9° Incontro

Amor, che ne la mente mi ragiona.


 

Continua il quarto capitolo

 

La volta scorsa, abbiamo letto e commentato solo poche righe di questo capitolo. Riprenderemo quindi il suo studio come se lo cominciassimo stasera.

 

Dice Steiner:

 

“Quando qualcuno vede un albero, il suo pensare reagisce sulla sua osservazione:

all’oggetto si aggiunge una controparte ideale, e l’uomo considera l’oggetto

e la controparte ideale come appartenentisi reciprocamente .

(…) Quest’ultima è il concetto dell’oggetto.

(…) I concetti non rimangono però isolati: si riuniscono a formare un insieme secondo certe leggi.

(…) In tal modo i singoli concetti si collegano fra loro in un sistema concettuale chiuso,

nel quale ciascuno ha il suo posto particolare” (p.48).

 

 

Ciò significa, dunque, che per mezzo dell’intelletto afferriamo i singoli concetti,

mentre per mezzo della ragione li colleghiamo fra loro – come dice Steiner –

“in un sistema concettuale chiuso”.

 

Vi ricordate della “tavola pitagorica” che si trovava quasi sempre stampata (almeno ai miei tempi) sull’ultima pagina dei quaderni di scuola? Ebbene, immaginate di ritagliarne tutti i numeri in modo da ridurla a un mucchietto di quadratini, di prelevare poi da questo un quadratino alla volta rimettendo ciascun numero al suo posto e ricomponendo così la tavola. Orbene, se paragoniamo questa al “sistema concettuale chiuso” di cui parla Steiner, e ogni numero al singolo concetto, ci si chiariscono allora e la funzione analitica svolta dall’intelletto e quella sintetica svolta dalla ragione. È infatti il primo a scomporre in singoli elementi il “sistema concettuale chiuso” ed è invece la seconda a ricomporlo.

Ma per quale motivo occorre prima scomporre (solvere) e poi ricomporre (coagulare) tale insieme? Perché solo così è possibile passare dalla inconscia sintesi a-priori (naturale) alla cosciente sintesi a-posteriori (spirituale). Perché soltanto così, in altre parole, può nascere, crescere e maturare la nostra coscienza (tale operazione – non lo si dimentichi – riguarda direttamente noi stessi, e non il mondo).

 

Dice Steiner:

 

“Debbo attribuire particolare valore al fatto che qui, a questo punto, si faccia attenzione che io ho preso come punto di partenza il pensare, e non i concetti e le idee, che soltanto mediante il pensare possono essere conquistati, e quindi presuppongono già il pensare”; e aggiunge, fra parentesi: “Faccio espressamente questa osservazione perché in ciò consiste la mia differenza da Hegel: egli pone infatti il concetto come elemento primo ed originario” (pp.48-49).

 

 

Può essere interessante ricordare, a questo proposito, che anche Gentile, nel suo “attualismo”, ha preso quale “punto di partenza il pensare”. L’ha preso, però, quale “punto di partenza” di una “speculazione” o di una “sistematica”, e non di una “osservazione animica secondo il metodo delle scienze naturali”, come recita il secondo sottotitolo de La filosofia della libertà.

Ne La riforma della dialettica hegeliana è contenuto, ad esempio, un breve saggio cui Gentile ha dato questo titolo: L’atto del pensare come atto puro. Un “atto” del genere, tuttavia, necessita, non di essere “dialettizzato” e “sistematizzato”, quanto piuttosto di essere “sperimentato”, e sperimentato – si badi – non in modo sognante o mistico, bensì in modo cosciente e scientifico.

Non a caso, l’“atto puro” di Gentile ha suscitato due diverse reazioni. Una è quella di coloro che hanno temuto (con Croce, e non a torto) che potesse aprire il varco a degli atteggiamenti irrazionali e regressivi (emotivi o volontaristici); l’altra è quella di coloro che gli hanno obiettato di non aver preso le mosse dall’atto del pensare, bensì dalla “rappresentazione del pensare quale atto”: non dal pensare, insomma, ma da un pensato.

C’è da osservare, tuttavia, che questa seconda obiezione evidenzia, suo malgrado, non solo i limiti dell’“attualismo”, ma quelli dell’intera speculazione filosofica (e quindi dell’anima razionale o affettiva). Quello che la vista fa con gli oggetti, l’anima razionale o affettiva (soprattutto nella seconda metà della sua fase di sviluppo) lo fa infatti col pensare: ne apprezza la forma, ma non la sostanza.

E come per sperimentare la sostanza di un oggetto sensibile si deve ricorrere al tatto, così per sperimentare quella del pensare si deve ricorrere a un grado di coscienza superiore: superiore non solo a quello dell’anima razionale o affettiva, ma anche a quello dell’anima cosciente (o, per essere più precisi, della sua prima manifestazione “intellettuale”). Questa seconda, infatti, se ha il pregio di avvertire l’astrattezza o l’inconsistenza dei pensieri cui è dedita la prima, ha però il difetto – come vedremo meglio in seguito – di riversare in tali vuote forme di pensiero, non la sostanza extrasensibile del pensiero stesso, bensì quella sensibile degli oggetti o delle cose.

 

E’ appunto il pensiero reso sterile dall’asservimento ai sensi e all’organo cerebrale, che Scaligero chiama “dialettico”,

distinguendolo da quello “libero dai sensi” che chiama invece “vivente”.

 

Orbene, chiunque non riesca a trasformare l’idea del pensiero “vivente” in una reale esperienza, e non cominci perciò a pensare viventemente, corre il rischio di ridurre perfino tale preziosa idea a mera rappresentazione, finendo così con l’aumentare il già pletorico e ingombrante bagaglio dei propri pensati (“l’erudizione – osserva per l’appunto Hegel – consiste principalmente nel sapere una quantità di cose inutili, che non hanno in sé alcun contenuto e alcun interesse all’infuori di quello costituito appunto dal semplice fatto d’averne conoscenza”).

 

Non tanto è importante, dunque, il cosa si pensa,

quanto piuttosto il come si pensa e, soprattutto, il chi pensa.

 

Dice Steiner:

 

“Il concetto non può venir ricavato dall’osservazione

(…) I concetti si aggiungono all’osservazione” (p.49).

 

 

Si avverte qui una chiara eco dell’annosa diatriba che divide i razionalisti, per i quali le idee sono innate,

dagli empiristi, per i quali sono invece ricavate dall’esperienza (percettiva).

 

Locke – come è noto – concepisce la mente come una tabula rasa, e fa sua la nota espressione di Tommaso d’Aquino: nihil est in intellectu quod non fuerit prius in sensu (nulla vi è “dentro” di noi che non sia stato prima “fuori” di noi).

Nell’esaminare queste due opposte posizioni è comunque necessaria una certa attenzione poiché in entrambe si rintracciano, a un tempo, torti e ragioni.

Il concetto, in effetti, non può essere ricavato dalla sola esperienza o dalla sola percezione,

ma – come dice Steiner – si “aggiunge” a questa.

 

Ma che cosa si ricava allora dall’esperienza? A questa domanda, possiamo rispondere così:

• dall’esperienza non si ricava il concetto,      • bensì la coscienza del concetto (in veste di rappresentazione).

 

• È vero infatti che i concetti, in qualità di essenze delle cose, esistono (in-re)

prima ancora che li si conosca o riconosca (cosa che dà ragione ai razionalisti),

• ma è anche vero che in tanto li si riesce a conoscere o riconoscere (post-rem)

in quanto li si sperimenta o percepisce (cosa che dà ragione agli empiristi).

• Dobbiamo essere perciò grati all’esperienza o alla percezione poiché è in virtù di questa

che riusciamo ad avere coscienza del concetto o dell’idea (quantunque, per ora, solo in modo astratto o riflesso).

 

Eccoci comunque arrivati al punto in cui Steiner cita, commenta e critica un passo in cui Herbert Spencer tenta di esemplificare il modo in cui si darebbe, nell’essere umano, la cosiddetta “spiegazione dei fenomeni”.

Nella speranza di riuscire a rendere più chiara la sostanza delle osservazioni di Steiner, vorrei proporvi il seguente schema:

 

Mondo ideale o del  c o n c e t t o

linea di s o g l i a  ——————————————————————————————-

Mondo reale o della  p e r c e z i o n e

 

Orbene, proviamo ad analizzare in questa luce l’esempio, fatto da Spencer, della pernice che agita l’erba e del fruscìo che giunge alle nostre orecchie, risvegliando così il nostro interesse conoscitivo.

Io dunque cammino “attraverso i campi in un giorno di settembre” quando odo d’improvviso un fruscìo provenire da un punto in cui noto che l’erba si agita. Ma cosa è accaduto in realtà? È accaduto che, nel mondo reale o della percezione, sono stato raggiunto da uno stimolo (il fruscìo dell’erba agitata) che, solo dopo aver attraversato la linea di soglia e raggiunto il mondo ideale o del concetto, si determina o qualifica come effetto. Grazie a questo primo movimento “ascendente”, sono dunque risalito dal piano inferiore sensibile a quello superiore extrasensibile.

Adesso fate bene attenzione perché è su quest’ultimo piano, cioè su quello in cui mi si è dato il concetto di effetto, che mi si dà pure quello di causa. Difatti, nel mondo superiore extrasensibile, un concetto evoca sempre altri concetti: quelli, anzitutto, con i quali gode – per così dire – di un’“affinità elettiva”. Il secondo movimento si svolge dunque all’interno del mondo ideale o del concetto e mi consente di “associare”, al concetto di “effetto”, quello di “causa”. Solo dopo aver trovato il concetto di “causa”, io infatti riattraverso, con un ultimo e inverso movimento, la linea di soglia, ritornando così in quel mondo reale o della percezione in cui, guidato dal “concetto-causa”, scopro infine l’“oggetto-causa” (la pernice). Come ho dunque scoperto, nel mondo superiore extrasensibile, il “concetto-causa” (o la causa come “concetto”), così devo scoprire, in quello inferiore sensibile, l’“oggetto-causa” (o la causa come “percetto”).

 

Lasciatemi dire che è davvero straordinario il poter contemplare movimenti del genere. Si tratta infatti di movimenti sottili e segreti (eterici) che ciascuno di noi compie di continuo, senza rendersene affatto conto (“Padre, perdona loro – dice per l’appunto il Cristo – perché non sanno quello che fanno”). Come vedete, non stiamo “filosofando”, ma stiamo “stimolando” un vero e proprio risveglio dell’autocoscienza.

Educare e sviluppare una coscienza superiore significa infatti imparare a “sapere” quel che si “fa”: significa cioè penetrare nella sfera di quei processi incoscienti (in cui sono i concetti), subcoscienti (in cui si svolge il giudicare) e precoscienti (in cui vivono le immaginazioni) che presiedono alla ordinaria “cognizione sensibile” o, per dirla con Spencer, alla ordinaria “spiegazione dei fenomeni”.

 

Quest’ultimo (ma non è il solo) crede di potersela cavare riducendo l’oggettiva e necessaria associazione tra il concetto di “effetto” e quello di “causa” a un semplice fatto di abitudine. Dalla circostanza, ad esempio, che ogni sera osserviamo la luce tramontare con il sole, e che ogni mattina la vediamo risorgere con lo stesso, noi trarremmo – a suo parere – la soggettiva conclusione che la luce è effetto del sole e che il sole è causa della luce. Ma questo è un errore. Non si può spiegare infatti col tempo quello che non appartiene al tempo, ma alla qualità. E l’affinità tra il concetto di “effetto” e quello di “causa” è appunto un’affinità di ordine qualitativo: ossia di un ordine che trascende sia quello dello spazio sia quello del tempo.

 

Dice infatti Steiner:

 

“Questi concetti di causa ed effetto io non posso mai ottenerli dalla semplice osservazione

per quanto estesa a numerosissimi casi” (p.50).

 

 

Il che vuol dire: per quanto estesa nello spazio e prolungata nel tempo.

Abbiamo già distinto, una volta, la logica dello “spazio” da quella del “tempo”, e la logica del “tempo” da quella della “qualità”. Ebbene, si tratta ora di capire che è appunto la logica della qualità a far incontrare e sposare il concetto di “causa” con quello di “effetto”.

Non si giudichi “eccessivo” un siffatto modo di esprimersi poiché la logica della qualità altro non è che la logica del carattere o, meglio ancora, dell’anima; e quando leggiamo Le nozze chimiche di Christian Rosenkreuz, o sentiamo Jung parlare a più riprese della coniunctio oppositorum o del mysterium coniunctionis, è appunto a tale logica che dobbiamo pensare: cioè a quella che spinge ogni concetto, separato e isolato dall’intelletto, a ritrovare e riabbracciare la propria “anima gemella”. La relazione tra il concetto di “effetto” e quello di “causa” non ha dunque carattere “accidentale”, bensì “necessario”.

 

Dice Steiner:

 

“Se si pretende che una “scienza rigorosamente oggettiva”

ricavi il suo contenuto soltanto dall’osservazione,

si deve nello stesso tempo pretendere che essa rinunzi del tutto al pensare.

Questo, infatti, per sua natura va sempre al di là dell’osservato” (p.50).

 

 

Si racconta che un antico filosofo, per potersi più profondamente dedicare alla propria riflessione senza essere distratto dal mondo, volle farsi accecare. Vera o falsa che sia, questa storia testimonia comunque del fatto che i filosofi si basano più sul pensare che sul percepire, mentre gli scienziati si basano, viceversa, più sul percepire che sul pensare.

A cosa serve infatti un microscopio, se non appunto a potenziare le capacità percettive degli occhi? È di certo innegabile che, su questo piano, si siano fatti degli enormi progressi. Quasi ogni giorno, ormai, la tecnologia mette a nostra disposizione strumenti nuovi e sempre più sofisticati.

Non c’è nessuno, tuttavia, che sia riuscito a pensare in modo diverso o più profondo per il solo fatto di essere riuscito a vedere più cose (“Dalla tecnica – osserva appunto Friedrich Georg Junger – possiamo attenderci solo le soluzioni a tutti i problemi che si affrontano e si risolvono tecnicamente; non possiamo attenderci nulla che sia al di là del tecnicamente possibile”).

Al riguardo, Max Horkheimer fa giustamente notare, nel suo celebre Eclisse della ragione, che siamo adesso arrivati a utilizzare degli strumenti sempre più “intelligenti” per perseguire dei fini sempre più “stupidi”; e ciò dipenderebbe – a suo dire – dal fatto che la ragione “strumentale” (o dei “mezzi”) ha ormai preso un nocivo sopravvento su quella “oggettiva” (o dei “fini”).

In effetti, non ha torto. Basta pensare ad esempio alla televisione e riflettere sulla macroscopica differenza che c’è tra l’intelligenza che l’ha immaginata e realizzata (quale strumento) e quella che, immaginandone e realizzandone i programmi, è deputata invece a servirsene.

 

• Se i filosofi dovrebbero dunque imparare a “sporcarsi” le mani con l’esperienza,

• gli scienziati dovrebbero imparare invece a “lavarsele” con il pensiero.

 

A tale proposito, vorrei raccontarvi una gustosa storiella. C’è uno scienziato che, chiuso nel suo laboratorio, si accinge, dopo anni di ricerca, a effettuare un esperimento decisivo. Davanti a sé, su un tavolo, ha una pulce, una lente d’ingrandimento, una matita e un taccuino. Con trepidazione, prende tra le dita la pulce, la osserva con la lente, le strappa una zampetta, la riposa sul tavolo e le ìntima: “Salta!”. Benché mutilata, la poveretta esegue l’ordine e salta. Compiaciuto, lo scienziato la riprende e, dopo averle strappato un’altra zampetta, ripete il comando e constata che la pulce, seppure con più difficoltà, continua a saltare. Va avanti così finché alla malcapitata non rimane alcuna zampetta. È il momento decisivo. Emozionato, lo scienziato l’osserva prima attentamente con la lente e poi di nuovo le ordina: “Salta!”. Ma la sventurata bestiola non si muove. Allora lo scienziato, sempre più teso, le urla: “Salta!”. Glielo urla con sempre maggor foga una, due, tre volte, e poi, sicuro ormai che la pulce non sia più in grado di obbedirgli, si alza di scatto, afferra la matita e, raggiante, scrive sul suo taccuino: “Oggi, sono riuscito finalmente a dimostrare che la pulce, allorché rimane senza zampe, diventa sorda!”.

Certo, non è che una storiella: una storiella, oltretutto, sulla quale non è difficile immaginare quanto avrebbero da ridire gli scienziati. Purtuttavia, ha il pregio di richiamare in modo divertente l’attenzione su un fatto molto serio: sul fatto, ossia, ch’è davvero possibile che da una serie di dati oggettivamente percepiti si possano trarre, soggettivamente, delle conclusioni sbagliate.

 

Ascoltate, ad esempio, quanto dice Goethe, in Natura e scienza: • “Non ci si guarderà mai abbastanza dal trarre da esperimenti conclusioni affrettate; giacché è appunto al passaggio dall’esperienza al giudizio, dalla conoscenza all’applicazione, che, come ad una stretta, tutti i nemici segreti dell’uomo stanno in agguato; fantasia, impazienza, precipitazione, arroganza, caparbietà, forma mentis, preconcetti, pigrizia, leggerezza, volubilità o come si vogliano altrimenti chiamare questi nemici con tutto il loro seguito, ci aspettano al varco, e inopinatamente sopraffanno sia l’attivo uomo di mondo, sia lo studioso pacato e apparentemente alieno da passioni”.

 

Proprio per questo, Steiner ci ricorda (in altra sede) che non c’è un solo dato sperimentale della moderna ricerca scientifica che sia in contrasto con le conclusioni o con le affermazioni della scienza dello spirito, mentre ci sono molte conclusioni o molte affermazioni della moderna ricerca scientifica che sono in contrasto con quelle della scienza dello spirito. Tutto il problema sta infatti nel vedere come vengano pensati o messi tra loro in rapporto i dati forniti dalla percezione.

 

Dico a bella posta “dalla percezione” e non “dall’esperienza” perché, ove si fosse capaci di fare sul serio “esperienza” dell’esperienza, ben si saprebbe allora che questa comprende tanto il percepire che il pensare (allo stesso modo in cui l’acqua comprende tanto l’idrogeno che l’ossigeno). Del resto, a chi non è capitato d’incontrare nella vita di tutti i giorni qualcuno che vantando la necessità di arricchire la propria anima con sempre nuove “esperienze” non fa altro, in realtà, che ripetere sempre gli stessi errori? Ma si ripetono gli stessi errori solo perché l’“esperienza” non ha insegnato nulla; e non ha insegnato nulla solo perché non è stata sufficientemente pensata: solo perché, ossia, la sua componente “reale” o “esistenziale” ha preso il sopravvento su quella “ideale” o “essenziale”, e questo è potuto succedere in quanto, pur essendo sgorgata dal piano oggettivo della percezione, l’esperienza ha poi arrestato il proprio movimento su quello soggettivo della sensazione.

A ben vedere, infatti, quando diciamo di voler fare delle “esperienze di vita”, raramente ci accorgiamo di non voler far altro che passare da una sensazione all’altra. In tal modo, tuttavia, la realtà viene goduta o sofferta, ma mai penetrata o conosciuta. Ciò non vuol dire – intendiamoci – che la realtà non debba essere goduta o sofferta, bensì vuol dire che non ci si dovrebbe arrestare a questo livello della sua esperienza: che non ci si dovrebbe arrestare, cioè, alle sensazioni o ai sentimenti del reale, ma li si dovrebbe trasformare in concetti e in idee.

 

Permettete che vi legga, al riguardo, quel che dice Steiner, in Teosofia:

• “Per chi indaghi, piacere e dispiacere, gioia e dolore non devono essere se non l’occasione di imparare dalle cose. Egli non si rende in tal modo insensibile al piacere e al dispiacere, ma si solleva al di sopra di essi perché essi gli rivelino la natura delle cose. Chi progredisca in questa direzione, impara quali maestri siano la gioia e il dolore”.

 

Abbiamo dunque visto che, per conoscere,

• bisogna che qualcosa venga incontro a noi partendo dal mondo (il percetto)

• e che qualcos’altro vada incontro al mondo partendo da noi (il concetto).

 

Ebbene Scaligero, nel Dell’amore immortale, così scrive: • “Ciò che dalla natura si libera e fiorisce come pensiero, è l’iniziale tessuto dell’amore. Il volgere del sensibile all’idea e il ricercarsi dell’idea nel sensibile”.

Da questo punto di vista, possiamo perciò paragonare l’elemento “dionisiaco” del percetto (o della forza) e quello “apollineo” del concetto (o della forma) ai manzoniani “promessi sposi”, e tutti quelli che, in un modo o nell’altro, ostacolano l’incontro tra il percetto (Renzo) e il concetto (Lucia) a quel don Rodrigo che, tramite i suoi bravi, manda a dire appunto, a don Abbondio, che un siffatto matrimonio “non s’ha da fare, né domani, né mai”.

Abbiamo visto, a suo tempo, che costoro sono, in genere, o dei dualisti (“psicofisicalisti” o “interazionisti”), o dei monisti (“materialisti”, “spiritualisti” o “fenomenalisti”), o dei fautori di un compromesso (“duplice aspettismo” o “epifenomenalismo”).

Ebbene, spero vogliate perdonarmi se, dopo aver paragonato i dualisti a don Rodrigo, non so resistere alla tentazione di paragonare i monisti (ossia quelli che, operando una reductio ad unum, sopprimono uno dei due membri della coppia) a dei soggetti dediti all’“onanismo”, e i fautori di un compromesso a dei soggetti, non meno singolari, che provano piacere nell’arrestarsi sempre ai “preliminari”, e che mai arrivano, quindi, a consumare un rapporto completo. Tutti costoro, comunque, condividono la preoccupazione di evitare che il reale e l’ideale, incontrandosi e unendosi, possano generare, nell’uomo, il Figlio dell’uomo.

Ha detto una volta Berdjaeff: “La vera conoscenza è sempre un atto coniugale”.

A queste parole, vorrei solo aggiungere che

la vera conoscenza, in tanto è un “atto coniugale”, in quanto è l’incontro fecondo dell’essere con l’essere:

quel solo incontro, vale a dire, dal quale può nascere, come autocoscienza, lo spirito.

 

 

“Ma ora – dice Steiner – è il momento di passare dal pensare all’essere pensante,

perché attraverso l’essere pensante il pensare viene collegato con l’osservazione.

La coscienza umana è il palcoscenico dove concetto e osservazione si incontrano e vengono collegati tra loro” (p.50).

 

 

Come vedete, la metafora de I promessi sposi è più che una metafora.

“La coscienza umana – dice Steiner –

è il palcoscenico dove concetto e osservazione si incontrano e vengono collegati tra loro”.

 

Si potrebbe anche dire, allora, che la coscienza umana è il “tempio” nel quale si celebrano le nozze del concetto e del percetto: ossia, la sacra unione (jerosgamos) della qualità “femminile” del primo (la forma) con quella “maschile” del secondo (la forza). È appunto per questo che Scaligero – come abbiamo visto – parla dell’atto del conoscere come di un atto d’amore: ossia, di un atto che mira a riunire le due parti in cui fu diviso l’androgino originario.

 

In ogni caso, per passare – come dice Steiner – “dal pensare all’essere pensante” bisogna avere il coraggio di tuffarsi nelle acque del pensare e la forza di risalire, nuotando contro corrente, alla loro sorgente. L’impresa è tutta qui, ma esige volontà ed esercizio perché la nostra natura va spontaneamente in senso inverso (dal pensare al pensato).

Voi sapete, ad esempio, che tra i diversi esercizi interiori suggeriti dalla scienza dello spirito c’è anche quello cosiddetto della “giornata a ritroso”. Si tratta, alla sera e prima di addormentarsi, di ripercorre in modo sintetico, ma soprattutto a ritroso, gli eventi che hanno caratterizzato la giornata. Ma a cosa serve questo esercizio? Serve proprio a rafforzare il volere nel pensare, in quanto ci costringe ad andare innaturalmente dalla sera alla mattina, e a non abbandonarci al flusso dei ricordi che andrebbe invece naturalmente dalla mattina alla sera.

 

In effetti, abbiamo l’abitudine di guardare sempre e soltanto “avanti” a noi: laddove, ossia, c’è sempre e soltanto il pensato o la rappresentazione. Ed è invece “dietro” il pensato che c’è il pensare, ed è “dietro” il pensare che c’è infine il pensante. Per passare dal primo al secondo, e poi dal secondo al terzo, non possiamo quindi valerci della forza incosciente della natura, ma dobbiamo valerci di quella cosciente della volontà. Insomma, se il pensare – come abbiamo detto e ripetuto – è un atto dell’Io (un divenire dell’essere) o un Io in atto (un essere in divenire), si tratta allora di impegnarci a risalire, mediante l’atto (il divenire), all’Io (all’essere).

 

Dice Steiner:

 

“In quanto l’uomo osserva un oggetto, questo gli appare come dato:

in quanto pensa, egli appare a se stesso come attivo.

Considera la cosa come oggetto, e se stesso come soggetto pensante.

In quanto dirige il suo pensare sull’osservazione, ha coscienza degli oggetti;

in quanto dirige il pensare su se stesso, ha coscienza di sé o autocoscienza” (p.50).

 

 

• L’uomo è capace di percepire, ma anche di autopercepirsi.

• Pensando a ciò che percepisce guadagna la coscienza dell’oggetto,

• mentre pensando a ciò che autopercepisce guadagna la coscienza del soggetto o l’autocoscienza.

 

 

“Non si deve però trascurare – prosegue Steiner –

che soltanto con l’aiuto del pensare noi possiamo designarci come soggetto e contrapporci agli oggetti.

Perciò il pensare non deve mai venir considerato come un’attività puramente soggettiva.

Il pensare è al di là di soggetto e oggetto

(…) Non è che il soggetto pensi per il fatto di essere soggetto;

bensì esso appare a se stesso come soggetto perché ha la facoltà di pensare” (pp.50-51).

 

 

Tanto il concetto di “soggetto” quanto quello di “oggetto” sorgono dunque attraverso il pensare.

Abbiamo già visto, quando ci siamo occupati dei concetti di “alto” e “basso”, di “destra” e “sinistra” o di “causa” ed “effetto”, che si tratta di concetti “relativi”. Infatti, ponendo o togliendo il concetto di “oggetto” si pone o toglie pure quello di “soggetto”, e viceversa.

 

Vedete quanto è fragile il fondamento della nostra ordinaria autocoscienza?

E capite quanto sia illusoria, su un fondamento del genere, la speranza di amare?

Perché nasca e si conservi la coscienza dell’Io, ciascuno deve infatti sempre allontanare da sé il non-Io e opporglisi.

Il mondo e tutti gli altri esseri sono quindi un “non-Io”, mentre solo io sono un “Io” (un ego).

 

“Io – dice il Battista – sono una voce che grida nel deserto”.

È questa appunto la voce di quell’io (di quell’ego) che, per avere coscienza di sé, per essere sé stesso,

ha dovuto fare, intorno a sé, “terra bruciata”: ovvero, ha dovuto respingere e allontanare da sé tutto il resto del mondo.

Ecco perché si ha paura di amare veramente. Perché si ha paura di perdere la coscienza dell’Io o di perdersi.

 

Anche quando dormiamo perdiamo la coscienza dell’Io poiché vengono meno i confini che, durante la veglia, ci separano dal mondo e dagli altri. Ma quali sono questi confini? In primo luogo, quelli del corpo. Lo spazio che occupa il nostro corpo non può essere infatti occupato da nessun altro corpo. Come la nostra vita è il nostro tempo, così il nostro corpo è il nostro spazio, ed entrambi, seppure in modo diverso, ci dividono dall’altrui tempo e dall’altrui spazio.

L’ordinaria coscienza dell’Io è dunque una coscienza di quell’Io (di quell’ego) che esiste, nello spazio, come corpo e, nel tempo, come vita (come “biografia”).

 

Ebbene, amare veramente significa incontrare il mondo e l’altro al di là del tempo e dello spazio:

ovvero, laddove essi sono (quali esseri animico-spirituali) e non soltanto appaiono o esistono (quali esseri eterico-fisici).

• Per far questo, occorre però guadagnarsi una coscienza dell’Io che sia capace di conservare sé stessa

anche quando vengono meno i confini che solitamente la limitano

e, limitandola, la distinguono e la separano dal resto del mondo.

• Occorre gudagnarsi, in altri termini, una coscienza dell’Io capace di conservare sé stessa al di là di quella soglia

oltre la quale l’ordinaria autocoscienza è costretta a smarrirsi o a spegnersi nel sonno.

 

Se questo ci è chiaro, ci sarà anche chiaro allora che è soltanto dal vero “essere pensante”

(e non perciò dall’ego che è un “essere pensato”) che può discendere una coscienza di tal genere.

 

Il vero “essere pensante”, dandosi – come dice Steiner – “al di là di soggetto e oggetto”,

è infatti un soggetto oggettivo o un oggetto soggettivo: in una parola, lo spirito

(mentre l’anima è un “soggetto soggettivo” e il corpo è un “oggetto oggettivo”).

 

Perdonate il gioco di parole, ma capirete che quando si sfiorano certi livelli di realtà il nostro linguaggio abituale si dimostra inadeguato, e occorre perciò ricorrere a delle formulazioni alquanto paradossali. Lo testimonia pure il fatto che, parlando come abbiamo appena fatto di un “soggetto oggettivo” o di un “oggetto soggettivo”, viene anche meno la consueta distinzione tra la coscienza (che il soggetto ha dell’oggetto) e l’autocoscienza (che il soggetto ha di sé).

Difatti, in quanto unità o sintesi di soggetto e oggetto, l’Io (non l’ego) riconosce sé nell’oggetto e riconosce l’oggetto in sé, con ciò facendo della “coscienza del mondo” una “coscienza di sé” e della “coscienza di sé” una “coscienza del mondo” (“ogni coscienza di un altro oggetto – dice Hegel – è autocoscienza; io so l’oggetto come mio – esso è mia rappresentazione – e perciò so in esso me stesso”).

Non è un caso, che uno dei pensieri che la scienza dello spirito c’invita a meditare sia proprio questo:

“Uomo, conosci il mondo e conoscerai te stesso; conosci te stesso e conoscerai il mondo”.

 

Tornando a noi, occorre dunque distinguere il soggetto pensato (l’ego) dal soggetto pensante (l’Io),

poiché è quest’ultimo che, in virtù del pensare, comincia a sapere di sé nella forma dell’ego.

• Dalla propria attività pensante, l’Io ricava infatti, quali pensati, tanto il concetto di “soggetto” che quello di “oggetto”.

• E come l’attività pensante sgorga dall’Io, così i concetti di “soggetto” e “oggetto” sgorgano dall’attività pensante.

 

Ciascuno di noi ha dunque la possibilità di evadere dalla prigione della egoità

grazie alla forza del pensare.

Immaginate, ad esempio, di essere caduti in un pozzo buio e profondo, le cui pareti non offrano alcun appiglio per risalire alla superficie, ma in cui penzoli, non si sa da dove, una fune. Orbene, ove paragonassimo il fondo del pozzo all’egoità e la fune al pensare, potremmo allora accorgerci di somigliare, in tutto e per tutto, a degli individui che, convinti ormai che sia il fondo del pozzo, e solo quello, il loro vero spazio, utilizzino la fune per appenderci qualcosa o per trastullarsi, ma mai vi si afferrino per tentare, risalendola, di tornare alla luce.

 

Mi sembra di aver già detto, infatti, che

il pensare è come il bandolo di una matassa

• che, afferrato entro il limite, può portarci oltre il limite,

• o che, afferrato entro l’ego, può portarci oltre l’ego: ovvero, laddove è l’Io quale mondo e il mondo quale Io.

 

Quando mai, infatti, potremmo cogliere l’essenza di un fenomeno se tale essenza non fosse in noi e se noi non fossimo in tale essenza? Ma ciò non significa allora che, al di là dell’apparenza immediata, vi è qualcosa che unisce noi al fenomeno e il fenomeno a noi?

 

Come potete vedere, non è affatto per sentimentalismo che abbiamo associato l’idea del pensare a quella dell’amore.

• Come l’amore (a-mors) vince infatti la morte,

• così il pensare vince quell’ego che altri non è se non il cadavere dell’Io: ovvero, un Io morto

poiché identificato con lo spazio (col sòma) e separato, per ciò stesso, dal mondo, dagli altri e dal suo stesso e vivo essere.

• Proprio il pensare, infatti,

è incessantemente dedito a riunire spiritualmente tutto quanto si presenta materialmente irrelato o separato:

a ricollegare, cioè, i fenomeni tra loro e noi stessi ai fenomeni.

 

Ricordo, a questo proposito, due significativi passi delle lettere che si scambiarono Croce e Gentile negli anni (intorno al 1907) in cui il loro sodalizio cominciava a essere turbato da quel dissenso che li avrebbe portati, in seguito, a interrompere il loro rapporto. “Anch’io nutro fiducia – scrive Croce – che c’intenderemo: c’intenderemo seguitando a pensare…”; “Avete interamente ragione: – risponde Gentile – il pensiero ci metterà d’accordo sempre di più”. Per loro, così purtroppo non è stato: così non è stato, però, perché non solo non hanno “seguitato a pensare”, ma si sono pure attestati sulle proprie diverse posizioni (sui propri diversi pensati).

Il pensare, riportando i pensati – per così dire – dallo stato “solido” a quello “liquido”, dissolve infatti tutte quelle incomprensioni e opposizioni insorte per il suo essersi riversato e rappreso nelle forme conferitegli dalle nostre differenti nature. Occorrerebbe dunque “camminare sulle acque”, ma, essendo ormai tutti noi “uomini di poca fede”, è comprensibile che si nutra, come Pietro, la paura di affogare.

 

Risposta a una domanda

Gli psicologi dicono che un individuo “scotomizza” quando si rifiuta, più o meno inconsciamente, di vedere quegli aspetti di sé o del mondo che possono metterlo in difficoltà o in crisi. Ebbene, se la realtà del pensare – come dice Steiner – passa normalmente “inosservata”, quella del concetto viene addirittura “scotomizzata”. Ordinariamente, infatti, il concetto, quand’anche fossimo capaci di distinguerlo dalla rappresentazione (cosa divenuta attualmente assai rara), non è, per noi, che un “nulla”. Eppure, la moderna esperienza della realtà dello spirito – secondo Scaligero – dovrebbe cominciare proprio con l’esperienza della realtà del concetto.

Come ho detto e ripetuto, è soltanto rafforzando il pensare, per mezzo della concentrazione e della meditazione, che proprio là dove ci appare oggi un “nulla”, possiamo sperare di scoprire domani – come dice Faust – un “tutto”. Per ora, dovremmo avere l’umiltà di ammettere che il nostro pensiero abituale, mentre è all’altezza del non-essere della rappresentazione, non è all’altezza dell’essere del concetto; e non è all’altezza dell’essere del concetto perché non è ancora all’altezza di quel divenire del pensare (del giudicare) dal quale origina la rappresentazione.

A dirla tutta, l’esperienza della realtà del concetto non è, invero, che l’esperienza di una realtà “musicale” (di una delle “note” che danno vita all’“armonia delle sfere”) nella quale il pensare è volere e il volere è pensare, o nella quale la forma è la forza e la forza è la forma.

Ove si consideri, del resto, che tutta la musica del mondo viene composta con sole sette note, non si dovrebbe far fatica a immaginare che anche tutto il pensiero del mondo possa essere edificato con pochi concetti fondamentali: ad esempio, con quei dieci concetti fondamentali che sono, per Aristotele, le categorie (sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, posizione, stato, azione, passione).

 

Secondo lo stagirita, sono appunto queste le “forme”, i “generi”, le “figure” o le “determinazioni” principali in cui si divide l’essere. Ma il semplice apprendere o sapere questo, non basta più. Non nutre più la nostra anima, non la cambia, non la matura, non la fa diventare diversa e migliore. Ciò non dipende però dalle categorie, bensì dal modo inanimato in cui noi, diversamente da Aristotele e dai suoi contemporanei, ci siamo ridotti a pensarle.

Ascoltate, ad esempio, quanto dice Jung, sempre in Psicologia e Alchimia: • “La cultura cristiana ha dimostrato di essere vuota in un modo spaventevole: è una lacca esterna; l’uomo interiore non ne è stato toccato e quindi è rimasto immutato”.

D’accordo, ma su chi ricade la responsabilità di un tale stato di cose? Forse sulla “cultura cristiana”? O non piuttosto su quell’intelletto che non consente mai a ciò che apprende di varcare la soglia che lo divide e lo isola dall’“uomo interiore”? E come pretendere, allora, che tale intelletto, in qualità di strumento dell’uomo esteriore (o di “ragione strumentale”, direbbe Horkheimer), sia in grado di conoscere e trasformare quello interiore?

 

Come vedete, si tratta di un grave equivoco. È come se qualcuno, dopo aver inforcato, senza rendersene conto, degli occhiali con lenti rosse, cominciasse poi a denunciare o a lamentare il fatto che tutto quel che vede abbia irrimediabilmente assunto tale colore. Un equivoco del genere appare oltretutto più grave, ove si pensi che Jung viene universalmente considerato, con Freud, un maestro della psicologia dell’inconscio. Proprio tali indagatori, in verità, avrebbero dovuto accorgersi che, per poter avere libero e oggettivo accesso alla realtà inorganica del mondo, l’intelletto ha dovuto estirpare la vita dai concetti, con ciò però estirpandola dalla stessa anima umana.