3° Incontro – Secondo capitolo

Amor, che ne la mente mi ragiona.


 

Affrontando il secondo capitolo, cominceremo stasera a inoltrarci nel campo della gnoseologia.

Abbiamo già visto come il titolo del libro possa trarre in inganno facendo pensare a un’opera “tradizionalmente” o “classicamente” filosofica.

 

Ma La filosofia della libertà, qualora non potessimo proprio fare a meno di caratterizzarla,

è un’opera, più che “filosofica”, logodinamica,

e per ciò stesso in linea con l’interesse che il pensiero moderno rivolge al fattore dinamico o energetico.

 

Va però osservato che i moderni si sono sì interessati alla realtà dinamica o energetica dell’oggetto (fisico o psichico), ma non ancora a quella del pensiero (dello spirito). Ad esempio, si vorrebbe teorizzare e praticare una “psicodinamica” o una “psicologia del profondo”: ma come farlo davvero continuando a utilizzare un pensiero intrinsecamente “statico” o “superficiale”? Sta di fatto che, nel corso del Novecento, il concetto di “energia” si è portato al centro dell’interesse della fisica e della psicologia (basti pensare alla libido di Freud e Jung), ma è rimasto ai margini della coscienza che il soggetto ha del pensiero e di sé stesso.

 

Tale coscienza è rimasta infatti ancorata – per dirla con Gentile –

• alla realtà “spaziale” o “materiale” del pensato (del “sostantivo”),

• incurante della realtà “temporale” o “energetica” del pensare (del “verbo”).

 

È su quest’ultima, tuttavia, che si fonda il libro che stiamo studiando. Possiamo rendercene conto già col solo osservare il modo in cui vengono impostati i problemi. Prendiamo, ad esempio, quello del dualismo di “soggetto-oggetto”.

Solitamente ci comportiamo come se noi, rispetto ai corni del dilemma, costituissimo una terza e neutra realtà. Siamo portati infatti a considerarci come coloro che riflettono, dall’esterno, sui rapporti tra il soggetto e l’oggetto, quasi che queste realtà non ci riguardassero direttamente (“l’entrare in rapporto con un soggetto – sostiene addirittura Oswald Kulpe – è per l’oggetto altrettanto indifferente quanto per un quadro l’essere appeso a un muro”). Orbene, un atteggiamento del genere possiamo oggi riconoscerlo come una “proiezione” (ossia, come un inconscio “meccanismo di difesa”).

 

Spero che nessuno si scandalizzi per il fatto di aver tirato in ballo un classico concetto psicoanalitico. Steiner stesso, sebbene non si sia mai occupato di “meccanismi di difesa”, si è infatti riferito alla “proiezione” allorché, nelle Linee fondamentali di una gnoseologia della concezione goethiana del mondo, ha scritto:

“Una facoltà umana di cui l’uomo nulla sapesse non verrebbe da lui riconosciuta come sua, ma attribuita a un ente a lui estraneo (…) Questa è la verità destinata a diventare il principio supremo della psicologia”.

 

Ebbene, nel caso di cui ci stiamo occupando non accade proprio questo? Non accade cioé che l’uomo, nulla sapendo del proprio Io, finisce con l’attribuirlo “a un ente a lui estraneo”?

E non è appunto così – stando almeno all’insegnamento di Freud – che si “difende” dalla eventualità di trovarsi coinvolto nel problema? È in questo modo che ci si comincia comunque a trasferire dal piano filosofico a quello antropologico o, per meglio dire, antroposofico.

 

Scrive infatti Steiner:

 

“Tutti gli enigmi che si riferiscono a spirito e materia,

l’uomo deve ritrovarli nell’enigma fondamentale del suo proprio essere” (p.25).

 

 

Non ci viene più proposto, dunque, di guardare le cose all’esterno dell’essere umano, ma al suo interno.

Veniamo perciò spinti a domandarci: qual è, nell’essere umano, il soggetto? E qual è l’oggetto?

E come mai l’uomo è capace, vivendo, di armonizzare spirito e materia, o soggetto e oggetto,

ed è invece incapace, pensando, di fare altrettanto?

Non sarà questo un segno del fatto che il livello di coscienza che governa il suo pensiero ordinario

non è ancora all’altezza di quello che governa la sua vita?

 

 

“L’uomo non è affatto un essere organizzato unitariamente” (p.23).

 

 

“Unitariamente” – si badi – vuol qui dire “univocamente”.

L’uomo è infatti un essere “unitario” (cioè una sintesi di una complessa e articolata molteplicità),

ma non un essere “univoco”, “monolitico” o fatto – come si suol dire – “tutto d’un pezzo”.

 

Comunque sia, Steiner, parlando dell’impulso alla conoscenza, così scrive:

 

“Ogni sguardo che gettiamo d’attorno suscita in noi una quantità di domande.

Con ogni fenomeno che ci si presenti ci viene dato un problema.

Ogni esperienza si trasforma per noi in un enigma” (p.23).

 

 

Teniamo tuttavia presente che Steiner si riferisce qui alla “fisiologia”, e non alla “patologia” dell’anima umana. Ci sono infatti delle persone per le quali fenomeni ed esperienze non si traducono affatto in problemi od enigmi; questo non è però che l’effetto di un’inerzia o di un ottundimento interiore. Del resto, nell’uomo, chiamato a creare e a ricreare in sé, incessantemente, l’equilibrio tra gli impulsi naturali e quelli spirituali, può determinarsi uno squilibrio tanto a favore della natura (isterico) quanto a favore dello spirito (neuroastenico).

 

 

Non “appena spuntano in noi i primi bagliori della coscienza”erigiamo un “muro divisorio fra noi e il mondo (…)

Ma non perdiamo mai il sentimento che apparteniamo al mondo,

che esiste un legame che ci unisce con esso, che siamo dentro e non fuori dell’universo” (p.24).

 

 

In effetti, chiunque conosca almeno un poco la cosiddetta “psicologia dell’età evolutiva”

sa che, a un certo stadio dello sviluppo, subentra questa separazione tra noi e il mondo: che subentra cioè,

• da una parte, la coscienza di noi stessi quale “soggetto” o “Io”

• e, dall’altra, quella del mondo quale “oggetto” o “non-Io”.

 

Del resto, non si darebbe alcuna coscienza del soggetto o dell’Io se non se ne desse simultaneamente una dell’oggetto o del non-Io. Si tratta quindi di un grado di coscienza che non è presente alla nascita, che ha bisogno di tempo per formarsi e maturare, e che realizza, sul piano interiore, un secondo e ben più doloroso taglio di quel “cordone ombelicale” che ci univa in precedenza agli altri e al mondo.

Pensate a Leopardi o al Pascoli. Non esprime forse, il primo, una struggente nostalgia dell’“età lieta”, e non rimpiange forse, il secondo, il “fanciullino”? Entrambi mostrano dunque di patire la perdita di quello stato originario nel quale l’uomo era il mondo e il mondo era l’uomo, e al quale era ignota l’amara esperienza della solitudine.

Possiamo anche dire che, sul piano dell’evoluzione culturale, tale stadio corrisponde, grosso modo, a quello in cui Cartesio divide il mondo in due parti, assegnando il dominio dell’una alla res cogitans e quello dell’altra alla res extensa.

 

Questa divisione, tuttavia, è innanzitutto una divisione tra due parti dell’uomo: ovvero,

• tra una parte che si riconosce come “Io”    • e un’altra che viene invece disconosciuta come “non-Io”.

 

 

“Il contrasto fondamentale e originario ci viene incontro in primo luogo entro la nostra coscienza.

Siamo noi stessi che ci stacchiamo dal grembo materno della natura

e che ci contrapponiamo al “mondo” come “io”“ (p.28).

 

 

Si tratta dunque, e anzitutto, di una scissione dello stesso essere umano.

• Grazie alla parte che riconosciamo come “Io” (res cogitans)

erigiamo – come dice Steiner – un “muro divisorio fra noi e il mondo” (quale base dell’autocoscienza);

• grazie alla parte che disconosciamo invece come “non-Io” (res extensa),

non perdiamo mai – come dice ancora Steiner – “il sentimento che apparteniamo al mondo”.

 

Insomma,

• se col pensare (cosciente) ci separiamo dal mondo,

• col sentire (subcosciente) e col volere (incosciente) gli rimaniamo viceversa uniti.

• Il pensare, per potersi riunire al mondo, deve perciò cominciare a riunirsi (coscientemente) al sentire e al volere.

 

Non si tratta dunque di regredire a quegli stati di coscienza (di sogno e di sonno) in cui vige tuttora un’unione naturale col mondo, bensì di progredire e sviluppare degli stati di coscienza superiori (detti, da Steiner, “immaginativo”, “ispirativo” e “intuitivo”).

 

In effetti, una volta infranta, l’unione naturale può soltanto ricostituirsi quale comunione spirituale.

• Volendo esprimere la stessa cosa immaginativamente, potremmo parlare dell’unione originaria come dell’Eden o del Paradiso terrestre, e della sua perdita come di quella “cacciata” che, per un verso, ha consegnato l’essere umano alla solitudine, al dolore e alla morte, ma, per l’altro, gli ha instillato una insopprimibile e struggente nostalgia del bene perduto.

Orbene, se vogliamo davvero intraprendere il cammino che può restituirci a noi stessi, agli altri e al mondo, dobbiamo avere allora il coraggio – come dicono gli psicoanalisti – di “ritirare le nostre proiezioni”. Giacché abbiamo a che fare con una “logodinamica”, e non con una “psicodinamica”, si tratterà però di ritirare delle proiezioni di ordine “ideativo”, e non “affettivo”.

 

Potrà esserci comunque di aiuto ricordare che l’uomo può utilizzare, oltre a quello della “proiezione”, anche altri “meccanismi di difesa”: ad esempio, la “rimozione”, la “regressione”, l’“isolamento”, l’“introiezione” o la “negazione”.

Questi inconsci “meccanismi” dovrebbero proteggerci da quelle rappresentazioni che Freud definisce “incompatibili”, in quanto capaci di procurarci ansia o angoscia. Spero vi rendiate conto di quanto la cosa, dal nostro punto di vista, risulti interessante. Ci viene detto infatti che, a seconda della nostra natura (cioè, della nostra costituzione, del nostro temperamento e del nostro carattere), potrebbero darsi delle rappresentazioni “simpatiche” (in quanto con essa “compatibili”) e delle rappresentazioni “antipatiche” (in quanto con essa “incompatibili”). La nostra ordinaria e spontanea concezione del mondo è esposta dunque al rischio di essere “soggettiva” (quale espressione della nostra personale natura) e non “oggettiva” (quale espressione del mondo stesso). In altre parole, è esposta al rischio di essere mera “opinione” (doxa) e non “scienza” (epistème).

 

In ogni caso, Steiner, dopo averci ricordato che la situazione esposta “appare storicamente nel contrasto fra la concezione unitaria dell’universo o  m  o n i s m o  e la teoria di due mondi o  d u a l i s m o ”, dice:

 

 

“Nessuna delle due concezioni può soddisfare perché nessuna delle due corrisponde interamente ai fatti” (p.25).

 

 

Dell’intero fenomeno,

• il monismo riesce infatti a cogliere e affermare la sola realtà dell’uno (cioè, del principio spirituale o materiale),

• mentre il dualismo riesce a cogliere e affermare la sola realtà del due (ossia, degli opposti).

Volendo, potremmo anche dire che

• il dualista è un “pessimista” rassegnatosi presto all’idea

che il mondo sia intrinsecamente e irrimediabilmente contraddittorio,

• mentre il monista è al contrario un “ottimista”: un ottimista alquanto ingenuo e facilone, però,

poiché non supera la dualità, ma piuttosto la nega.

 

Finora – dice Steiner – tale negazione si è tentato di realizzarla in tre modi diversi: ovvero,

• mediante due opposte reductio ad unum

• e mediante quella terza via che va sotto il nome di “parallelismo psico-fisico”.

 

In effetti, posta l‘opposizione di “soggetto-oggetto”,

• il monista spiritualista tende a ridurre l’oggetto al soggetto,

• quello materialista a ridurre il soggetto all’oggetto,

il terzo invece a cavarsi d’impaccio ricorrendo all’alibi di un presunto e originario “parallelismo”

(che non solo non risolve il dualismo, ma anzi lo riafferma).

 

A questo proposito, in questo Dizionario di psicologia (del 1990) è detto appunto che

il problema del rapporto tra la “mente” e il “corpo”, viene impostato

 

• in termini “dualistici” dallo psicofisicalismo (parallelismo) e dall’interazionismo;

• in termini “monistici”, dal materialismo, dall’idealismo soggettivo e dal fenomenalismo

(per il quale non “esistono” né “mente” né “corpo”, ma soltanto “impressioni sensoriali” e “idee”);

• in termini di “compromesso”

– dal cosiddetto duplice aspettismo

(che vede nella “mente” e nel “corpo” solo due aspetti di un’unica realtà sottostante)

– e dall’epifenomenalismo

(che vede invece nella “mente” – com’è detto testualmente – “un’ombra non causale del mondo fisico”).

 

C’è comunque da osservare, tornando a Steiner, che le due “soluzioni” ottenute mediante la reductio ad unum (quella materialistica e quella spiritualistica) si rivelano vieppiù illusorie se si è in grado di realizzare (grazie all’occhio scaltrito dello psicoanalista) che quello dei due termini che si credeva di aver annullato lo si è invece, in un caso, inconsciamente introiettato (ossia portato dall’esterno all’interno) e, nell’altro, inconsciamente proiettato (ossia portato dall’interno all’esterno). Il monista spiritualista (che nega scientemente la realtà dell’oggetto) non fa infatti che introiettare inconsciamente l’oggetto (nel soggetto), mentre il monista materialista (che nega scientemente la realtà del soggetto) non fa che proiettare inconsciamente il soggetto (sull’oggetto).

 

 

“La concezione materialistica non può risolvere il problema, ma solo spostarlo” (p.26).

 

 

Ma quali rischi comportano, sul piano psicologico, operazioni del genere? Per dirla in modo piuttosto radicale, il monista spiritualista, avendo introiettato l’oggetto, corre il rischio di sviluppare un “delirio di potenza” o uno stato “maniacale”, mentre il monista materialista, avendo proiettato il soggetto, corre il rischio di sviluppare un “delirio di impotenza” o uno stato “depressivo”.

 

Fichte, ad esempio, fautore di un “idealismo assoluto”, e “il più spinto – a detta di Steiner – degli spiritualisti”,

tenta – sempre nelle parole di Steiner –

• “di dedurre dall’“io” l’intero edificio del mondo (…) senza alcun contenuto di esperienza” (p.27).

 

Il mondo materiale non può essere però abolito.

L’Io, infatti, può incontrare il mondo solo per mezzo del corpo. Se vuole vedere una cosa deve farlo con gli occhi e se vuole toccarla deve usare le mani. L’Io, quale entità spirituale, ha dunque accesso al mondo materiale non in modo diretto o immediato, bensì in modo indiretto e mediato (dal corpo).

Tutti quelli che, avendo introiettato l’oggetto, negano la realtà del corpo o della materia, affermano quindi la realtà spirituale dell’Io, ma finiscono per chiuderla o imprigionarla in sé stessa.

• Un simile monista idealista – osserva appunto Steiner – “viene obbligato a rimanere, con la sua concezione del mondo, come incatenato entro l’ambito dell’attività dell’“io” stesso” (p.27).

 

• Tutti quelli che, di contro, si dicono convinti che l’uomo non sia altro che un “animale intelligente”, o una specie di complicatissimo e raffinato robot, e che negano perciò, con l’Io, ogni sua libera volontà, sono affetti da un “delirio d’impotenza”.

Costoro, infatti, convinti come sono che sia il cervello a pensare e a volere, altro non fanno che proiettare il soggetto sull’oggetto (l’Io sul non-Io), esaltando così la realtà materiale del secondo e mortificando quella spirituale del primo.

Anziché dire, ad esempio: “Io penso che il cervello pensi”, il monista materialista dice: “Il cervello pensa”.

Come vedete, da questa seconda affermazione è stato escluso l’“io penso”: ovvero, è stato escluso lo spirito. D’altro canto, per elaborare una concezione del mondo materialistica ci si deve necessariamente servire dello spirito.

Il paradosso è che ci si serve dello spirito per negare lo spirito. E non è forse questo il colmo dell’autoincoscienza?

 

Penso che conosciate tutti la storiella di quella bottiglia mezza piena e mezza vuota che appare, all’ottimista, soltanto mezza piena e, al pessimista, soltanto mezza vuota. Ebbene, tale storiella può risultare, in questo contesto, davvero illuminante. Per quale ragione, infatti, l’ottimista giudica la bottiglia mezza piena e il pessimista mezza vuota? Perché – come sostiene Freud – la rappresentazione della bottiglia mezza vuota è “incompatibile” con il carattere dell’ottimista e quella della bottiglia mezza piena è “incompatibile” con quello del pessimista. In questi casi – come si vede – è appunto il carattere (la psiché o il corpo astrale), e non l’Io a formulare il giudizio. Un simile giudizio risulta perciò unilaterale in quanto psichicamente condizionato. Va comunque osservato che sarebbe una vera fortuna se cose del genere capitassero una volta ogni tanto e soltanto con le bottiglie. Purtroppo, capitano invece tutti i giorni e condizionano pesantemente il nostro rapporto con la realtà.

 

Si pensi, ad esempio, al celebre test di Rorschach. Ci viene mostrata una tavola con una macchia (più o meno colorata) e ci viene chiesto di giudicarla: ci viene chiesto di dire, cioè, quel che secondo noi rappresenta. Il bello è che se noi rispondessimo: “Si tratta della macchia di una delle dieci tavole del test elaborato dallo psichiatra svizzero Hermann Rorschach, vissuto tra il 1884 e il 1922”, il test stesso verrebbe di colpo vanificato. Esso non prevede infatti delle risposte oggettive, bensì soggettive. E sapete perché? Perché, se conoscendo (spiritualmente) si apprende l’oggetto mediante il soggetto, opinando (psichicamente) si apprende invece il soggetto mediante l’oggetto.

 

Se questo ci è chiaro, ci sarà chiaro allora il perché la vera conoscenza sia una lotta, una crescita, una maturazione e, in definitiva, un’ascesi.

Se vuole davvero superare o vincere sé stesso, l’uomo moderno non ha infatti bisogno di indossare il cilicio o di “mortificare – come si suol dire – la carne”, bensì ha bisogno di seguire una “via della conoscenza” che gli consenta, per amore della verità e del mondo, di trascendere l’egoistica sfera delle proprie opinioni o dei propri punti di vista: che gli consenta, ossia, di ricercare spiritualmente lo spirito.

 

È proprio questa, di fatto, una delle maggiori difficoltà. Ad esempio, coloro che praticano lo “spiritismo” o che si servono in un modo o nell’altro di un medium, ricercano, sì, lo spirito, ma lo ricercano sensibilmente o materialmente: si attendono, vale a dire, che le sue manifestazioni siano visibili agli occhi o udibili alle orecchie. Quelli che si danno invece (più nobilmente) alla mistica ricercano lo spirito, ma, confondendolo con l’anima, lo ricercano in modo prevalentemente sognante e sentimentale.

Ci viene qui offerto, peraltro, un valido esempio di quanto sia importante il come allorché si voglia risalire al chi. Se ci decidessimo infatti a non parlare più – come fa l’idealismo – in modo generico di “spirito”, ma cominciassimo a discernere tra le molteplici e diverse entità spirituali, presto ci accorgeremmo di chi veramente ispiri il come dello spiritista e di chi veramente ispiri il come del mistico.

 

 

L’idealismo “non riesce a cercare un mondo spirituale attraverso il mondo delle idee,

ma lo vede nel mondo stesso delle idee” (p.27).

 

 

 

Come è vero, del resto, che “l’albero si giudica dai frutti”, così è vero che “i frutti si giudicano dall’albero” poiché, contenendone i semi, sono in grado di svelarne l’origine.

Tornando a noi, diciamo dunque che lo spirito chiede di essere ricercato anzitutto spiritualmente: il che significa, mediante il pensiero e in uno stato di piena consapevolezza. Per far questo, occorre però vincere tutto ciò che, in noi, non solo si rifiuta di accogliere la realtà dell’oggetto o dell’altro, ma tende addirittura a prevaricarla o strumentalizzarla.

 

• Ci siamo prevalentemente occupati, fin qui, del monismo spiritualista e di quello materialista. Prima di andare avanti, diciamo perciò due parole sui monisti “fenomenalisti”, sui dualisti “psicofisicalisti” e “interazionisti” e sui seguaci del “duplice aspettismo” e dell’“epifenomenalismo”.

• Tutti costoro altro non fanno, in verità, che ricorrere, seppure in modi diversi, a degli esorcismi verbali (più o meno raffinati), al solo scopo di aggirare il problema o di lavarsene agnosticamente le mani.

Possiamo essere certi che Dante non avrebbe avuto alcuna esitazione a collocarli tutt’insieme nel girone degli “ignavi”. Si tratta, d’altronde, di atteggiamenti “sincretistici” tipici, per lo più, dei periodi di decadenza o d’involuzione culturale, durante i quali, venendo meno le genuine tensioni spirituali, ci si affretta a realizzare, in nome degli interessi materiali, ogni tipo di accomodamento o di compromesso.

 

Giacché la libertà è vita o movimento, siffatti atteggiamenti testimoniano peraltro di un impigrimento e di un avvilimento delle forze dell’anima. È noto, ad esempio, che l’artrosi, l’artrite o i reumatismi sono patologie del movimento fisico. Ebbene, immaginate che esista pure una patologia del movimento dell’Io nell’anima, in grado di renderci, a nostra insaputa, animicamente “paretici” come i due protagonisti della storiella della bottiglia. E’ come se l’Io dell’ottimista, identificatosi con l’ottimismo, dicesse infatti: “Sono ottimista, dunque sono”, e limitasse perciò il proprio movimento entro i confini di un unico distretto animico. Ove avesse detto invece: “Io sono, dunque posso essere sia ottimista che pessimista”, il suo movimento sarebbe stato più ampio e il suo orizzonte animico più esteso.

 

Pensate che Steiner, nel suo Pensiero umano e pensiero cosmico, ci presenta un cerchio zodiacale i cui dodici segni corrispondono ad altrettante “ideologie” o concezioni del mondo (ad esempio, il Cancro al “materialismo”, la Bilancia al “realismo”, lo Scorpione allo “spiritualismo” e l’Ariete all’“idealismo”) e poi dice: “Il mondo non si può considerare dal punto di vista unilaterale di una concezione del mondo, di un pensiero; bensì il mondo si rivela soltanto a chi sa che bisogna girare attorno ad esso. Proprio come il Sole…”.

Rieccoci dunque al movimento: ovvero, al movimento di un Io che in tanto è libero, come il Sole, di “girare” in quanto non si identifica con nessuno dei dodici distretti animici o con nessuna delle dodici costellazioni o “ideologie” che attraversa.

Purtroppo, l’io abituale è invece un Io identificato e, per ciò stesso, paretico. Colui che si dice “materialista” si identifica infatti, quale Io, col materialismo, così come colui che si dice “idealista” si identifica invece con l’idealismo.

 

Quel ch’è più preoccupante, tuttavia, è che l’ideologia zodiacalmente opposta a quella con la quale ci si è identificati viene vissuta come una ideologia minacciosa od ostile. Se ci siamo identificati magari con l’idealismo (con l’Ariete) ecco allora che il materialismo (il Cancro) diverrà nostro nemico. Non già – si badi – perché minacci d’infirmare il nostro idealismo, bensì perchè minaccia d’infirmare la nostra identità (vale a dire quell’Io che, con l’idealismo, si è identificato). È così, del resto, che nascono il dogmatismo, il fanatismo e l’intolleranza: ovvero, i peggiori nemici dello spirito scientifico.

 

Vorrei ricordare, al riguardo, che

la differenza tra la “filosofia” e la “scienza” è anzitutto una differenza qualitativa.

Nell’anima razionale o affettiva è infatti attivo, in primo luogo, il sentire nel pensare.

• È per questo che la sensibilità del filosofo (chiuso magari nella sua stanza e attento a evitare che nel suo sistema vi siano delle contraddizioni) somiglia molto a quella “estetica” del musicista, attento a evitare che nella sua composizione vi siano delle stonature. La logica, d’altronde, si fonda appunto sul sentire nel pensare.

• Non è così per lo scienziato. Questi spalanca infatti le finestre della sua stanza proprio perché vi penetrino tutti quegli stimoli esterni che, per il filosofo, sono invece di disturbo. In questo caso, dunque, è soprattutto attivo il volere nel pensare: ossia, è attiva una forza che spinge il pensare verso la percezione del mondo e delle cose. Lo scienziato si preoccupa, non più di elaborare dei sistemi concettuali logici e coerenti, bensì di penetrare i fenomeni del mondo per scoprire le leggi che li governano.

 

Come vedete, tra le due attitudini, c’è davvero una grossa differenza qualitativa. Volendo ancora una volta far uso della terminologia freudiana (di quella – per la precisione – con cui Freud distingue le attività della libido), potremmo dire che

• il pensare del filosofo è “narcisistico”,

• mentre quello dello scienziato è “oggettuale”.

 

In effetti, la filosofia non serve a conoscere noi stessi o il mondo, ma serve all’Io per sviluppare e affinare il pensiero, e per prepararsi così, sul terreno dell’esperienza, all’incontro con il non-Io. Se la filosofia corrisponde dunque all’“allenamento” (in vista della gara), la scienza corrisponde invece alla “gara”.