Sonno e veglia alla luce delle considerazioni precedenti – Massime 156-158

Commento di Lucio Russo


 

Affronteremo stasera una nuova lettera, intitolata:

Sonno e veglia alla luce delle considerazioni precedenti (8 febbraio 1925).

 

Due parole, prima di cominciare.

Nelle prime pagine de La missione di Michele (1) c’è la figura di un uomo che sta con la testa fuori dell’acqua e con il resto del corpo immerso.

 

 

Ognuno di noi,

durante la veglia,  • sta con la testa fuori del mondo      • e con il restante organismo dentro il mondo,

mentre, durante il sonno, sta interamente dentro il mondo.

 

• Stando fuori del mondo, sperimentiamo coscientemente il suo apparire, il suo guscio o la sua superficie;

• stando all’interno del mondo, sperimentiamo inconsciamente il suo essere, la sua polpa o la sua profondità.

 

Per entrare nel sonno,

dobbiamo infatti uscire da quel sistema neurosensoriale e in particolare da quella corteccia (cerebrale)

che ci consentono di osservare e pensare, allo stato di veglia, la corteccia del mondo (similia similibus).

Come vedete,

• la testa, per guadagnare l’albero della coscienza, si è realmente separata dall’albero della vita.

 

Cominciamo adesso a leggere.

 

 

Nell’ambito delle considerazioni antroposofiche il sonno e la veglia furono spesso esaminati dai punti di vista più diversi.

Ma occorre approfondire sempre di nuovo la comprensione di tali fatti della vita,

dopo che si siano considerati altri lati del contenuto del mondo.

Quello che abbiamo detto della terra come germe del nuovo sorgente macrocosmo,

ci offre tale possibilità di approfondire la nostra comprensione riguardo al sonno e alla veglia.

Allo stato di veglia l’uomo vive nelle ombre di pensiero, che vengono proiettate da un mondo morto,

e negli impulsi volitivi, nella cui natura interiore egli penetra con la sua coscienza solita altrettanto poco,

quanto nei processi del sonno profondo senza sogni.

Nell’affluire di questi impulsi volitivi subcoscienti entro le ombre di pensiero, sorge l’autocoscienza liberamente operante.

In tale autocoscienza vive l’“io”” (p. 176).

 

 

Sappiamo che una cosa è la conoscenza (epistème), altra l’opinione (doxa).

Ma da che cosa deriva l’opinione?

Proprio dall’affluire degli “impulsi volitivi subcoscienti entro le ombre di pensiero”.

Utilizzando queste “ombre”, tali impulsi si razionalizzano (in senso psicodinamico)

e tendono, in veste di opinione (che si spaccia per conoscenza) a imporsi.

• E’ così che l’ego tende, per mezzo dei pensati che ha, e non del pensare che è, ad affermare o imporre se stesso.

 

Osserva tuttavia Hegel: • “Seguire la propria convinzione val certo più che arrendersi all’autorità; ma invertendo la credenza fondata sull’autorità in quella fondata sulla propria convinzione, non ne viene necessariamente mutato il contenuto, né la verità subentra all’errore. Restare abbarbicato al sistema dell’opinione e del pregiudizio per autorità altrui o per convinzione propria, differisce soltanto per la vanità che si annida nella seconda maniera” (2).

 

La verità non subentra dunque all’errore per il solo fatto che ci si arrende,

anziché all’autorità esterna, a quella della propria natura (psico-fisiologica).

Lo riprova il fatto che

l’opinione è utilizzata (dallo psicologo) per capire, mediante i test, il soggetto (psichico),

• mentre la conoscenza è utilizzata (dallo scienziato della natura) per capire, mediante le percezioni sensibili,

l’oggetto (fisico).

 

Domanda: Che differenza c’è

• tra il “volere nel pensare” che genera l’opinione    • e il “volere nel pensare” che genera la coscienza immaginativa?

Risposta:

• Che quello che genera l’opinione (soggettiva)

è il volere incosciente e karmicamente determinato della natura o dell’ego (la cosiddetta “brama” ),

• mentre quello che genera la coscienza immaginativa (oggettiva)

è il volere libero e cosciente dello spirito o dell’Io.

Il primo, muovendo dalla natura personale, virulenta le “ombre del pensiero”, agitando perciò dei fantasmi,

• mentre il secondo, muovendo dall’Io o dallo spirito, vivifica e anima le idee,

perché reintegra le loro forme con le loro forze: con quelle di cui godevano, cioè, prima di ridursi a “ombre”.

 

Domanda: Potresti fare un esempio?

Risposta: Pensa agli “ideali”: quelli veri (ossia dell’Io) li si persegue a prezzo del proprio sacrificio; quelli finti (ossia dell’ego) li si persegue invece per vanità o per interesse personale (fisico o metafisico).

 

Dice Steiner: • “Ogni idea che non diventa per te un ideale, uccide una forza della tua anima;

ogni idea invece che diventa un ideale, crea in te forze vitali” (3).

• Ricorda che il più alto ideale di un vero “spirito libero”

è quello di mettere la propria libertà al servizio dello Spirito vivente o del Cristo.

 

 

Mentre in queste condizioni l’uomo sperimenta il mondo circostante, il suo sentire interiore

è permeato da impulsi extraterreni cosmici, emergenti nel presente da un passato cosmico remotissimo.

Egli non ne diventa cosciente.

Un essere può diventare cosciente soltanto di quello cui partecipa con le proprie forze di morte,

non con le forze di crescita che vivificano l’essere stesso” (p. 176).

 

 

Perché siamo tanto legati alla coscienza ordinaria e all’ego?

E’ presto detto: perché, non appena abbandoniamo il loro solido terreno, perdiamo sia la coscienza che l’autocoscienza

(“Alla coscienza – scrive Hegel – sembra come se, col toglierle il modo della rappresentazione, le sia tolto il terreno, che era suo fermo e abituale sostegno. Quando è trasportata nella pura regione dei concetti, non sa più in qual mondo si sia”) (4).

 

Il che non accade quando, anziché discendere dalla veglia al sogno,

saliamo dalla coscienza rappresentativa a quella immaginativa.

Così facendo, infatti, non perdiamo la coscienza e l’autocoscienza (egoiche),

ma guadagniamo una coscienza e un’autocoscienza più profonde:

non legate, cioè (come le prime) solo allo spazio, ma anche al tempo.

 

• Un conto è pensarsi solo come uno spazio (un corpo fisico) che vive nel tempo,

• altro pensarsi anche come un tempo (un corpo eterico) che vive nello spazio,

e quindi come un essere (un Io) in divenire.

 

Afferma Hegel: • “Tutto, si dice, nasce e muore nel tempo (…) Ma non è già nel tempo che tutto nasce e muore: il tempo stesso è questo divenire, nascere e morire” (5).

 

L’ego teme, però, questo divenire, giacché si sente sicuro quando sta con i piedi per terra,

e non quando deve “camminare sulle acque”.

Questa superiore sicurezza ce la dobbiamo conquistare,

sviluppando appunto la coscienza e l’autocoscienza immaginative.

E’ questa quella “prova dell’acqua” che precede, come indicato da Steiner, la “prova dell’aria”

(correlata alla coscienza ispirata) e la “prova del fuoco” (correlata alla coscienza intuitiva).

 

(In realtà, la “prova del fuoco” viene presentata, ne L’iniziazione, come prima, e non come ultima. Questa, spiega Steiner, “consiste nell’acquisto di una percezione più vera, che non sia quella della media degli uomini, delle qualità corporee dei corpi inanimati, e poi delle piante, degli animali e dell’uomo. Con ciò non si allude a quella che oggi vien chiamata conoscenza scientifica, perché non si tratta di scienza, ma di percezione” [6].

 

Dal momento, però, che il percetto e il concetto sono, come abbiamo visto, una stessa cosa, la “prova del fuoco”

si presenta come prima quando il contenuto intuito si dà quale percetto

[quale concetto sconosciuto, frutto di una intuizione incosciente],

• mentre si presenta come ultima quando si dà quale concetto

[quale percetto conosciuto, frutto di una intuizione cosciente].)

 

 

Così l’uomo sperimenta se stesso perché perde spiritualmente di vista ciò che sta alla base del suo essere interiore.

Ma appunto grazie a questo egli è in grado, durante la veglia, di sentirsi completamente dentro alle ombre di pensiero.

Nessuna vivificazione impedisce alla vita interiore di prender parte a ciò che è morto.

Ma a questa “vita nella morte” l’essenzialità della terra nasconde di essere il germe di un nuovo universo.

Allo stato di veglia l’uomo non vede la terra quale essa è, gli sfugge l’incipiente sua vita cosmica” (pp. 176-177).

 

 

Questa “vita nella morte”, o nella sfera arimanica, è una fase necessaria della nostra evoluzione:

una fase che Arimane tende però a fissare, congelare o eternare, per impedirci così di superarla.

 

 

Così l’uomo vive in ciò che la terra gli dà come base per la sua autocoscienza.

Nell’epoca dello svolgimento autocosciente dell’io, egli perde spiritualmente di vista la vera figura dei suoi impulsi interiori,

come pure quella del suo mondo circostante. Ma appunto in questo librarsi al di sopra dell’essere del mondo,

l’uomo sperimenta l’essere dell’io, si sperimenta come entità autocosciente.

Sopra di lui il cosmo extraterreno, sotto di lui, nella sfera terrestre, un mondo la cui essenzialità rimane occulta;

nel mezzo la manifestazione dell’“io” libero, la cui essenzialità irraggia nel pieno splendore della conoscenza e del libero volere” (p. 177).

 

 

• “In questo librarsi al di sopra dell’essere del mondo, l’uomo sperimenta l’essere dell’io,

si sperimenta come entità autocosciente”: si sperimenta cioè come ego,

mentre sperimenta come non-ego

“la vera figura dei suoi impulsi interiori, come pure quella del suo mondo circostante”.

 

Ascoltate quanto dice in proposito Hegel: “La filosofia kantiana riporta bensì l’essenzialità all’autocoscienza, ma a quest’essenza dell’autocoscienza, cioè a questa autocoscienza pura, non può procacciare ancora alcuna realtà, né scoprire in essa medesima l’essere” (7).

Kant ha infatti un presagio, al di là dell’ego, dell’Io “trascendentale”, ma tale Io (quale unità originaria delle categorie) è solo un Io penso (al pari dell’Io “assoluto” di Fichte), e non anche un Io voglio in grado di dar ragione, vuoi dell’essere dell’uomo (“della vera figura dei suoi impulsi interiori”), vuoi dell’essere del mondo (“circostante”).

 

Qual è dunque il compito? E’ ovvio: quello di

riunire l’Io del pensare all’Io del volere,

per riunire così la realtà di noi stessi alla realtà del mondo

(ricordate la prima massima? “L’antroposofia è una via della conoscenza

che vorrebbe condurre lo spirituale che è nell’uomo allo spirituale che è nell’universo…”).

E come perseguire un tale obiettivo? 

Non pensando al solito modo cose nuove, bensì pensando in modo nuovo le solite cose.

 

• “Oggi – afferma Steiner –

l’umanità deve limitarsi a   c o n o s c e r e   in modo nuovo, in modo conforme alla scienza dello spirito,

prima di poter  a g i r e  in modo conforme alla stessa scienza dello spirito” (8).

 

Dicono gli orientali che la bellezza è negli occhi di chi guarda;

negli occhi di chi guarda, prima ancora della bellezza, c’è però la verità.

Non sto parlando, ovviamente, dei sensi fisici,

ma di quelli (spirituali) in grado di cogliere ciò che nel reale è vivo, qualitativo ed essenziale.

 

Dice Steiner: • “Sopra di lui il cosmo extraterreno, sotto di lui, nella sfera terrestre, un mondo la cui essenzialità rimane occulta; nel mezzo la manifestazione dell’“io” libero, la cui essenzialità irraggia nel pieno splendore della conoscenza e del libero volere”.

 

L’individualità umana (è questo il titolo – ricordate? – di un capitolo de La filosofia della libertà)

sta dunque in mezzo,

tra una realtà superiore (il “cosmo extraterreno”)    e una inferiore (la “sfera terrestre”),

così come l’anima sta in mezzo, tra lo spirito e il corpo.

 

Abbiamo visto che, nella nostra esperienza ordinaria, conosciamo soltanto due cose:

le rappresentazioni bidimensionali      •  e le immagini percettive tridimensionali.

 

Ebbene, è in mezzo a queste due realtà, cioè

tra quella del concetto, di per sé luciferica,    •  e quella della percezione (sensibile), di per sé arimanica,

che sta quell’Io “la cui essenzialità irraggia nel pieno splendore della conoscenza e del libero volere”.

Ma noi lo ignoriamo, così come ignoriamo, lo ripeto,

tanto ciò che è alle spalle delle rappresentazioni,    quanto ciò che è alle spalle delle immagini percettive.

 

Solo La filosofia della libertà ci permette di capire

che la rappresentazione nasce dall’incontro tra il concetto e il percetto,

e che l’oggetto è una realtà unitaria (una entelechia) che, nell’incontro con l’uomo, si divide in due,

per darsi, alla attività percettiva, quale percetto    e, alla attività pensante, quale concetto.

 

Ma che cosa succede? Succede che, ignorando di essere noi a separare queste due realtà, crediamo allora che sia il mondo a essere diviso in due (ad esempio, in una res extensa e in una res cogitans, in un fenomeno e in un noumeno o in un immanente e in un trascendente).

(Ho già fatto notare, una sera, che, nell’attività conoscitiva, l’uomo “mette di suo”, o di soggettivo, la separazione del pensare dal percepire, vale a dire del concetto oggettivo dal percetto oggettivo, mentre Kant è convinto che ci “metta di suo” il pensare, vale a dire la soggettiva rappresentazione.)

 

Il luogo dell’uomo

non è dunque il luogo (incosciente) del concetto né quello (incosciente) del percetto,

bensì il luogo (cosciente) della rappresentazione

(tanto che potremmo dire: “Dimmi come ti rappresenti il mondo, e ti dirò chi sei”).

 

E’ importante realizzarlo, dal momento ch’è nello stesso centro (nello stesso Io) sul quale s’impernia l’ordinaria rappresentazione che siamo chiamati a imperniare anche l’immaginazione, l’ispirazione e l’intuizione.

Come l’ego, infatti, è il soggetto dell’autocoscienza rappresentativa,

così il “Sé spirituale”, lo “Spirito vitale” e l’”Uomo spirituale”, sono i soggetti, rispettivamente,

dell’autocoscienza immaginativa,  dell’autocoscienza ispirata  e dell’autocoscienza intuitiva.

 

Chiunque intenda davvero sviluppare la propria umanità

deve pertanto cominciare con lo sviluppare il proprio pensiero,

giacché è dallo sviluppo del pensiero che dipende quello della coscienza e dell’autocoscienza,

ed è dallo sviluppo della coscienza e dell’autocoscienza (Mater Dei) che dipende quello dell’Io.

 

 

Diversamente avviene nello stato di sonno.

Ivi l’uomo, nel suo corpo astrale e nel suo io, vive in seno alla vita germinante della terra.

Quando l’uomo è immerso nel sonno senza sogni,

nel suo mondo circostante agisce un’intensissima “volontà di entrare nella vita”. E i sogni sono compenetrati di questa vita,

ma non così fortemente che l’uomo non possa sperimentarli in una specie di semicoscienza.

In questo semicosciente guardare ai sogni, si vede la forza per opera della quale l’entità umana viene formata dal cosmo.

Nei bagliori di luce del sogno diventa visibile come l’astrale fluisca nel corpo eterico a vivificare l’uomo.

In tale baluginare di luce il pensiero vive ancora.

Soltanto dopo il risveglio viene abbracciato da quelle forze che lo riducono a qualcosa di morto, a un’ombra” (p. 177).

 

 

Il sogno, in quanto residuo di uno stato di coscienza pre-cerebrale o pre-intellettuale,

conserva i caratteri dell’immaginazione.

Ciò lo rende a tal punto diverso dal pensiero della veglia da farcelo sembrare illogico o assurdo.

Ma non è così, in quanto il sogno ha una sua logica, ch’è per l’appunto una logica immaginativa o simbolica c

he riflette (sul piano eterico) l’attività delle entità spirituali (agenti sul piano astrale).

Crediamo, in genere, che si lavori di giorno e si riposi di notte. In realtà, si lavora di giorno e di notte: con la differenza, però, che di giorno si lavora noi, mentre di notte si lavora in noi per rimediare al logorio prodotto dalla vita diurna.

 

Ho ricordato, poco fa, l’immagine dell’uomo che sta con la testa fuori dell’acqua e con il resto del corpo immerso. Questa immagine può aiutarci a capire che non appena varchiamo le colonne d’Ercole del polo cefalico (ch’è, per dirla alla buona, una sorta di “periscopio” con il quale l’Io reale osserva e pensa quanto lo circonda), entriamo in un mondo in cui sono presenti e attive le entità spirituali, e nel quale perdiamo per ciò stesso la coscienza ordinaria (che essendo vincolata al sensibile, non è alla loro altezza).

L’abbiamo detto: penetrare nel mondo spirituale non è difficile, giacché basta andare a dormire. Arduo, invece, è penetrarvi coscientemente.

A tal fine, non possiamo far altro che sviluppare i superiori gradi di coscienza: ossia dei gradi che, in quanto superiori (a quello – s’intende – dell’abituale coscienza di veglia), ci permettono di penetrare lucidamente in quelli inferiori (di sogno, di sonno e di morte) per illuminarli, trasformarli e redimerli.

 

 

È importante questo nesso fra rappresentazione di sogno e pensiero sveglio.

L’uomo pensa nelle medesime forze mediante le quali egli cresce e vive.

Ma affinché egli diventi pensatore, quelle forze devono morire” (p. 177).

 

 

Abbiamo detto, sere fa, che il neonato non pensa perché è impegnato a plasmare il proprio corpo, ma che, più tardi, una parte delle forze plasmatrici (eteriche) viene sottratta a tale compito per essere messa al servizio, in forma di pensiero, della coscienza e dell’autocoscienza.

Se tale parte rimanesse viva (cioè, biologica o fisiologica), non potremmo diventare coscienti.

 

Prendete ad esempio l’acqua. Vi ci volete specchiare e rimirare?

Bene, bisogna allora che sia ferma (di un mare calmissimo, non si dice appunto ch’è uno “specchio”?).

Perché il sistema neurosensoriale (in specie la corteccia) diventi altrettanto “fermo”, e faccia così da specchio,

deve essere dunque abbandonato dalle forze eteriche (di vita).

 

Pensate alla morte. Sappiamo che differisce dal sonno perché, durante il sonno, il corpo eterico rimane legato al corpo fisico, mentre con la morte se ne separa.

Con l’avvento della morte, il corpo eterico si separa dunque dall’intero corpo fisico, mentre, con l’avvento della coscienza (intellettuale), si separa soltanto dagli organi deputati a rispecchiarlo o rifletterlo.

Ricordiamoci che lo spirito si presenta  •   o come spirito      •   o come natura.

Da questo punto di vista, potremmo paragonarlo a un attore. Avrete notato che fa un certo effetto incontrare un attore che si è visto, fino allora, soltanto sullo schermo. Perché fa effetto? Perché lo si è sempre visto rappresentato (cioè a due dimensioni) nei panni dei personaggi che ha interpretato, e mai quindi dal vivo o di persona.

 

Anche lo spirito, però, lo vediamo sempre nei panni della nostra natura, e mai dal vivo o di persona.

Lo vediamo infatti rivestito dei panni della sfera metabolica e degli arti (incosciente) e dei panni della sfera ritmica o mediana (subcosciente); lo vediamo invece svestito nella sfera cefalica (cosciente), ma non ancora dal vivo o di persona (bensì quale “natura morta”).

Non lo vediamo ancora dal vivo o di persona, perché lo vediamo, sì, a nudo, ma solo di riflesso: come si vede ad esempio un pittore nell’autoritratto (è questa – lo ricordo ancora – l’”identità riflessa” di cui parla Scaligero).

Potremmo perciò dire, volendo, che

il nostro impegno conoscitivo consiste

•   nel partire dall’autoritratto dello spirito (dal pensiero riflesso)

•   per arrivare a conoscere e ad amare il suo autore: ossia lo spirito vivente (il pensiero vivente).

 

 

Questo è il punto nel quale può sorgere una giusta comprensione del perché l’uomo, pensando, afferri la realtà.

Nei suoi pensieri egli ha la morta immagine di ciò che lo forma dalla realtà vivente.

La morta immagine: ma tale morta immagine è il prodotto dell’attività del sommo pittore, del cosmo stesso.

Dall’immagine è sì assente la vita. Se non ne fosse assente, l’io non potrebbe dispiegarsi.

E nell’immagine sta tutto il contenuto dell’universo nella sua magnificenza” (p. 178).

 

 

Vedete: “Nei suoi pensieri egli ha la morta immagine di ciò che lo forma dalla realtà vivente”:

vale a dire, ha il riflesso o “la morta immagine” dello spirito o del pensiero vivente (eterico).

 

Spero sia chiaro, a questo punto, il perché ho poc’anzi tessuto, per così dire, l’elogio della rappresentazione.

Patiamo i suoi limiti, ma li patiamo soltanto perché oggi ci viene richiesto di superare tale livello di coscienza. Parafrasando Aurobindo (che diceva, l’ho ricordato una sera: “L’ego fu un aiuto, l’ego è un ostacolo”), potremmo quindi dire: “La rappresentazione fu un aiuto, la rappresentazione è un ostacolo”.

Pensate, per dirne solo una, a Croce. Qual è il suo limite? Proprio quello di credere che l’ordinario pensiero riflesso sia lo spirito (9). In questo c’è del vero e c’è del falso: c’è del vero, giacché il riflesso dello spirito ritrae in effetti lo spirito, così come la foto, che so, di Totò ritrae in effetti Totò, ma c’è pure del falso, poiché appunto lo ritrae, e non ce lo presenta dal vivo o di persona.

E’ questa una delle più importanti differenze tra l’idealismo filosofico e la scienza dello spirito: il primo (a parte Hegel e soprattutto Gentile) vede di fatto lo spirito nel pensiero ordinario; la seconda lo vede invece attraverso o mediante il pensiero ordinario.

 

Non dobbiamo dunque identificare lo spirito con l’abituale rappresentare, bensì distinguere il pensiero vivente

dal suo spento e abituale riflesso, sforzandoci di risalire (mediante l’esercizio interiore) dal secondo al primo.

Perdonatemi, se ricordo, per l’ennesima volta, il detto Zen: “La Luna riflessa nello stagno non è la Luna”.

Poche altre affermazioni sono in grado, come questa, di aiutarci a capire che nostro primo compito

è realizzare (a differenza di quanto fanno le odierne neuroscienze) che la Luna riflessa non è la Luna,

e che nostro secondo compito è risalire, muovendo dalla Luna riflessa, alla Luna reale.

 

 

Già nella mia Filosofia della libertà avevo indicato questa relazione interiore tra pensare e realtà universale,

per quel tanto che era allora possibile nel contesto di quell’opera. Precisamente nel punto in cui parlavo

del ponte che dalle profondità dell’io pensante conduce alle profondità della realtà della natura” (p. 178).

 

 

• Quali sono le “profondità dell’io pensante”? Quelle che stanno alle spalle della rappresentazione.

• E quali sono le profondità della “realtà universale”? Quelle che stanno alle spalle della percezione.

Ripeto:

dal momento che la nostra coscienza ordinaria è limitata,

• da una parte, dalla rappresentazione  • e, dall’altra, dall’immagine percettiva,

è solo penetrando grado a grado nelle profondità che stanno alle spalle dell’una e dell’altra

che ci è possibile edificare il “ponte”

• che “dalle profondità dell’io pensante    •  conduce alle profondità della realtà della natura”.

 

 

Il sonno estingue la coscienza abituale, perché esso conduce nella vita germogliante e fiorente della terra,

nel macrocosmo in via di divenire. Se questa estinzione viene superata dalla coscienza immaginativa,

dinanzi all’anima umana non appare allora una terra delimitata in rigidi contorni nei regni minerale, vegetale e animale,

ma piuttosto un processo vivente che si accende in seno alla terra e fiammeggia fuori nel macrocosmo” (p. 178).

 

 

Quali sono questi “rigidi contorni”?

E’ facile: quelli spaziali e statici dell’ordinaria coscienza intellettuale o rappresentativa.

Pensate al tempo: usiamo dividerlo in passato, presente e futuro.

Ma cos’è che così dividiamo? Che cos’hanno in comune tali scansioni? E’ ovvio: l’essere del tempo.

Già, ma qual è quell’essere che si presenta

• in un caso come passato (Luna),  • in un altro come presente (Terra),  • e in un altro ancora come futuro (Sole)?

(Per gli egizi, ad esempio, era Iside. Nel suo tempio era scritto: “Io sono ciò che fu, ciò che è, ciò che sarà; nessun mortale può sollevare il mio velo”. Si noti che “mortale” è l’ego, non l’Io.)

 

La coscienza rappresentativa non può rispondere a tali interrogativi, perché

• non si può capire una realtà che si muove (come il tempo)

• utilizzando un pensiero che

• o non si muove (come lo spazio)  • o si muove in modo discreto (come una macchina),

e non perciò in sintonia col moto fluido e continuo del tempo e della vita.

 

Lo riprova il fatto che, quando si penetra nella sfera del sogno, la coscienza rappresentativa si spegne,

mentre quella immaginativa si accende, poiché procede appunto in modo fluido e continuo come il tempo e la vita.

• Sviluppare questo superiore livello di coscienza equivale dunque a scoprire un’altra dimensione del reale.

Pensate a un cieco nato che, grazie a un intervento chirurgico, prenda a vedere

e paragonate il modo in cui sperimenta adesso la realtà al modo in cui la sperimentava prima dell’operazione.

 

 

Avviene proprio che l’uomo, allo stato di veglia, deve sollevarsi dall’essere dell’universo,

con l’essere del proprio io, per giungere alla libera autocoscienza.

Nel sonno egli si ricongiunge poi all’esistenza universale.

Tale è nel presente momento cosmico il ritmo tra l’esistenza umana terrena al di fuori dell’“interiorità” dell’universo,

con esperienza del proprio essere, e l’esistenza in seno all’“interiorità” dell’universo,

con estinzione della coscienza del proprio essere” (p. 178).

 

 

Il “sollevarsi” dell’uomo, allo stato di veglia, “dall’essere dell’universo”

può essere rappresentato, come abbiamo visto, dalla testa che emerge dall’acqua.

Anche la parte emersa di un iceberg può rappresentare la testa,

così come la sua parte immersa può rappresentare il restante organismo.

Allo stato di veglia, viviamo nella parte emersa (“per giungere alla libera autocoscienza”),

mentre, allo stato di sonno, viviamo nella parte immersa (nell’“esistenza universale”).

 

E’ l’Io reale, “nel presente momento cosmico”, a oscillare ritmicamente

• “tra l’esistenza umana terrena al di fuori dell’“interiorità” dell’universo, con esperienza del proprio essere” quale ego,

• e “l’esistenza in seno all’“interiorità” dell’universo, con estinzione della coscienza del proprio essere” quale non-ego.

 

 

Nella condizione fra la morte e una nuova nascita l’io dell’uomo vive nella cerchia degli esseri del mondo spirituale.

Ivi entra nella coscienza tutto ciò che se ne sottrae durante la vita terrena di veglia.

Sorgono le forze macrocosmiche, dalla pienezza della loro vita in un passato remotissimo fino al loro morto essere presente.

Ma sorgono anche le forze terrene che sono il germe del macrocosmo in via di divenire.

E l’uomo guarda ai suoi stati di sonno, come durante la vita sulla terra guarda la terra risplendente nel sole.

Solo per il fatto che il macrocosmo, come è al presente, è diventato cosa morta,

l’uomo può vivere un’esistenza fra la morte e una nuova nascita che, di fronte alla vita terrena di veglia,

significa un risveglio superiore” (p. 179).

 

 

Vengono qui messi a confronto non più la veglia e il sonno,

ma la vita fra nascita e morte e la vita fra morte e nuova nascita.

 

Dopo la morte, entriamo in un mondo di luce, di calore e di saggezza popolato da entità spirituali (nonché dai defunti).

Ebbene, il grado di coscienza che ne abbiamo

dipende in toto dal grado di coscienza che sviluppiamo fra nascita e morte.

Il che vuol dire che

• chi non abbia fatto nulla, fra nascita e morte, per sviluppare la propria coscienza,

• non vedrà nulla del mondo in cui entrerà dopo la morte. Non vedrà nulla perché ne rimarrà abbagliato.

Si tratta infatti di un mondo a tal punto splendente e luminoso

che, se non ci si è preparati a osservarlo durante la vita terrena, può solo accecare.

 

E’ questa un’importante caratteristica della vita fra morte e nuova nascita: ciò che nell’”al di qua” non riusciamo a vedere, perché, per la coscienza ordinaria, è troppo oscuro (troppo incosciente), nell’”al di là” non riusciamo a vederlo, perché, per la coscienza ordinaria, è troppo luminoso (troppo cosciente).

 

 

Un risveglio che rende l’uomo capace di signoreggiare appieno le forze che mostrano nel sogno fuggevoli bagliori di luce.

Tali forze riempiono il cosmo intero. Compenetrano ogni cosa. Da esse l’uomo trae gli impulsi mediante i quali,

nel discendere sulla terra, egli forma il suo corpo, la grande opera d’arte del macrocosmo.

Ciò che nel sogno albeggia, come abbandonato dal sole, vive nel mondo dello spirito compenetrato di sole spirituale,

in attesa che le entità spirituali delle gerarchie superiori, oppure l’uomo, lo suscitino creativamente alla formazione di esseri

(p. 179).

 

 

Di fronte ad affermazioni di questa levatura, e a conclusione di tutto quanto abbiamo letto, mi sento solo di fare una piccola osservazione.

Da tutto ciò, dovrebbe almeno discendere la consapevolezza che non siamo solo testa.

Lo dico, perché oggi impera, come sapete, il “cefalocentrismo”: ossia la convinzione

• che sia il cervello a pensare, sentire e volere,    • e che sia il cervello a vivere e morire (di “morte cerebrale”).

Questa, piaccia o meno, non è però che una forma di fissazione o di monoideismo.

 

E’ quanto mai opportuno ricordare, perciò, che

• la testa è una parte dell’uomo, e non tutto l’uomo: una parte

• che, di per sé, non fa niente (non agisce),    •  ma che ci permette di sapere quel che fa il restante organismo.

 

Per questo, uso dire:   “Il pensiero sa,    il volere fa”;

oppure:                          “Il nervo sa,        il sangue fa” (10).

 

Leggiamo adesso le massime.

Massime 156/157/158 (8 febbraio 1925)

 

 

156 – “Nello stato di veglia, per vivere se stesso nella piena e libera autocoscienza, l’uomo deve rinunciare

all’esperienza del vero aspetto della realtà nella sua esistenza personale e in quella della natura.

Egli si solleva dal mare di questa realtà

per fare del suo proprio io, nelle ombre del pensiero, un’esperienza veramente sua”.

 

 

Allo stato di veglia, siamo tagliati fuori dal “vero aspetto della realtà”

(che non è solo materiale, ma anche vivente, qualitativa ed essenziale).

Osserva in proposito Steiner: “L’orgoglio, per non dire la superbia, della nostra epoca, è il credere di trovarsi solidamente inserita nella realtà. La gente è straordinariamente orgogliosa di questo suo solido inserimento nella realtà. Ma già con i pensieri il nostro tempo non sta affatto nella realtà; ce lo dimostrerà il futuro; il nostro tempo sta nella realtà dei pensieri molto, molto meno di un’epoca passata” (11).

 

 

157) “Nello stato di sonno l’uomo vive con la vita

[cioè non l’osserva, non la pensa, non la studia, ma per l’appunto la vive]

che attornia la terra; ma questa vita estingue la sua autocoscienza”.

 

158) “Nel sognare [ossia tra la veglia e il sonno]

balugina alla semicoscienza [a ciò che sta tra la coscienza e l’incoscienza]

il possente essere universale di cui è intessuta l’entità dell’uomo

e di cui, nella discesa dal mondo dello spirito, egli forma il suo corpo.

Nella vita terrestre questo possente essere universale è portato a morire entro l’uomo

fin nelle ombre del pensiero, perché solo così può servire da fondamento all’uomo autocosciente”.

 

 

Note:

  1. R.Steiner: La missione di Michele – Antroposofica, Milano 1981, p. 10;
  2. G.W.F.Hegel: Fenomenologia dello spirito – La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1996, p. 51;
  3. R.Steiner: L’iniziazione – Antroposofica, Milano 1971, p. 25;
  4. G.W.F.Hegel: Enciclopedia delle scienze filosofiche – Laterza, Roma-Bari 1989, p. 7;
  5. ibid., p. 234;
  6. R.Steiner: L’iniziazione – Antroposofica, Milano 1971, p. 63;
  7. G.W.F.Hegel: Lezioni sulla storia della filosofia – La Nuova Italia, Firenze 1981, vol. 3, II, p. 287;
  8. R.Steiner: Impulsi evolutivi interiori dell’umanità. Goethe e la crisi del secolo diciannovesimo – Antroposofica, Milano 1976, p. 183;
  9. cfr. Noterella 5 luglio 2002;
  10. cfr. Nervi “sensori” e nervi “motori”, 18 settembre 2004;
  11. R.Steiner: Impulsi evolutivi interiori dell’umanità. Goethe e la crisi del secolo diciannovesimo, p. 171.