potremmo paragonare i livelli di coscienza ai piani di una casa e il pensiero alla scala che li congiunge. Com’è certo, infatti, che la visuale che si può godere da un piano è limitata dalla sua altezza, altrettanto è certo che tale limite può essere superato o trasceso grazie alla possibilità offerta dalla scala di raggiungere i piani superiori. Ciò vuol dire, dunque, che quelli che vengono abitualmente spacciati per dei limiti assoluti non sono invece che dei limiti relativi all’intelletto rigidamente vincolato – come abbiamo già precisato – al corpo fisico e allo spazio. Volendo continuare con l’esempio della casa, potremmo pertanto paragonare il pensiero ordinario (astratto, riflesso o – come dice Scaligero – “dialettico”) a quel primo tratto di scala che conduce dal piano terra (della immagine percettiva) al primo piano (della rappresentazione). Lungo questo tratto (in cui vige la logica dello spazio), il pensiero si muove in modo discontinuo o discreto, così come si muove, ad esempio, un robot; ed è proprio la modalità di questo suo movimento (la stessa del dis-animato volere che lo sospinge) a rendere possibile il calcolo e a informare oggi l’attività dei computer.

 

Si è tuttavia convinti che la scala finisca qui e che non vi siano perciò dei piani superiori: che non vi siano, cioè, altre modalità di pensiero in grado di raggiungere ulteriori livelli di coscienza. Eppure, vi è un pensiero (come quello goethiano) che, lungo il tratto che conduce dal primo al secondo piano (in cui vige la logica del tempo), si muove già diversamente: non più, cioè, in modo discreto, ma in modo continuo o fluente, così come, per crescere, si muove il vivente.

Sia sul piano collettivo che su quello individuale, i limiti della conoscenza non sono dunque che relativi, contingenti o storici.

 

L’agnosticismo kantiano, ad esempio, distingue il “fenomeno” dal “noumeno” che dichiara inconoscibile. Ignorando che quanto non può essere raggiunto dall’intelletto può essere raggiunto da un superiore livello di coscienza, esso allora attribuisce (proiettivamente) tale limite al mondo invece che a sé stesso. In tal modo, tuttavia, si realizza, non una coincidentia oppositorum (come lo stesso Kant avrebbe voluto, essendosi riproposto di conciliare le contrastanti esigenze dei razionalisti e degli empiristi), bensì una duplicatio oppositorum.

Tale duplicatio si realizza inoltre a due livelli diversi: al primo livello (per così dire “anatomico”), eleva il numero dei fattori in gioco da due (percezione e concetto) a quattro: 1) l’oggetto in sé (od oggetto “noumenico”); 2) l’immagine percettiva che il soggetto ha dell’oggetto (od oggetto “fenomenico”); 3) il soggetto in sé (o soggetto “noumenico”); 4) l’immagine percettiva che il soggetto ha di sé (o soggetto “fenomenico”); al secondo livello (per così dire “fisiologico”) prende invece in considerazione, come dice Steiner:

 

 

“1) l’oggetto in sé;

2) la percezione che il soggetto ha dell’oggetto;

3) il soggetto;

4) il concetto, che riferisce la percezione all’oggetto in sé” (p.97).

 

 

È opportuno distinguere questi due livelli della duplicatio perché è soprattutto in ragione del secondo che il criticista giudica “oggettivo” (e incosciente) il rapporto tra il primo fattore (l’oggetto in sé) e il terzo (il soggetto), giudicando viceversa “soggettivo” (e cosciente) il rapporto, posto dal terzo (dal soggetto) per mezzo del quarto (del concetto), tra il secondo (la percezione che il soggetto ha dell’oggetto) e il primo (l’oggetto in sé).

 

Dice appunto Steiner:

 

“Con ciò il dualismo scinde il processo della conoscenza in due parti.

Una, la produzione dell’oggetto della percezione dalla cosa in sé, la fa accadere al di fuori della coscienza,

l’altra, la connessione della percezione col concetto e il collegamento del concetto con l’oggetto,

la fa accadere dentro la coscienza” (p.97).

 

 

Nei nostri termini, la stessa cosa potrebbe essere detta così:

• il criticismo colloca l’azione dell’oggetto (in sé) e la reazione del soggetto (in sé) “al di fuori della coscienza”,

• mentre colloca “dentro la coscienza” quel concetto mediante il quale il soggetto

si spiega il rapporto tra l’immagine percettiva dell’oggetto (fenomenico) e l’oggetto in sé (noumenico).

 

Mentre in Steiner, dunque, è l’Io che, in virtù della propria organizzazione,

prima divide il percetto dal concetto (quali elementi del mondo e quindi reali)

e poi li riunisce (nell’anima) dando luogo alla rappresentazione,

in Kant, invece, è il soggetto a “farsi un’idea” (o un concetto) del rapporto

tra l’immagine percettiva (soggettiva e fenomenica) e la cosa in sé (oggettiva e noumenica).

 

Come si vede, il concetto viene qui chiamato, non a integrare in modo reale il percetto, bensì a porre in modo ideale l’oggetto fenomenico (la soggettiva immagine percettiva) in rapporto con quello noumenico (l’oggettiva cosa in sé).

Il concetto, pertanto, essendo parte integrante, non del mondo reale, ma della coscienza umana, viene da quest’ultima aggiunto o applicato alla realtà fenomenica (delle immagini percettive) per organizzarne e sistemarne, in modo esclusivamente formale e a scopo prevalentemente utilitaristico, la conoscenza.

 

 

“Con queste premesse – osserva infatti Steiner – è ovvio che il dualista creda di acquistare, nei suoi concetti, soltanto dei rappresentanti soggettivi di quello che sta davanti alla sua coscienza (…)

Il vincolo unitario delle cose, che lega queste fra loro e obiettivamente col nostro spirito individuale (come cosa in sé), sta al di là della coscienza, in un “essere in sé” del quale nella nostra coscienza potremmo parimente avere solo un rappresentante concettuale (…)

In altre parole, i principii ideali scopribili per mezzo del pensare appaiono al dualista troppo vaporosi, ed egli cerca anche dei principii reali dai quali i primi possano venir sorretti” (pp.97 e 98).

 

 

Come vedete, si ripropone qui una questione fondamentale. Dovremmo infatti riconoscere che i “principii ideali scopribili per mezzo del pensare” non appaiono di norma “vaporosi” o “evanescenti” al solo dualista o criticista, ma a tutti noi. Volenti o nolenti, siamo ormai tutti, di fatto, dei nominalisti usi a riversare nella vuota forma ideale del concetto, non la sua forza o sostanza universale, bensì una qualche forza o sostanza reale (empirica). Cos’altro sono, del resto, le “categorie” kantiane se non dei concetti dai quali è stato spremuto il succo e dei quali non è rimasta perciò che la scorza? E da cos’altro discende la “formalizzazione” kantiana dell’attività pensante se non da una devitalizzazione o da una “liofilizzazione” del pensare stesso?

Considerate il calore, ad esempio, e ditemi, in tutta franchezza, se vi sembra che possa avere qualcosa a che fare col pensiero. Non credo. Siamo infatti abituati ad associare il pensiero all’idea del freddo: non usiamo appunto dire che, per ben ragionare, bisogna farlo a “mente fredda”? Eppure, ove fossimo capaci di risalire coscientemente il movimento del pensiero (così com’è possibile risalire, dalla foce alla sorgente, le acque di un fiume), scopriremmo, a un certo punto (laddove la forza del pensare, ancora unita a quelle del sentire e del volere, è appena sgorgata dall’Io), che la sua forza o sostanza essenziale non è appunto che una forza o sostanza di calore (ovvero, la forza stessa di quell’Amore che – come dice il poeta – “muove il sole e l’altre stelle”).

 

Vedete, quando cerchiamo di osservare, per mezzo della concentrazione, il sottile movimento del pensiero, è come se tentassimo di afferrare l’estremità di una fune per risalirla; alcuni non riescono nemmeno a scorgere tale estremità, altri invece la scorgono, l’afferrano, ma rimangono lì a dondolarsi. Considerate, a questo proposito, che anche i maestri Zen affermano che, per conoscere la “testa” del pensiero, bisogna imparare a tirarne la “coda”. In ogni caso, tutte queste metafore non fanno altro che alludere al compito (essenzialmente “pratico”) di varcare le “colonne d’Ercole” dell’abituale pensiero riflesso, apprendendo l’arte di penetrare e muoversi all’interno di quella viva realtà della quale il primo non è che la mera e spenta immagine.

 

Al realista ingenuo, ovviamente, il mondo delle idee appare ancor più irreale che al criticista.

Egli è convinto infatti che

 

 

“quel che noi pensando aggiungiamo agli oggetti – come dice Steiner –

è semplice pensiero sopra le cose”, e che perciò “il pensiero non aggiunge nulla di reale alla percezione” (p.98).

 

 

Sarebbe bene rammentare, tuttavia, che non abbiamo alcun merito per l’esperienza del reale dataci dalla percezione sensibile poiché questa la dobbiamo soprattutto agli organi di senso fisici. Facciamo infatti esperienza della realtà sensibile in virtù del nostro corpo, e quindi di un qualcosa che ci è stato donato dal mondo divino. Grazie a tale dono, sentiamo e giudichiamo reale quel che percepiamo, mentre, grazie a noi stessi, sentiamo e giudichiamo ideale quel che pensiamo.

Per l’intelletto, dunque, l’ideale non è reale e il reale non è ideale.

Orbene, se la facoltà di percepire il sensibile, così da sentirlo reale, è frutto di un dono divino, quella di percepire l’extrasensibile, così da sentirlo reale, deve essere invece frutto di una libera e cosciente iniziativa individuale. In fondo, il Divino ci ha donato la facoltà di pensare idealmente il mondo che percepiamo realmente, solo perché potessimo sviluppare da soli la facoltà di percepire realmente il mondo che pensiamo idealmente. Il primo obiettivo del nostro sviluppo animico-spirituale è dunque quello di arrivare a percepire l’ideale e a riconoscerlo per ciò stesso come reale.

 

Dice Steiner:

 

“Per il realista primitivo valgono come reali i singoli tulipani che si vedono o che si possono vedere; l’idea unica di tulipano è per lui un’astrazione, un’immagine mentale irreale che l’anima si è composta mettendo insieme le caratteristiche comuni a tutti i tulipani veduti”.

Tuttavia, “il tulipano che io vedo è oggi reale: fra un anno sarà scomparso nel nulla.

Quello che si mantiene è la specie tulipano.

La specie, però, è per il realismo primitivo “soltanto” un’idea, non una realtà.

Così la concezione realista si trova nella condizione di veder sorgere e scomparire le sue realtà,

mentre, rispetto al reale, proprio quello che essa ritiene irreale si conserva” (p.100).

 

 

Ciò conferma quanto abbiamo appena detto. Per quale ragione, infatti, il realista ingenuo giudica reali i singoli tulipani e irreale la loro specie? Soltanto perché i primi li percepisce e la seconda invece la pensa. E per quanto quello che percepisce si mostri caduco, mentre quello che pensa si mostri duraturo, egli continua ad avvertire il caduco che percepisce più reale del duraturo che pensa.

Considerazioni di questo tipo dovrebbero ingenerare nell’onesto realista ingenuo qualche perplessità circa la validità della propria posizione: perplessità che non avrebbe comunque modo di superare se non educando e addestrando il proprio pensiero ad avvertire come reale ciò che continuerebbe altrimenti ad avvertire come solo ideale.

 

Facciamo un altro esempio. Secondo voi, si sorride quando si è contenti o si è contenti quando si sorride? Spero conveniate che si sorride quando si è contenti perché, se fosse vero il contrario, basterebbe allora produrre meccanicamente un sorriso (o – come dice Merleau-Ponty – una “contrazione dello sfintere orale”) per suscitare nell’anima la contentezza (“E che è ridere – afferma Dante nel Convivio – se non una corruscazione de la dilettazione de l’anima, cioè un lume apparente di fuori secondo sta dentro?”).

La contentezza è dunque la causa, il sorriso l’effetto. Ma mediante i sensi fisici, noi percepiamo il secondo e non la prima. Il che vuol dire che ci troviamo di fronte al paradosso di un effetto reale (in quanto percepito) prodotto da una causa irreale (in quanto non percepita). Poiché un effetto reale può essere però prodotto soltanto da una causa reale, ci augureremmo che paradossi del genere inducessero il vero ricercatore a sospettare che il carattere reale o irreale della causa non dipende tanto da quello oggettivo della stessa, quanto piuttosto dal modo in cui il soggetto l’apprende.

 

Al riguardo, c’è comunque da fare un’altra e forse più importante considerazione. “Per il realista primitivo – ha fatto notare Steiner – valgono come reali solamente i singoli tulipani che si vedono o si possono vedere”. Fatto sta, però, che nessuno vede o può vedere un “tulipano” con gli occhi del corpo: per questi, un tulipano non è infatti un “tulipano”, bensì una serie di stimoli sensoriali che, grazie ai recettori di cui gli occhi stessi sono dotati, vengono trasformati in impulsi nervosi e trasmessi in questa veste al cervello. Ci siamo già occupati a suo tempo di questo e abbiamo visto che, senza l’intervento dell’Io, del concetto e del pensiero, mai potrebbe prodursi una sintesi dei vari eventi cerebrali. Il realista ingenuo giudica dunque reale il singolo tulipano e irreale la specie solo perché non è cosciente del fatto che per determinare la realtà del primo (per poterne avere, cioè, tanto una immagine percettiva che una rappresentazione) deve necessariamente ricorrere alla realtà della seconda.

 

Volendo riprendere, per un attimo, quelle formule in cui X stava per il percetto e A per il concetto, la conoscenza del singolo tulipano la si potrebbe illustrare così: X è A. Come vedete, si tratta di un giudizio affermante che il dato individuale della percezione (X) non è che il dato universale del pensiero (A). Abbiamo anche osservato, allora, che, conseguendo al giudizio “X è A” il giudizio “A è X”, e, a questo, il giudizio “A è A” (che s’invera nella rappresentazione), per avere coscienza di una cosa occorre di fatto sviluppare un “sillogismo” (la cui sola conclusione si affaccia alla coscienza).

È appunto per questo che Hegel, nella Enciclopedia delle scienze filosofiche, afferma: “Ogni cosa è un sillogismo”. Quanto all’occhio del realista ingenuo appare come una “cosa” naturale, si rivela dunque, a un occhio ben più attento e critico, come il risultato di un processo fisico, animico e spirituale, nel quale il dato assunto mediante la percezione viene, per così dire, masticato, digerito e infine in parte assimilato (ricordato) e in parte eliminato (obliato) dall’Io, mediante il concetto e l’attività giudicante.

 

Dal realismo “ingenuo” occorre però distinguere il realismo “metafisico”.

Dice infatti Steiner:

 

“La fisica moderna attribuisce le nostre sensazioni a processi delle particelle piccolissime dei corpi e di una materia infinitamente sottile, l’etere, o a qualcosa di simile. Ciò che noi sentiamo, ad esempio, come calore è un movimento, entro lo spazio occupato dal corpo produttore di calore, delle sue particelle. Anche qui si immagina un impercepibile per analogia col percepibile. L’analogo sensibile del concetto “corpo” è in questo senso l’interno di uno spazio chiuso da ogni parte, nel quale delle sfere elastiche si muovono in tutte le direzioni, si urtano fra loro, rimbalzano contro le pareti, e così via” (p.101).

 

 

Dunque, se il realismo ingenuo è, per così dire, il realismo della “cosa” (della materia) raggiungibile, e se il criticismo è il realismo della “cosa in sé” irraggiungibile, il realismo metafisico è invece il realismo della “energia in sé” irraggiungibile (“La volontà – afferma appunto Schopenhauer – è la cosa in sé kantiana”).

Si tratta di una forma di realismo senza dubbio più moderna, poiché nella fisica (ma non soltanto nella fisica) il concetto di “energia”, dopo Einstein (e la sua teoria dell’equivalenza tra massa ed energia), ha quasi del tutto sostituito quello prevalentemente ottocentesco di “materia”.

Per “energia” s’intende, normalmente, una grandezza fisica che conferisce a un sistema la capacità di compiere lavoro. Questa si presenta in forme diverse (meccanica, elettrica, termica, chimica, nucleare, ecc.), ma cosa sia in sé, non solo non lo si sa, ma si è convinti che non lo si possa nemmeno sapere.

È comunque significativo che il principale rappresentante del realismo metafisico sia proprio quell’Eduard von Hartmann che, nella sua Filosofia dell’inconscio, ha tentato di conciliare la dottrina del pensiero di Hegel con quella della volontà di Schopenhauer. Dietro il concetto di “energia” – come abbiamo avuto già modo di accennare – si cela infatti la realtà di quella volontà cui si sono in vario modo richiamati, a parte Schopenhauer ed Eduard von Hartmann, non solo Marx, Nietzsche, James, Dilthey, Bergson o Blondel, ma anche Freud, Wilhelm Reich e Jung.

 

Si potrebbe anche dire, volendo, che il realismo ingenuo “reifica” l’essere, mentre il realismo metafisico “reifica” il divenire. Il primo è infatti un realismo dello spazio, mentre il secondo è un realismo del tempo: non a caso, il suo oggetto lo si dichiara direttamente impercepibile, mentre si dichiarano percepibili le sue manifestazioni.

L’energia (in sé) può essere dunque pensata, ma non percepita. In quanto pensata (in quanto concetto), essa non è però una forza, ma una forma. Ciò vuol quindi dire che siffatta “forza in sé” (come la “cosa in sé”) non ha natura “ideale” (in quanto l’ideale è forma) né natura “reale” (in quanto è direttamente impercepibile).

 

Steiner definisce dunque “metafisico” tale realismo in quanto l’ipotesi che ne sta a fondamento si mostra ingiustificata.

 

 

Per questo indirizzo di pensiero, – dice infatti – il mondo reale risulta “composto dagli oggetti della percezione, che sono in un perpetuo divenire, che appaiono e scompaiono, e dalle forze impercepibili, le quali producono gli oggetti della percezione e costituiscono l’elemento permanente. Il realismo metafisico è una mescolanza incoerente del realismo primitivo con l’idealismo. Le sue forze ipotetiche sono essenze impercepibili con qualità di percezione” (p.102).

 

 

Ho citato, poc’anzi, Freud, Wilhelm Reich e Jung. Ebbene, a proposito di quella particolare forma di energia che gli psicoanalisti chiamano libido, vorrei leggervi un passo di questo mio breve lavoro intitolato: Freud, Jung e Steiner.

“Scrive il freudiano Brenner: “Nessuno ha mai visto l’energia psichica e nessuno mai la vedrà, non più facilmente, certo, di quanto qualcuno abbia mai visto una qualsiasi forma di energia fisica”. Allo stesso proposito, Wilhelm Reich, pur avendo scelto di seguire una via diversa da quella dell’ortodossia freudiana, così si esprime: “Freud diceva: non possiamo cogliere direttamente la pulsione. Ciò che proviamo sono soltanto i “derivati” della pulsione: immagini e affetti sessuali (…) Io interpretai Freud nel modo seguente: è perfettamente logico che la pulsione stessa non può essere cosciente, poiché è ciò che ci governa e domina. Noi siamo il suo oggetto”. Reich dunque, come Brenner, esclude categoricamente ogni possibilità di accedere direttamente e coscientemente alla libido. Una tale posizione, nonostante l’impostazione assai diversa, è stata presa, nella sua sostanza, anche da Jung (la libido come energia “psichica” o “vitale”). Eccoci dunque di fronte a quella “forza in sé” tipica del cosiddetto “realismo metafisico”. A ben riflettere, presto ci si accorge infatti che se tale “forza” o “energia” non viene assegnata, da una parte, al mondo della percezione, in quanto si sostiene – come abbiamo appena visto – che in questo possono cogliersi esclusivamente i suoi effetti o “derivati”, non viene neppure assegnata, dall’altra, a quello del pensiero, in quanto si immagina la sua realtà analoga a quella degli oggetti dei sensi e si dà quindi per scontato che essa sia di qualità diversa da quella del pensiero che l’intuisce e la pone. Eppure, a ben vedere, vi è qualcosa di indubbiamente strano nel fatto che a nessuno di questi sia mai venuto in mente di prendere in considerazione, oltre quella “sessuale” (Freud) e quella “affettiva” (Jung), la manifestazione “pensante” della libido. Di certo è vero che anche il pensiero ordinario non è, semmai, che un ulteriore derivato della libido: soltanto che, rispetto agli altri, esso presenta il singolare vantaggio di poter pensare e osservare sé stesso senza dover, per questo, uscire fuori di sé. Una cosa è infatti il pensiero che “pensa” i moti affettivi o gli impulsi sessuali, altra è il pensiero che “pensa” il pensiero stesso”.

 

Perdonate quest’autocitazione, ma spero possa servire a chiarire come l’energia che si manifesta quale volere (o quale istinto) nella sfera incosciente, e quale sentire in quella subcosciente, sia essenzialmente la stessa che si manifesta quale pensare nella sfera cosciente. La diversità di queste sue espressioni dipende unicamente dal fatto che il volere e il sentire la manifestano, sebbene con varia intensità, in modo diretto e incosciente, mentre il pensare la manifesta in modo indiretto (riflesso) e cosciente. Non appena ci si riesca a elevare con la coscienza dall’abituale esperienza indiretta del pensiero a quella diretta (a quella del pensiero “libero dai sensi”, “vivente” o “predialettico”), ci si accorge infatti che il volere che muove nella sfera cosciente i pensieri non è affatto diverso da quello che nella sfera incosciente viene invece modellato o informato dal pensare. Chiunque sia incapace di scoprire il volere nel pensare, sarà perciò incapace di scoprire il pensare nel volere e di realizzare, quindi, che sono entrambi espressione di una stessa e sola idea (sul piano umano, dell’Io).

Eduard von Hartmann, ad esempio, coglie la volontà e coglie l’idea, ma non sa cogliere la volontà nell’idea (il volere nel pensare) né l’idea nella volontà (il pensare nel volere); Schopenhauer coglie invece la volontà, ma, cogliendola – come egli stesso dice – quale forza “nuda e del tutto priva di conoscenza”, mostra di non saper cogliere l’idea nella volontà (il pensare nel volere). Nella forma dei minerali, nella vita dei vegetali, nel comportamento degli animali e degli uomini, egli vede infatti (a ragione) le manifestazioni della volontà, ma, nelle leggi che regolano tale forma, tale vita e tale comportamento, non vede invece (a torto) le manifestazioni del pensiero.

 

Il medesimo movimento che Hegel aveva attribuito al pensiero, Schopenhauer lo attribuisce dunque alla volontà e Marx invece alla materia. Quest’ultimo distingue infatti il materialismo “dialettico” da quello “meccanicistico” poiché il primo – a differenza del secondo – considererebbe la materia in movimento o in divenire (da qui, appunto, la concezione materialistica della storia). A ben vedere, una siffatta considerazione della “materia in movimento” è però una considerazione del “mosso” (della materia), non del “movimento”. Anche in questo caso, come in quello del realismo metafisico, la natura dell’energia o della forza viene dunque immaginata analoga a quella – come dice Steiner – “degli oggetti dei sensi”: ovvero, la natura o la qualità del “divenire” viene immaginata analoga a quella del “divenuto”.

 

Tornando a noi, nessuno sembra quindi conoscere l’esperienza del movimento (della forza o dell’energia) come esperienza di una realtà extrasensibile (o sovrasensibile). Quando osserviamo ad esempio una pianta che di giorno in giorno cresce e si sviluppa, siamo in grado, sì, di cogliere, mediante i sensi e in modo diretto, gli effetti prodotti nello spazio da una forza di vita (eterica), ma non siamo in grado, mediante i sensi e in modo diretto, di cogliere la forza di vita stessa. Tale forza si svolge ininterrottamente nel tempo (rivestendo ora la qualità solare del “nascere”, ora quella lunare del “perire”), ma l’intelletto vincolato ai sensi – come abbiamo avuto già occasione di dire – quel che sa del tempo lo sa solo indirettamente e per mezzo dello spazio. Anche se non può essere percepito attraverso i sensi, tale movimento può essere però pensato. Ma può un pensiero “statico” pensare davvero il movimento? No, in quanto il vero pensiero del movimento altro non è che il vero movimento del pensiero. Non se ne può perciò avere diretta coscienza ed esperienza se non attraverso l’esercizio della concentrazione e della meditazione: se non attraverso, cioè, un’attività o una pratica spirituale.

 

Pensate che, nella sua celebre Autobiografia di uno Yoghi, Yogananda racconta di aver incontrato un giorno un asceta in grado, col pensiero, di esercitare un’azione sul mondo vegetale. Alla luce di quanto abbiamo appena detto, un fenomeno del genere possiamo cominciare a capirlo. Non è comunque da tutti arrivare a sviluppare il volere (incosciente) che vive nel pensiero umano tanto da riuscire a influire, per suo mezzo, sul pensiero (incosciente) che vive nel volere della natura.

 

“La natura – dice Schelling – è lo spirito invisibile; lo spirito è la natura visibile”. Nell’uomo diviene infatti cosciente quello che nella natura è incosciente. Attraverso l’uomo, la natura stessa prende quindi coscienza di sé, agisce su di sé e si trasforma. Il potere riscontrato da Yogananda in quell’asceta è dunque un potere “extra-ordinario”, ma non “incomprensibile” o – come si suol dire – “miracoloso”. Fatto sta che i diversi gradi o livelli di coscienza sono anche dei gradi o livelli di “potenza”. Pur agendo al più basso di tali gradi o livelli, l’intelletto e l’ego non costituiscono forse dei “poteri”? E dei poteri che, avendo esaurito il loro compito evolutivo, tendono ormai a esercitare, in specie sulla natura, un’azione devastante o distruttiva?