21° Incontro

Amor, che ne la mente mi ragiona.


 

Continua il settimo capitolo

 

Stasera, prima di riprendere la lettura, vorrei proporvi di osservare un piccolo schema. Ci siamo già misurati col “realismo ingenuo” e con l’“idealismo critico”, e ci stiamo ora cimentando con il “realismo trascendentale” di Eduard von Hartmann che Steiner definisce – come abbiamo visto – “metafisico”.

 

Sperando che possa esserci di aiuto, consideriamo dunque il seguente schema:

 

 

Come potete vedere, sia il realismo “ingenuo” che quello “metafisico” si trovano al di qua della soglia che divide la sfera inferiore dell’esistere da quella superiore dell’essere. Il primo è infatti un realismo dello “spazio” (o della materia), mentre il secondo vorrebbe essere un realismo del “tempo” (o dell’energia). Potremmo anche dire, volendo, che il primo è il realismo del “divenuto”, della “quiete” e dell’“intelletto”, mentre il secondo vorrebbe essere il realismo del “divenire”, del “movimento” e della “volontà”.

In ogni caso, degli elementi che compaiono nella parte bassa dello schema – il corpo fisico, lo spazio e l’opera compiuta (dell’”Entità divino-spirituale”) – è competente la coscienza “intellettuale”: coscienza che – come ormai sappiamo – utilizza quale mediazione l’apparato neurosensoriale e, in particolare, la neocorteccia. Se questo ci è chiaro, allora ci sarà chiaro anche l’errore del realismo metafisico. Esso consiste infatti nel tentativo (prometeico) di accedere con l’intelletto, e quindi con un tipo di pensiero eminentemente “statico”, a quella realtà “dinamica” del corpo eterico, del tempo e dell’effetto operante (dell’”Entità divino-spirituale”) della quale dovrebbe essere invece competente la coscienza “immaginativa”. Lo stesso realismo metafisico, d’altro canto, pur non avendo coscienza dell’erroneità o della inanità di un simile tentativo, mette le mani avanti dichiarando che alla realtà di cui si è detto non si potrà mai avere accesso diretto.

 

Conoscete le cosiddette “figure sonore” del fisico tedesco Ernst Friedrich Chladni (1756-1827)? Si tratta di figure o di forme create dal suono in una polvere distesa su una lamina elastica che variano – come Chladni riuscì a dimostrare – al variare dell’altezza del suono stesso. Ebbene, immaginate allora che un sordo, vedendo quelle figure ed essendo all’oscuro della natura del fenomeno, si metta in testa di scoprire quale sia la forza che le genera. Costui potrà contare sulla vista per percepire e pensare le figure (cioè gli effetti o le manifestazioni di tale forza), ma non potrà contare sull’udito per percepire il suono (cioè la forza in sé); non lo potrà percepire, ma lo potrà pensare. Già, ma ve l’immaginate cosa vuol dire pensare il suono senza averlo mai percepito? E se è vero – come abbiamo mostrato a suo tempo – che la rappresentazione nasce dall’unione della percezione col concetto, un sordo a quali mai percezioni unirà allora il concetto di suono, per cercare comunque di rappresentarselo? Proprio questa, però, è la condizione in cui si trova il realista metafisico, e la ragione per la quale – in modo analogo a quanto fa la volpe con l’uva – giudica inconoscibile la forza in sé.

 

Ciò spiega, peraltro, il perché l’intelletto faccia scienza fintantochè rimane nell’ambito delle proprie capacità e competenze, e faccia invece metafisica allorché più o meno inconsciamente le travalica per darsi all’intellettualismo o allo scientismo.

 

Dice Steiner:

 

“Al di fuori di quel mondo, per la cui forma di esistenza esso ha un mezzo di conoscenza nella percezione, il realismo metafisico ha deciso di ammettere un’altra sfera in cui questo mezzo vien meno, e che si può investigare solo mediante il pensare. Ma non può nello stesso tempo decidersi a riconoscere anche la forma dell’essere che il pensare gli fornisce, il concetto (l’idea), come un fattore che sta accanto alla percezione in modo altrettanto giustificato” (p.102).

 

 

Il realismo metafisico ha dunque ragione nel voler investigare, al di là dell’essere della “cosa” (del pensato), l’essere della forza (del pensare), ma non riesce, allorché si mette a pensarlo, a riconoscerlo come l’essere del pensare; non volendo assegnare a siffatta forza la realtà della percezione, né potendo assegnarle quella del concetto, non può però “rappresentarsela”, ma solo ipotizzarla, congetturarla o fantasticarla.

 

Dice ancora Steiner:

 

“Se si vuole evitare la contraddizione di una percezione impercepibile, bisogna pur confessare che i rapporti tra le percezioni trasmessici attraverso il pensare non hanno per noi altra forma d’esistenza che quella del concetto. Se si scarta dal realismo metafisico la parte ingiustificata, il mondo si presenta allora come somma di percezioni e di rapporti concettuali (ideali) fra le percezioni. Il realismo metafisico si trasforma cioè in una concezione che per la percezione esige il principio della percepibilità, e per i rapporti fra le percezioni esige la pensabilità” (p.102).

 

 

La forza in sé dunque la si pensa, ma non s’immagina che possa avere la natura stessa del pensiero, in quanto l’ordinaria esperienza di quest’ultimo non è quella di una viva forza, bensì di una vuota forma o di una piatta e inerte (riflessa) realtà. È unicamente per questo, in effetti, che, pensando alla forza, non ci viene in mente che possa trattarsi della forza stessa del pensiero e veniamo perciò indotti a immaginare che la sua natura sia altra da quella del pensiero con cui la pensiamo. Ma proprio questo è il punto. Se è vero, infatti, che la natura della forza è altra da quella del pensiero ordinario (ch’è solo forma), non meno è vero, però, che non è altra da quella di un pensiero d’altra natura (ch’è insieme forma e forza); non si tratta quindi di una misteriosa “terza” realtà (rispetto alla percezione e al pensiero) o di una ancor più improponibile – come dice Steiner – “percezione impercepibile”.

 

 

“Per il realismo primitivo – continua quest’ultimo – il mondo reale è una somma di oggetti di percezione; il realismo metafisico attribuisce realtà, oltre che alle percezioni, anche alle forze impercepibili; il monismo sostituisce a queste forze i nessi ideali che esso conquista per mezzo del suo pensare. Tali nessi sono le leggi della natura. Una legge naturale non è altro che l’espressione concettuale della connessione tra determinate percezioni” (p.103).

 

 

Come si vede, siamo qui chiamati a fare un passo avanti. Una cosa sono infatti gli elementi della natura (quelli compresi, ad esempio, nella “tavola periodica” di Mendélejev), altra le sue forze, e altra ancora le sue leggi. Ove volessimo riferirci al nostro precedente schema, dovremmo porre gli elementi sul piano del corpo fisico, dello spazio e dell’opera compiuta, le forze sul piano del corpo eterico, del tempo e dell’effetto operante, e le leggi sul piano (giacente al di là della soglia) del corpo astrale, dell’essenza (o qualità) e della manifestazione (dell’”Entità divino-spirituale”). Dal punto di vista conoscitivo, il primo di questi tre piani è quello “solido” del pensato o della rappresentazione; il secondo quello “liquido” del pensare; e il terzo quello “aeriforme” o “gassoso” del concetto.

 

 

 

Prendete, ad esempio, un orologio meccanico. Una cosa sono i pezzi che lo compongono, altra la carica che gli necessita per funzionare, altra ancora la modalità del suo funzionamento. Pur avendo tutti i pezzi previsti e la carica necessaria, un orologio può infatti andare – come si sa – “avanti” o “indietro” e non assolvere così la propria funzione. La modalità del suo funzionamento è dunque la sua legge. Ma nella modalità del suo funzionamento altro non si esprime che il pensiero di chi lo ha ideato o progettato.

 

Dietro la realtà qualitativa della legge, c’è dunque quella del concetto o dell’idea. È tale insieme (Gestalt), infatti, a servirsi della mediazione della forza per mettere e mantenere gli elementi che lo compongono in una specifica relazione reciproca. Considerate, per fare ancora un esempio, la parola ROMA. Come si vede, è composta da quattro lettere. Ma anche le parole AMOR, ORMA, RAMO, MORA, ARMO e OMAR sono composte dalle stesse quattro lettere. Cos’è dunque che rende diverse tali parole? È evidente: la diversa relazione in cui le medesime lettere si trovano tra loro. Dobbiamo ammettere che qui si può quasi toccare con mano che è il concetto o l’idea (il significato), attraverso un’attività mediatrice (ad esempio, il parlare o lo scrivere), a giostrare il rapporto tra gli elementi (le lettere) e a realizzare così quel “composto” o quell’“insieme” che noi indichiamo poi quale “oggetto” o “cosa” (o, nel caso specifico, “parola”). Collegare in tal modo gli elementi equivale però ad armonizzali. È nel concetto o nell’idea, quale insieme, ch’è dunque riposto il segreto dell’armonia (di quella in specie espressa dagli organismi viventi).

 

Sul piano psicologico, le “leggi” si presentano invece come “modelli di comportamento”. Per Jung, gli “archetipi” sono infatti delle entità o delle forze (di natura sconosciuta) in grado di conferire o imporre inconsciamente al nostro comportamento la loro forma o legge. Un uomo, nel cui inconscio sia iperattivo l’archetipo del Puer, si comporterà quasi sempre in modo opposto a quello di un uomo nel cui inconscio sia iperattivo l’archetipo del Senex. Il Puer e il Senex, infatti, non sono solo delle “immagini” archetipiche, ma anche delle “forze” che sono insieme “forme”, o delle “forme” che sono insieme “forze”: insomma, delle norme o delle leggi che hanno il potere (come avviene appunto nel mondo animale) di determinare il comportamento.

È questa, comunque, quella sfera qualitativa nella quale vivono le essenze e dalla quale l’Io (in qualità di “essere”, di “spirito” o di “Entità divino-spirituale”) deve rendersi indipendente, se non vuole rinunciare alla libertà.

 

Pensate alle note musicali. Un do è e sarà sempre un do, così come un re non potrà mai essere un mi, un mi un sol, e così via. Ogni nota ha infatti la propria “legge” o, per meglio dire, è la propria “legge” (o qualità). Ebbene, cosa fa il compositore? Si lamenta forse del fatto che la necessità di tali leggi gli impedisca di creare? No di certo. Un vero creatore (un Io) opera infatti al di là del piano delle leggi e, proprio per questo, è in grado di comporle e armonizzarle liberamente in sintesi sempre nuove (non sarebbe male meditare, in questa chiave, quel passo del Vangelo di Matteo in cui il Cristo dice: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento”).

 

Ma torniamo a noi.

Tanto per il realismo ingenuo quanto per quello metafisico – dice Steiner –

 

“ciò che si trova al di fuori del soggetto è un qualcosa di assoluto, di finito in sé, e il contenuto del soggetto ne è un’immagine che sta completamente al di fuori di quell’assoluto”. Per il monismo, invece, “l’oggetto non è un assoluto, ma soltanto un relativo, in rapporto al determinato soggetto”. Per esso, infatti, “la percezione è determinata dal soggetto; ma contemporaneamente il soggetto ha, nel pensare, il mezzo per annullare la determinatezza da lui stesso provocata” (pp.104 e 105).

 

 

In effetti, il mondo cosiddetto “finito” è tale solo in rapporto all’esperienza percettiva. L’uomo si situa però al centro, tra il mondo “finito” (quello del corpo) e il mondo “infinito” (quello dello spirito), e può superare, nell’anima, ciò che è “limitato” (singolare) grazie a ciò che è “illimitato” (universale). Quelli che vengono considerati “limiti della conoscenza” sono quindi solo quei limiti della percezione che, in virtù del pensiero, vengono costantemente superati. Permettetemi di ricordare, ancora una volta, che stiamo qui esaminando la conoscenza o cognizione sensibile: ovvero, l’attività che svolgiamo, con maggiore o minore naturalezza, durante il nostro quotidiano stato di veglia.

 

Tutte le volte in cui, indicando degli oggetti, affermiamo, ad esempio, che quello è un armadio, quell’altro un divano e quell’altro ancora un letto, mostriamo di saper conoscere o ri-conoscere le cose, ma non sappiamo come ciò avvenga. Nel momento stesso in cui cominciamo a prendere coscienza del modo in cui “funziona” la coscienza naturale, questa comincia a farsi però spirituale. La coscienza spirituale non è infatti che la coscienza della realtà e dell’attività di quegli elementi extrasensibili che, operando di norma a nostra insaputa, ci consentono di conoscere o ri-conoscere il sensibile.

 

Abbiamo visto che, per conoscere o ri-conoscere il sensibile, occorre farsene una rappresentazione. Ma abbiamo anche visto che, per poter avere nella coscienza una rappresentazione, devono intervenire (sebbene in modo inavvertito) il percetto, il concetto, il giudizio e l’immaginazione. Ebbene, cosa sono o, per meglio dire, chi sono quest’ultimi? Non si può rispondere a un interrogativo del genere se prima non si ritrova – per così dire – un po’ di “buon senso” gnoseologico: quel “buon senso” di cui era dotato ad esempio Goethe, e del quale erano assai meno dotati, invece, Kant, Schopenhauer ed Eduard von Hartmann. Se il mondo fosse solo una nostra rappresentazione, e quindi – come sostengono tutti e tre – una “fata Morgana”, non potrebbe infatti mai darsi un’autentica comunicazione, comprensione o comunione. Non disponendo di un comune terreno sul quale potersi incontrare, ognuno dovrebbe pascersi sempre e soltanto di sé stesso. Fatto si è che proprio la convinzione che il mondo sia solo una nostra rappresentazione, altro non è (e, dal loro punto di vista, altro non potrebbe essere) che una loro rappresentazione. Una rappresentazione errata, però, e, in quanto tale, corruttrice del sano sentire e del sano volere. Dice infatti il Cristo: “Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono infatti le cose che escono dall’uomo a contaminarlo”.

 

Ebbene, non abbiamo appunto visto che sono il percetto e il concetto a “entrare” (in quanto oggettivi) nell’uomo, e che sono invece l’immagine percettiva e la rappresentazione (in quanto soggettive) a “uscire” da lui? Come l’immagine percettiva può essere dunque alterata da un difetto del corpo (magari da un disturbo dell’udito o della vista), così la rappresentazione può essere alterata da un difetto dell’anima. In questo caso, l’attività del giudicare viene pervertita o invertita dalla psiche e, al posto dell’anima cosciente (quella goethiana), s’insediano allora, rispettivamente, l’anima subcosciente (quella “sognante” dei criticisti e dei realisti metafisici) e l’anima incosciente (quella “dormiente” dei realisti ingenui o dei materialisti). In entrambi i casi, ci si viene comunque a trovare di fronte a un pensiero che si compiace o mena vanto di non poter pensare né l’essere della realtà né quello di sé stesso.

 

Ma se guardiamo ormai con legittimo sospetto a ogni forma di “volontà di potenza”, perché non dovremmo allora guardare con altrettanto sospetto a ogni forma di “volontà d’impotenza”?