23° Incontro

Amor, che ne la mente mi ragiona.


 

Ottavo capitolo

 

Cominceremo stasera ad affrontare la seconda parte del libro,

dedicata al problema etico e intitolata La realtà della libertà.

 

Abbiamo visto, all’inizio del nostro lavoro, che le due parti in cui si divide La filosofia della libertà potrebbero essere anche intitolate La libertà come verità, la prima, e La verità come libertà, la seconda. Se ci siamo fin qui occupati dei presupposti “teoretici” del problema della libertà, d’ora in avanti ci occuperemo quindi delle conseguenze “pratiche” del problema della verità (“Come volontà – scrive infatti Hegel – lo spirito si comporta praticamente”). Benché in altra veste, ci si ripresenterà dunque quel dualismo di “soggetto” e “oggetto” che abbiamo già ampiamente esaminato e discusso dal punto di vista noetico.

 

Come è possibile distinguere, tra i diversi orientamenti morali, quelli “ascetici” da quelli “edonistici” o quelli “egoistici” da quelli “altruistici”, così è possibile distinguere anche quelli autonomi (privilegianti l’io voglio) da quelli eteronomi (privilegianti il tu devi).

Al riguardo, in questo volumetto di Luca Fonnesu dedicato al concetto di “dovere”, viene riportato e tradotto il seguente passo (tratto dalla voce “duty” della Encyclopedia of religion and ethics): • “Qualunque moralità e qualunque etica sono imperniate sul contrasto tra le inclinazioni dell’individuo e qualche standard oggettivo e dotato di autorità al quale queste inclinazioni devono essere subordinate”.

 

Ricordate? In occasione del nostro primo incontro, vi lessi alcune righe della Veritatis splendor (l’enciclica di Giovanni Paolo II dedicata allo Spirito Santo). Ebbene, non vi si diceva appunto che la libertà deve essere subordinata alla verità? E non vi si ribadiva che la morale, per essere assoluta e non relativa, deve essere necessariamente eteronoma? Va riconosciuto, d’altro canto, che la morale autonoma o soggettiva, fondandosi sul soggetto psicologico (sull’ego), e non su quello spirituale (sull’Io), non è finora riuscita a rivendicare la propria indipendenza o autonomia se non al prezzo di una relativizzazione dei propri principi.

Una cosa è infatti il volere dell’“io abituale” (dell’ego), altra il volere dell’Io spirituale; è proprio questo altro volere dell’Io che viene però sperimentato dall’ego (che lo proietta) come il volere di un altro Io, e per ciò stesso come un dovere: come un dovere per di più in contrasto con i desideri, le inclinazioni o gli istinti di quella natura con la quale l’ego si trova normalmente identificato.

 

Che cos’è – si domanda inoltre Fonnesu – a far sì che un “dovere” sia tale? E, citando Thomas Reid (autore degli Essays on the active powers of man del 1788), così risponde: l’obbligo non è un’azione, ma una relazione; ed è pertanto nella “relazione” tra l’agente e l’azione che deve essere ricercato – “il significato teorico più profondo del concetto di “dovere”“.

In ogni caso, la morale eteronoma si basa sull’oggettività della legge (del nomos), mentre quella autonoma si basa sulla soggettività della natura (vale a dire, sulla psiché, sulla physis e sul sòma individuali). Dovremo dunque intraprendere di nuovo una “terza” via: ossia una via che possa condurci al di là tanto della morta e impersonale legge morale quanto della viva e personale legge naturale.

 

Steiner, tuttavia, prima d’intraprendere questo cammino, così ricapitola:

 

“Il mondo si presenta all’uomo come una molteplicità, come una somma di singolarità. Una di queste singolarità, un essere tra gli esseri, è egli stesso. Noi designiamo questo aspetto del mondo semplicemente come dato, e, in quanto non lo sviluppiamo noi per mezzo di un’attività cosciente, ma ce lo troviamo davanti, lo designiamo come percezione” (p.115).

 

 

Abbiamo infatti visto che l’elemento concettuale è posto dal soggetto, mentre quello percettivo è imposto dall’oggetto, e che, percependo, c’incontriamo o ci scontriamo con tutto ciò che ci “pre-esiste”.

 

 

“Entro il mondo delle percezioni – prosegue Steiner – noi percepiamo noi stessi. Questa autopercezione resterebbe semplicemente come una delle tante altre percezioni, se dal mezzo di essa non emergesse qualcosa che si dimostra atto a collegare fra loro le percezioni in generale, e quindi anche la somma di tutte le altre percezioni con quella del nostro sé. Questo qualcosa che emerge non è più percezione pura e semplice, e neppure ce lo troviamo davanti come le percezioni” (p.115).

 

 

Usciamo qui dunque dalla sfera di quanto s’impone o si dà per entrare in quella di ciò che deve essere viceversa posto o dato.

 

“Esso sorge – dice ancora Steiner – per opera di un’attività. In un primo tempo appare legato a ciò che noi percepiamo come nostro sé. Ma, per sua intima natura, si estende al di sopra del sé” (p.115).

 

 

“In un primo tempo”, crediamo infatti che l’ego sia il “soggetto” del pensare, mentre, in un secondo tempo, ci accorgiamo che, essendo sia l’ego sia il non-ego dei “pensati”, il pensare va tanto al di là dell’uno che dell’altro.

 

 

Questo “qualcosa” (il pensare) – dice sempre Steiner – “alle singole percezioni aggiunge qualifiche di natura mentale, che sono in rapporto le une con le altre e che si fondano sopra un intero” (p.115).

 

 

Questo “qualcosa” (il pensare) aggiunge cioè ai singoli “percetti” i “concetti”: quei concetti che – come abbiamo visto – non solo stanno in rapporto gli uni con gli altri, ma scaturiscono anche da quell’”intero” o da quell’insieme che è il mondo delle idee.

 

 

Il pensare – continua – “qualifica mentalmente, come fa per tutte le altre percezioni, anche quello che risulta dall’autopercezione, e lo contrappone agli oggetti come soggetto, come “io” (…) Questo rapporto mentale con sé stessi è una qualificazione di vita della nostra personalità. Per esso conduciamo un’esistenza puramente in idee, per esso ci sentiamo esseri pensanti” (pp. 115 e 116).

 

 

Ricorderete che, esaminando il primo capitolo, ci siamo a un certo punto imbattuti nel passaggio dal problema etico della libertà a quello noetico della verità. Ebbene, dopo aver diffusamente trattato di quest’ultimo, siamo adesso giunti al momento in cui s’inverte di nuovo la rotta per tornare dal problema della verità a quello della libertà. Noi non ci limitiamo infatti a sentirci “esseri pensanti” o a condurre “un’esistenza puramente in idee”, ma ne conduciamo anche una intessuta di sentimento e di volontà: tant’è che “il realista ingenuo primitivo – come dice Steiner – vede anzi nella vita del sentimento una più reale vita della personalità che non nell’elemento ideale del sapere” (p.116).

Per il realismo ingenuo (detto anche “percezionismo”) è infatti reale ciò che si percepisce ed è irreale (o astratto) ciò che si pensa. È perciò conseguente che le percezioni interiori dei moti del sentimento e della volontà gli appaiano più reali dei concetti che utilizza poi per qualificarle.

 

Dice appunto Steiner:

 

“Il sentimento, dal lato soggettivo, è proprio quello che la percezione è dal lato oggettivo” (p.116).

 

 

In effetti, il sentimento e la volontà si danno, all’interno del soggetto, nello stesso modo in cui si danno, al suo esterno e quindi nel mondo, tutte le altre percezioni. Se sono dunque reali, per me, non le idee che penso, ma le cose che percepisco (non le forme, cioè, ma le forze), ecco allora che l’esperienza del sentimento e della volontà, proprio in quanto esperienza di forze, diviene addirittura garante della mia stessa realtà: ovvero, della mia realtà di essere che appunto sente e vuole.

 

Qual è allora il problema? Il problema è che, ordinariamente, il sentire e il volere sono davvero delle forze viventi: viventi, tuttavia, quali forze naturali e non spirituali. Se vivessero quali forze spirituali non avremmo infatti bisogno di porci questioni di ordine morale (così come non hanno bisogno di porsele i minerali, i vegetali e gli animali). Ricordiamoci, inoltre, che la vita del sentire e quella del volere si svolgono, rispettivamente, sul piano della coscienza di sogno e di sonno. Laddove la natura vive, laddove ossia lo spirito vive quale sentimento e volontà dandosi come forza o essere naturale (e quindi come necessità), non siamo dunque svegli, mentre laddove siamo svegli, laddove ossia lo spirito non vive più nel pensiero (in quello abituale o riflesso) dandosi come forma o non-essere spirituale (e quindi come libertà) la natura non vive più e lo spirito non vive ancora.

 

Come vedete, abbiamo da una parte la natura vivente e dall’altra lo spirito morto. Cos’è dunque che manca? È ovvio: lo spirito vivente. Dove c’è vita, ci sono infatti la natura, l’incoscienza e la necessità; dove non c’è vita, ci sono invece lo spirito, la coscienza e la libertà. Ma quale libertà? Quella dalla natura: cioè quella che, accompagnandosi allo spirito e alla coscienza privi di vita, s’impone e si sostiene mediante la forza della legge. Quella prima forma di libertà che abbiamo chiamato a suo tempo libertà “da” o libertà “negativa” deriva dunque dal fatto che alla necessità della legge naturale (individuale) viene opposta la necessità della legge morale (collettiva). Cos’altro è, del resto, quel “contrasto tra le inclinazioni dell’individuo e qualche standard oggettivo e dotato di autorità”, del quale parla l’Encyclopedia of religion and ethics, se non appunto il contrasto tra la legge naturale e quella morale? E non è a questo che allude Freud quando parla dell’Eros e del Thanatos o, per meglio dire, dell’Es e del Super-io? In ogni modo, quel che importa sottolineare è ch’è appunto in virtù di un siffatto contrasto che l’“io abituale” (l’ego) conquista la sua prima libertà.

 

Ma torniamo a noi. Dice Steiner:

 

“Il sentimento è una realtà incompleta, che, nella prima forma in cui ci è data, non contiene ancora il suo secondo fattore, il concetto o l’idea. Per tale motivo, altrettanto come la percezione, il sentimento sorge dovunque nella vita prima della conoscenza. In un primo tempo abbiamo il sentimento della nostra esistenza; e soltanto nel corso del graduale sviluppo ci apriamo il varco fino al punto in cui, in mezzo alla nostra esistenza oscuramente sentita, ci appare il concetto del nostro sé. Ciò che per noi sorge solo più tardi è però originariamente congiunto in modo inseparabile col sentimento” (pp.116-117).

 

 

Una cosa è dunque la sensazione dell’Io, altra il sentimento dell’Io, altra ancora la coscienza dell’Io. Vedete, quel che avviene nell’autopercezione, nella percezione cioè di noi stessi, non è sostanzialmente diverso da quel che avviene in tutte le altre percezioni. In prima istanza, infatti, sperimentiamo la nostra stessa essenza come una forza indeterminata: ovvero, come quella X della quale ci siamo più volte serviti nei nostri esempi. Questa, dopo essere stata riconosciuta dall’Io quale “Io”, viene sperimentata prima nell’anima senziente come “sensazione”, poi nell’anima razionale o affettiva come “sentimento”, e viene infine appresa, nell’anima cosciente, come “rappresentazione” (come “ego”). Tale essenza è presente dunque sin dall’inizio, ma è soltanto in virtù del viaggio che compie attraverso l’anima che riesce gradualmente a esplicitarsi e a pervenire alla coscienza. Di fatto, è come se la stessa passasse gradualmente dalla notte al giorno o dall’oscurità alla luce. Ha ragione quindi Gioberti nel sostenere che il concetto è “implicato” nella sensazione. Nell’“oscura” o “notturna” sensazione, esso è infatti già presente: si tratta dunque di “esplicarlo” perché possa rendersi “trasparente”. Nel sentimento il concetto prende ad “albeggiare” e nella rappresentazione raggiunge lo zènit dell’ordinaria coscienza diurna.

 

Vi sono comunque dei filosofi – ricorda Steiner – cui la vita del sentimento appare

 

“più importante di ogni altra cosa” e che, quale “mezzo alla conoscenza”, cercano perciò di servirsi “non del sapere, ma del sentire”. Ma “l’errore di questa maniera mistica di vedere, costruita solo sul sentimento, – osserva – consiste nel fatto che essa vuole sperimentare quello che deve sapere, e vuole elevare un elemento individuale, il sentimento, ad elemento universale” (p.117).

 

 

Abbiamo visto, che la sfera del sentire è quella in cui si esprime al massimo la soggettività. Dal punto di vista logico, si potrebbe anche dire che, se quella del pensare è la sfera dell’universalità (dello spirito) e quella del volere è la sfera dell’individualità o della singolarità (del corpo), quella intermedia del sentire è allora la sfera della particolarità (dell’anima). Cosa fa quindi il mistico? Nell’incapacità di sperimentare l’universalità nell’universalità (cioè il pensare nel pensare o lo spirito nello spirito), si sforza di far valere come “universale” (come pensare o spirito) quanto sperimenta nella sfera del “particolare” (del sentire o dell’anima).

 

Intendiamoci, non dico questo per criticare il misticismo, bensì per caratterizzarlo e per mettere in risalto ciò che lo differenzia dalla via indicata da Steiner. Il nostro problema, infatti, è quello di riuscire ad andare incontro all’universale con l’universale e non quello di universalizzare ciò che non ha, di per sé, tale natura. Si usa dire, è vero: “Tutti i gusti son gusti “, “Tanti corpi, tanti cervelli” o “Tanti uomini, tanti modi di pensare”, ma si dice pure: “La matematica non è un’opinione”. Ecco dunque che, già all’interno delle nostre abituali esperienze soggettive, se ne affaccia una di carattere essenzialmente diverso. Dicendo che incontro all’universale va portato l’universale, intendiamo perciò dire che, per incontrare l’universalità vivente (quella delle idee quali “entità spirituali”), si deve muovere dall’universalità astratta o riflessa (da quella appunto del numero o della rappresentazione). Difatti, non appena scendiamo al di sotto di tale morta universalità (quella dell’intelletto), troviamo, sì, la vita del sentire e del volere, ma perdiamo al contempo l’universalità. Sul piano ordinario, insomma, il sentire e il volere sono vivi, ma non universali, mentre il pensare è universale, ma non vivo.

 

Abbiamo visto, inoltre, che la forza del sentire si manifesta in modo diverso da quella del volere.

Steiner, dopo aver parlato del sentimento, dice infatti:

 

“Vi è anche un’altra manifestazione della personalità umana. L’io partecipa alla vita generale dell’universo per mezzo del suo pensare, e per mezzo del medesimo riferisce in modo puramente ideale (concettuale) le percezioni a sé, e sé alle percezioni. Nel sentimento sperimenta un rapporto degli oggetti col suo soggetto; nella volontà si ha invece il contrario. Nel volere abbiamo ugualmente una percezione davanti a noi, e precisamente quella del rapporto individuale del nostro sé con gli oggetti” (pp.117-118).

 

 

Ciò dunque conferma, non solo che il pensare e il volere sono – secondo quanto abbiamo detto – “oggettuali” o “transitivi”, mentre il sentire è “narcisistico” o “intransitivo”, ma anche che del pensare è oggetto l’universalità (“la vita generale dell’universo”), del volere l’individualità (o la singolarità) e del sentire la particolarità.

Nella volontà – dice Steiner – si ha il “contrario” di ciò che si ha nel sentimento. La prima consiste infatti in un’azione del soggetto (sull’oggetto), mentre la seconda in una re-azione del soggetto (all’oggetto).

 

Comunque sia, come ci sono filosofie del sentimento, così ci sono pure filosofie della volontà.

Ma – dice Steiner –

 

come “non si può chiamare scienza la mistica del sentimento, così non si può chiamare scienza la filosofia della volontà. Infatti entrambe ritengono di non poter venire a capo del mondo con la penetrazione concettuale. Entrambe richiedono, accanto al principio ideale dell’esistenza, anche un principio reale, e ciò con un certo diritto” (p.118).

 

 

Entrambe hanno dunque “un certo diritto” di voler “venire a capo del mondo” mediante un “principio reale”, ma sbagliano nel volerlo cogliere al di fuori del pensare. In tal modo, infatti, altro non fanno che elevare arbitrariamente un “principio reale”, ma particolare (il sentimento) o individuale (la volontà), al rango di principio universale. Non sapendo o non volendo riconoscere come reale ciò ch’è universale, l’una e l’altra si vedono allora costrette a riconoscere come universale ciò ch’è reale. Si deve però ricordare che i filosofi del sentimento e quelli della volontà in tanto non colgono il reale nell’ideale (nel pensiero) in quanto il loro rapporto con l’ideale (con il pensiero) è astratto o riflesso.

 

Quali conseguenze comportano, sul piano etico, tali posizioni noetiche? Se mi passate l’autocitazione, vorrei leggervi, al riguardo, alcune righe del mio Dialoghi sulla libertà: “Chi non riesce a sperimentare il sentire e il volere all’interno del pensare mantiene divise queste tre realtà e considera le prime due concrete e la terza astratta. In tal modo, succede però che quanto è individuale e soggettivo risulta concreto e quanto invece è universale e oggettivo risulta astratto. Sul piano morale, per fare un solo esempio, la concretezza dell’egoismo viene a trovarsi così contrastata – ed è facile immaginare con quale esito – dalle astratte idee dell’altruismo, della fraternità o dell’amore universale”.

 

Vi siete mai chiesti, ad esempio, il perchè si parli sempre dell’“amore” e non del “desiderio” universale? È presto detto: perché l’amore è la sostanza del desiderio resa universale, mentre il desiderio è la sostanza dell’amore resa particolare o individuale (e quindi narcisistica o egoistica). Non insegna forse l’esperienza che il sedicente “amore universale” è in realtà quasi sempre amore di sé o desiderio egoistico? Sapete che dice Rousseau nelle prime pagine dell’Emilio? “Diffidate – dice – di quei cosmopoliti che vanno a cercare lontano, nei loro libri, doveri che sdegnano di assolvere intorno a loro: sono come il filosofo che ama i tartari per essere dispensato dall’amare i propri vicini”.

 

A tutto ciò vorrei aggiungere un’ultima considerazione. Ciascuno di noi, – abbiamo detto – oltre a essere un soggetto pensante, è un soggetto che sente e che vuole. Già, ma i filosofi del sentimento e quelli della volontà non si limitano, come tutti noi, a pensare, sentire e volere, bensì si sforzano di pensare il sentire e il volere. Ciò vuol dire allora che costoro sono alle prese, non tanto con il sentimento e con la volontà, quanto piuttosto con l’idea del sentimento e con l’idea della volontà. Ma per quale ragione, se si possono pensare il sentire e il volere, non si potrebbe allora sentire e volere il pensare? Per quale ragione, ossia, oltre a sentire e volere le cose, non potremmo sentire e volere le idee?

 

Si tenga appunto presente che solo le idee non sentite, e non perciò liberamente volute, necessitano di essere imposte. Del resto, cos’altro è il “dover-essere” se non un essere non-amato perché sconosciuto, sconosciuto perché non-amato, e non-voluto perché appunto non-amato e sconosciuto? In realtà, solo una viva o diretta conoscenza dello spirito può trasformare il “dover-essere” in un “voler-essere”. È soltanto in assenza di questa conoscenza, infatti, che il vuoto del pensare viene colmato dalla legge e quello del sentire dalla paura (dice la “parola del saggio” a Faust: “Il mondo degli spiriti non ci è chiuso: chiusi sono i tuoi sensi, morto il tuo cuore”).

 

Afferma l’evangelista Giovanni: “Da Mosè fu data la legge: da Gesù Cristo invece è stata fatta la grazia e la verità”. Ma la “grazia” – spiega altrove Steiner – è appunto la facoltà di compiere il bene in virtù della propria interiorità e non della legge: ovvero, la facoltà di essere buoni e non solo di fare del bene. È questa dunque la via per la quale la libertà “da” o libertà “negativa” può trasformarsi nella libertà “per” o libertà “positiva”. Allorché un’idea comincia a vivere di vita propria (o a splendere, come gli astri, di luce propria) non ha più bisogno di qualcuno che l’imponga. E’ l’Io stesso anzi a porla; ma l’idea posta dall’Io non è che la forma in cui l’Io stesso riversa la propria forza: non è, in una parola, che la libertà (le idee – dice in proposito Steiner – sono “recipienti d’amore”).

 

Aggiunta alla seconda edizione del 1918

Dice Steiner:

 

“La difficoltà di comprendere con l’osservazione il pensare nel suo essere consiste nel fatto che, per lo più, questo essere è già sfuggito all’anima che lo esamina, quando quest’ultima vuole portarlo nel campo della propria attenzione. Non le rimane allora che l’astrazione morta, il cadavere del pensare vivente” (p.120).

 

 

In uno degli schemi di cui ci siamo serviti durante lo studio della prima parte, abbiamo messo in relazione i “pensati” o le rappresentazioni con lo spazio (con l’elemento solido) e il pensare col tempo (con l’elemento liquido). Ebbene, la difficoltà cui allude qui Steiner non è forse quella che incontrerebbe chiunque tentasse di osservare il tempo? Esclama infatti Faust (rivolto a Mefistofele): “Se mai dirò all’attimo fuggente: Arrestati! Sei bello! Tu potrai mettermi in ceppi”. Normalmente, come il tempo che osserviamo non è che il “passato” (un ricordo), così il pensiero che osserviamo non è che un “pensato” (una rappresentazione): non è cioè – come dice Steiner – che un “cadavere del pensare vivente”. Abitualmente, sperimentiamo, non l’essere del pensare, bensì l’immagine che ce ne restituisce lo specchio corticale. Tale immagine è però il non-essere del pensare (un po’ come la nostra foto è il nostro non-essere).

Come si fa dunque a osservare e sperimentare una realtà che, come quella del tempo e del pensare, non si presta a essere spazializzata o rappresentata senza per ciò stesso alterarsi o snaturarsi? Abbiamo già parlato, al riguardo, della necessità di un esercizio o di una pratica interiore, e non torneremo perciò sull’argomento. Basti dire, comunque, che la difficoltà di cui ci stiamo occupando non è molto diversa da quella in cui s’imbatterebbe chiunque, pur restando fermo, volesse osservare e sperimentare il proprio movimento. Com’è infatti possibile osservare e sperimentare il proprio movimento soltanto muovendosi, così è possibile osservare e sperimentare quello del tempo soltanto divenendo e pensando. Il che vuol dire, in altre parole, che possiamo conoscere dall’esterno solo quanto giace nello spazio (i divenuti o i pensati), ma che dobbiamo conoscere dall’interno quanto vive invece nel tempo (il divenire o il pensare).

 

Tuttavia, l’attuale coscienza ordinaria (rappresentativa) – come ormai sappiamo –

è coscienza di ciò che giace appunto nello spazio.

Proprio per questo, Steiner dice:

 

“Se si guarda soltanto a questa astrazione, ci si troverà facilmente costretti, davanti ad essa, ad entrare nell’elemento “pieno di vita” della mistica, del sentimento o della metafisica della volontà. Si troverà strano che qualcuno voglia cogliere in “meri pensieri” l’essere della realtà. Ma chi consegue veramente la vita nel pensare, arriva a vedere come, entro l’ambito di quella vita, alla ricchezza interiore e all’esperienza riposante su di sé e nello stesso tempo moventesi in sé stessa, non possa essere neppure paragonato, e tanto meno anteposto, il vibrare in puri sentimenti o il guardare l’elemento della volontà” (p.120).

 

 

“Se si guarda soltanto a questa astrazione…”, ma non è proprio quanto facciamo dalla mattina alla sera? Sfiderei chiunque, del resto, a trovare oggi un altro insegnamento in cui si dia scientificamente ragione del particolarissimo rapporto che c’è tra il pensare vivente, il pensiero riflesso e la corteccia cerebrale: questa è in definitiva la chiave dell’antropologia antroposofica, ed è grazie a essa che si possono capire molte cose.

Di recente, ad esempio, è uscito un libro di Paolo Flores d’Arcais, intitolato: L’individuo libertario. Ebbene, l’autore fa a un certo punto quest’affermazione: “Se l’Essere è, l’etica non è”. Non possiamo dargli torto. L’“essere” è natura e l’etica, in natura, effettivamente non c’è. Dunque è vero: “Se l’Essere è, l’etica non è”. Già, ma ciò vuol dire allora che là dove l’etica è (ossia, nel regno umano), l’essere non è: ovvero, che là dove l’etica è, è il non-essere. Una conclusione del genere non dovrebbe coglierci di sorpresa poiché sappiamo ormai che è mediante appunto il non-essere (della coscienza intellettuale) che l’essere incosciente della natura prende a trasformarsi in quello autocosciente dello spirito.

 

Vorrei comunque leggervi, in proposito, quanto dice Hegel nella sua Introduzione alla storia della filosofia: “Questa conciliazione con sé dello spirito, questo suo tornare a se stesso può esser considerato come il suo scopo supremo ed assoluto: ciò soltanto egli vuole e null’altro. Tutto ciò che avviene eternamente in cielo e sulla terra, la vita di Dio e tutto ciò che si compie nel tempo, tende soltanto allo scopo che lo spirito conosca se stesso, che faccia di sé il proprio oggetto, che diventi per se stesso, che si concilii con sé. Egli è sdoppiamento, alienazione, ma solo al fine di poter trovare se stesso e di poter ritornare a sé”.

Proprio ciò che Hegel chiama qui “sdoppiamento” e “alienazione” costituisce – per così dire – la “prova” del non-essere. Per farsi spirito, l’essere della natura deve infatti attraversare le “forche caudine” del non-essere. Se fossimo rimasti tra le braccia della natura, così come i minerali, i vegetali e gli animali, saremmo rimasti tra le braccia della necessità, e mai ci si sarebbe posta una qualsivoglia problematica etica. Vedete, un cristallo può essere solo un cristallo, un garofano può essere solo un garofano e un ragno può essere solo un ragno; soltanto l’uomo gode del privilegio di poter non-essere un uomo.

 

Ma com’è giunto a godere di un simile privilegio? Come ha fatto, cioè, a sottrarsi alla ferrea necessità dell’essere? Com’è riuscito, insomma, a dire di no all’essere, quando l’intera natura non fa che dirgli di ? La risposta a questi interrogativi è una, e una soltanto: l’uomo è giunto a tanto sacrificando la vita del proprio sistema nervoso e, in particolare, quella della corteccia cerebrale. Il sistema nervoso è infatti l’unico dei suoi apparati organici ad avere con la realtà animico-spirituale un rapporto indiretto (riflesso o mediato), e non diretto (vivente o immediato). Nel primo dei due volumi dedicati all’Arte dell’educazione (Antropologia), Steiner spiega appunto che il sistema nervoso “è l’unico sistema che non abbia alcuna relazione con l’animico-spirituale”. Infatti, mentre “gli altri sistemi “vivono” perché formano relazioni dirette con l’animico-spirituale”, il sistema nervoso “muore in continuazione…”. È così dunque che l’uomo è entrato nel non-essere uscendo con la propria coscienza dall’essere. Oggi è però tempo di rientrarvi. I minerali, i vegetali e gli animali non ne sono mai usciti, l’uomo ne è uscito, ma, per attuare quel che potenzialmente è, ha bisogno di rientrarvi: di rientrarvi – s’intende – con le proprie forze, superando il non-essere della sua attuale coscienza grazie alla coscienza dello spirito. Se il non-essere, insomma, lo ha liberato dall’essere, lo spirito deve liberarlo dal non-essere.

 

È in tutti i modi comprensibile che, di fronte al non-essere del rappresentare, si sia tentati di regredire – come dice Steiner – alla realtà ““piena di vita” della mistica, del sentimento o della metafisica della volontà”. È come se qualcuno, vedendoci affamati, ci proponesse di scegliere tra una bistecca e la fotografia di una bistecca. Proprio per questo, d’altronde, la strada indicataci da questo libro – come riconosce lo stesso Steiner – è “per molti uomini più difficile”. Essa non promette infatti nessuna di quelle particolari gratificazioni di cui la psiche di molti aspiranti esoteristi è avida e di cui va bramosamente in cerca.

Nel libro già citato, Paolo Flores d’Arcais sostiene che la presente stagione è quella del “pensiero frivolo”. Anche in questo caso, dobbiamo dargli ragione. Oggi, infatti, convinti come siamo che il pensiero non possa far altro – per dirla con Hegel – che “filare opinioni su opinioni”, per poi magari sfoggiarle sulla stampa, alla radio o alla televisione, si va facendo sempre più rara l’eventualità d’incontrare qualcuno che senta profondamente la responsabilità morale del conoscere e – diciamolo pure – la sua sacralità.

 

 

“Nessun’altra attività animica dell’uomo – prosegue comunque Steiner – è così facile a misconoscersi quanto il pensare. Il volere, il sentire, continuano a riscaldare l’anima umana anche in seguito, nel rivivere lo stato d’animo originale. Troppo facilmente, invece, il pensare, nella rievocazione, lascia freddi: esso sembra inaridire la vita dell’anima. Ma questo è proprio soltanto l’ombra fortemente attiva della sua realtà intessuta di luce e immergentesi con calore nelle manifestazioni del mondo. Questo immergersi avviene con una forza fluente entro la stessa attività pensante, la quale è forza d’amore di natura spirituale” (p.120).

 

 

Il pensiero che sperimentiamo abitualmente come vuota “forma” può dunque rivelarcisi, a un superiore livello, come “luce”, poiché il sentire nel pensare è la “luce” del pensare, e, a un ulteriore livello, come “calore”, poiché il volere nel pensare è il “calore” del pensare. Se di questa realtà, ch’è appunto unità di forma, luce e calore, si è capaci di sperimentare la sola forma, ecco allora che si crederà di dover cercare altrove (fuori cioè del pensare) tanto la luce che il calore. In tal modo, tuttavia, così come si continuerà ad avere una forma priva di luce e di calore, si avranno una luce e un calore privi di forma (e cos’è infatti la volontà di Schopenhauer, in quanto “impulso cieco”, se non appunto un calore privo di forma?).

 

Spero sia chiaro che questa non è una mera questione di carattere speculativo, bensì una questione che presenta, soprattutto oggi, e in specie tra i giovani, dei preoccupanti risvolti di ordine esistenziale. L’anima sembra sempre meno in grado, infatti, di sostenere il “peso morto” dell’intelletto (cui fa da pendant – come dice Kundera – “l’insostenibile leggerezza dell’essere”) e palesa sempre più i sintomi di una vera e propria “crisi di astinenza” spirituale. Da qui la crescente voglia di evadere, di stordirsi, di ottundersi, quando non addirittura di rinunciare, in un modo o nell’altro, alla vita. Il tragico paradosso, in quest’ultimo caso, è che, senza rendersene minimamente conto, si rinuncia alla vita naturale o materiale in nome (per dirla ancora con Kundera) di un “altrove” (di un ”al di là”) che non si sa, o non si crede di poter ritrovare all’interno dell’”al di qua” quale frutto di una sua reale conoscenza e trasformazione. Cercare la vita, la luce e il calore al di fuori del pensiero (dello spirito) significa dunque trovare la morte, e non la vita.

“V’ho detto queste cose, – afferma il Cristo – affinché in voi dimori la mia gioia, e la gioia vostra sia piena”. Ma qual è la Sua gioia? Non è quella (luciferica) della vita al di qua dell’intelletto (quella regressiva del sogno e del sonno) né quella (arimanica) della morte nell’intelletto o, per la precisione, nell’intellettualismo o nello scientismo, bensì è la gioia della coscienza (dell’anima) che risorga – come Lazzaro – dalla tomba della sua attuale e univoca esperienza rappresentativa.

 

Considerate, altresì, che la luce e il calore del pensiero sono pure la luce e il calore dell’idea. La luce e il calore dell’idea non possono però rivelarsi a un pensiero che – come quello intellettuale – ne sia intrinsecamente privo. Ciò vuol dire, dunque, che il cosiddetto “intellettuale” – a dispetto dell’apparenza – non ama le idee che pensa, perché pensa le idee, ma ama sé stesso. Solo un’idea che viva e risplenda di luce propria (“riposante su di sé – dice Steiner – e nello stesso tempo moventesi in sé stessa”) può essere infatti amata (sentita e voluta) nel momento stesso in cui viene pensata (dall’“intelletto d’amore”). Solo così, in effetti, si può amare l’universale (che – si badi bene – comprende il particolare e l’individuale), e non più soltanto l’individuale o il particolare (che escludono l’universale). Qual è infatti il problema? Quello di richiamarci appunto, a parole, agli interessi universali (per esempio, ai cosiddetti “valori umani”), ma di sentire e volere poi, nei fatti, gli interessi particolari (quelli magari del proprio “gruppo”, della propria “chiesa” o del proprio “partito”) o, più facilmente ancora, gli interessi individuali (quelli propriamente egoistici). Pensare e amare l’“essere umano” (in sé) è cosa infatti ben diversa dal pensare, sì, in astratto, l’“essere umano”, ma amare poi, in concreto, unicamente i propri connazionali, concittadini, parenti e amici, oppure solo se stessi. Proprio questo, però, è quanto capita tutti i giorni. In definitiva, solo l’amore per l’universale può essere amore universale, e restituirci a noi stessi al di là di noi stessi (al di là dell’ego).

 

Chi si rivolge – dice Steiner –

 

“al pensare essenziale, trova in esso tanto il sentimento, quanto la volontà, e questi ultimi anche nel profondo della loro realtà; chi si distoglie dal pensare e si volge al “puro” sentire e volere, perde invece in questi la vera realtà” (p.121).

 

 

Vedete, il sentire e il volere ordinari non solo – come abbiamo detto – sono “natura”, e quindi sogno e sonno, ma sono pure “destino”: vale a dire, natura signata, determinata e personalizzata. Il sentire ordinario non è quindi un puro sentire, così come il volere ordinario non è un puro volere (per questo, nell’ultimo passo di Steiner, la parola “puro” è virgolettata). Sia chiaro che, col dire che non sono puri, intendiamo solo dire che hanno preso già forma: soprattutto quella del carattere il sentire; soprattutto quella del temperamento il volere. Cos’altro rappresentano, del resto, i caratteri “estroversi” e “introversi” di Jung o i quattro temperamenti di Ippocrate (collerico, flemmatico, sanguigno e melanconico), se non delle determinate configurazioni del sentire e del volere? Il puro sentire e il puro volere sono dunque il sentire e il volere che non hanno preso ancora forma e che per ciò stesso sono in grado di prenderle tutte (e di modificare, così, quelle conferite loro dalla natura personale).

Potremmo anche dire, volendo, che il puro sentire e il puro volere sono il sentire e il volere universali che, proprio in quanto tali, sono suscettibili di particolarizzarsi e di individualizzarsi. Ma – si faccia bene attenzione – il sentire e il volere universali sono appunto quelli che sentono e vogliono l’universale: che sentono e vogliono, cioè, il concetto o l’idea. Non ci s’illuda, perciò, di poter vivere nel sentire puro e nel volere puro se non si è stati capaci di vivere prima nel pensare puro. Vedete, il pensare, il sentire e il volere sono forze dell’anima e, purificarle, vuol dire quindi purificare l’anima. Dal momento, però, che purificarle vuol dire consentir loro di trascendere i limiti della nostra personale natura, ecco allora che purificarle equivale a liberarle e che, purificare l’anima, equivale a liberare l’anima.

 

Dice Steiner: “Chi si rivolge al pensare essenziale…”. Ma cos’è il pensare “essenziale”? È l’essere vivente del pensiero. Quello dell’intelletto non è infatti l’essere vivente del pensiero, bensì la sua spoglia. In effetti, come al momento della morte, lo spirito, l’anima e la vita dell’uomo abbandonano il corpo, così al momento della nascita della coscienza intellettuale, lo spirito, l’anima e la vita del pensiero abbandonano la rappresentazione. Ma è proprio da qui, vale a dire dallo spirito morto, che dobbiamo prendere le mosse. Certo, non avremmo alcuna speranza di poterlo restituire alla vita se, nel cuore stesso dell’Io, non albergasse ormai la forza di resurrezione del Logos.

Dice appunto il Cristo: “In verità, in verità vi dico: viene l’ora, ed è questa, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio, e coloro che l’avranno ascoltata, vivranno”. È dunque dalla resurrezione dello spirito morto (profano) che nasce lo Spirito Santo: ovvero, quello “Spirito di verità” che – come afferma il Vangelo – “vivifica” e “insegna ogni cosa” (risponde infatti il Cristo alla samaritana: “Credimi, donna; è venuto il tempo in cui, né su questo monte, né in Gerusalemme, adorerete il Padre. Voi adorate quello che non conoscete; noi adoriamo quello che conosciamo…”).

 

Il compito è pertanto quello di partire dall’ordinario pensiero rappresentativo e di educarlo, svilupparlo e potenziarlo fino al punto di condurlo a un autotrascendimento qualitativo. Ciò significa, al tempo stesso, sviluppare e potenziare l’ordinaria coscienza dell’Io così che possa conservarsi, come tale, anche quando non ha più di fronte a sé un non-Io. La debolezza dell’abituale coscienza dell’Io sta infatti nel non potersi reggere su di sé, avendo bisogno, per sostenersi, di contrapporsi al non-Io. È vero, infatti, che il soggetto acquista la sua prima coscienza di sé grazie all’oggetto, ma altrettanto è vero che il primo finisce poi per dipendere dal secondo in quanto, al dileguare della coscienza dell’oggetto, si accompagna sempre e ineluttabilmente quella del soggetto. Quando – come si dice – “ci si chiudono gli occhi dal sonno”, sperimentiamo appunto, insieme allo svanire della coscienza del mondo, anche quello della coscienza di noi stessi. Ebbene, si provi allora a immaginare una coscienza dell’Io che, in virtù di un’opportuna pratica interiore, si sia conquistata la capacità di conservare sé stessa anche quando non ha più di fronte a sé il non-Io: che si sia cioè conquistata la capacità di conservarsi desta proprio là dove la coscienza ordinaria si addormenta. Come vedete, perseguiamo dunque un’estensione e un potenziamento qualitativi delle normali facoltà dell’anima.

 

Non si tratta quindi di far sparire il livello intellettuale della coscienza (quello che giudica “secondo la carne”), ma di far sì che a questo se ne aggiungano e accompagnino degli altri (che giudichino secondo l’anima e lo spirito). Se parlassimo di piante, anziché di uomini, si potrebbe perciò dire che non si tratta di far sparire le radici, ma di far sì che a queste possano aggiungersi e accompagnarsi gli steli, le foglie e i fiori. In definitiva, arte precipua dell’uomo dovrebbe essere quella di capire a quali realtà è opportuno accostarsi con l’intelletto, a quali con l’immaginazione, a quali con l’ispirazione e a quali ancora con l’intuizione. Come non servono, ad esempio, l’immaginazione e l’ispirazione per compilare la dichiarazione dei redditi (anche se questa – per la verità – è diventata ormai talmente complessa che non si sa più – come si suol dire – “a quale santo votarsi”), così non serve l’intelletto per interpretare e comprendere i sogni.

 

Vedete, ancora il Cristo dice: “Se persevererete nei miei insegnamenti, sarete veramente miei discepoli, conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi”. La verità del Logos (che inabita l’Io) ci rende infatti liberi, mentre la “libertà” di Lucifero non ci rende veri e la “verità” di Arimane non ci rende liberi. Lo ricordo perché vorrei ancora una volta raccomandarvi, prima di concludere, di difendere il sano intelletto (il “precursore”) tanto dal demone arimanico dell’intellettualismo o dello scientismo, quanto da quello luciferico del sentimentalismo o dello spiritualismo.