Dalla natura alla subnatura – Massime 183-185

Commento di Lucio Russo


 

Eccoci arrivati all’ultima lettera, intitolata: Dalla natura alla subnatura (12 aprile 1925).

Prima di cominciare la lettura, permettetemi di fare un paio di considerazioni di carattere generale.

 

Vedete,

negli stessi anni in cui nasce l’antroposofia, ossia “una via della conoscenza

che vorrebbe condurre lo spirituale che è nell’uomo allo spirituale che è nell’universo” (massima 1),

nascono,

• da un parte, la psicoanalisi, che conduce “lo spirituale che è nell’uomo” al sub-cosciente

• e, dall’altra, la fisica moderna, che conduce “lo spirituale che è nell’uomo” alla sub-materia

(scrive Emilio Segrè: “Una serie drammatica di scoperte nell’ultima decade del secolo XIX, alcune del tutto inaspettate come la radioattività, aprirono le porte al mondo dell’atomo”) (1).

 

Ebbene, non è significativo che proprio nel momento in cui, grazie a Steiner, si apre una via che vorrebbe condurre dall’Io inferiore (dall’ego) all’Io superiore (al Sé spirituale) e dalla natura alla sopra-natura, se ne aprano altre due che conducono all’opposto dall’umano al sub-umano e dalla natura alla sub-natura?

 

Pensate, per quanto riguarda la fisica, alla “meccanica quantistica”. Scrive Gino Segrè: “Planck aveva scoperto di aver bisogno di assumere che gli oggetti riscaldati emettono e assorbono radiazione in pacchetti discreti di energia piuttosto che secondo un flusso continuo, come si era sempre pensato. Chiamò questi pacchetti quanti” (2).

Ma che cosa abbiamo visto la volta scorsa (lettera 5 aprile 1925)?

• Che la luce “è qualcosa che si sgretola”, che “la luce che si sgretola è l’elettricità”,

• e che “ciò che conosciamo come elettricità è la luce che distrugge se stessa in seno alla materia”

(quanto vale per la luce vale anche per il pensare: anche questo, infatti, “distrugge se stesso in seno alla materia”

[al sistema neuro-sensoriale], trasformandosi così, come abbiamo visto, da continuo in discreto).

 

I “pacchetti” o i “quanti” di luce di cui parla Planck (i “fotoni”) sono dunque il risultato non della luce che vive,

ma della luce che muore, e che, morendo, al pari del nostro corpo fisico, si decompone o “disgrega”.

(Chi abbia presente, come afferma Steiner, che le età dell’uomo sono “organi di conoscenza”, per cui quello che è possibile conoscere, mettiamo, a 50 anni è impossibile conoscerlo, che so, a 30, troverà interessante sapere, secondo quanto scrive ancora Gino Segrè, che “la giovane età dei suoi protagonisti principali” è “una caratteristica sorprendente” della rivoluzione quantistica, tanto che, “nel biennio 1925-27”, mentre “la meccanica quantistica si sviluppava, il gruppo di Göttingen le aveva dato scherzosamente il nome di Knabenphysik (la fisica dei ragazzini)”: i leader, infatti, ”sembravano tutti degli Knaben, dei ragazzini uno più giovane dell’altro: Pauli, Heisemberg, Dirac” [3].

 

Pensate, ancora una volta, a un puzzle.

• Chi lo crea parte dall’uno (da una figura) e arriva al molteplice (ai pezzi in cui l’ha suddivisa);

• chi ci gioca parte al contrario dal molteplice (dai pezzi) e arriva all’uno (alla figura).

Una cosa, dunque, è la figura di partenza, intonsa (“continua”), altra la figura di arrivo, assemblata (“discreta”).

Ebbene, che cosa accadrebbe se s’ignorasse il primo di questi due processi, quello che va dall’uno al molteplice? Accadrebbe proprio quello che accade quando si crede, come fa la meccanica quantistica, che i fotoni facciano la luce, e non che la luce, disgregandosi, faccia i fotoni, e che i “quanti” abbiano a che fare con la vita, e non con la morte.

 

Ancora due parole sulla “tecnica”, dal momento ch’è soprattutto di questa che tratta la lettera.

Scrive Max Horkheimer: • “Mentre l’uomo è diventato abilissimo nei suoi calcoli finché è in gioco la scelta dei mezzi, la sua scelta dei fini, un tempo in rapporto con la fede in una verità oggettiva, è diventata priva di intelligenza” (4).

Un tempo si distingueva la scienza dalla tecnica, subordinando questa a quella, mentre oggi si parla di “tecnoscienza”. Ciò dimostra che lo spirito utilitaristico della tecnica ha preso ormai il sopravvento su quello conoscitivo della scienza. (“I veri saggi – dice Goethe – domandano che valore abbia la scoperta in sé e in rapporto alle altre scoperte, senza curarsi dell’utilità, cioè dell’applicazione di essa alle cose note e alle necessità della vita”) (5).

Questa sarebbe una fortuna se si badasse a quanto è utile al corpo, all’anima e allo spirito, mentre è una disgrazia quando si pensa, materialisticamente, a ciò ch’è utile soltanto al corpo.

 

Cominciamo adesso a leggere.

 

 

Si suol dire che, superata l’èra filosofica, a metà del secolo diciannovesimo è sorta l’epoca delle scienze.

E si dice anche che l’èra scientifica continua ancora oggi;

in pari tempo molti affermano che si sia ritrovata la via verso dati intenti filosofici.

Tutto ciò corrisponde alle vie della conoscenza che i tempi moderni hanno battuto, ma non corrisponde alle vie della vita.

Con le sue rappresentazioni l’uomo vive ancora nella natura,

anche se egli trasporta il suo pensare meccanico nella concezione della natura.

Ma con la sua vita volitiva egli vive nella meccanica del procedere tecnico, e su così vasta scala,

che da un pezzo l’epoca scientifica ne ha ricevuto un colore del tutto nuovo” (p. 222).

 

 

Teniamo presente che

la rivoluzione  s c i e n t i f i c a  (che va, grosso modo, dal 1473 – anno della nascita di Copernico –

al 1642 – anno della morte di Galilei), è in primo luogo una rivoluzione del  p e n s i e r o ,

• mentre la rivoluzione  i n d u s t r i a l e  (che va, all’incirca, dal 1760 al 1830)

è in primo luogo una rivoluzione della  v o l o n t à .

 

Facciamo poi attenzione a questa affermazione:

• “Ma con la sua vita volitiva egli vive nella meccanica del procedere tecnico”.

• Un conto, infatti, è la meccanica quale fatto teorico (del pensiero),

• altro la meccanica quale fatto pratico (della volontà).

 

Sentite quanto dice ancora Horckeimer: • “L’ingegnere è forse il simbolo del nostro tempo. A costui non interessa capire le cose per amore di esse o per amore di una profonda visione del mondo, bensì solo per poterle inserire in uno schema, non importa quanto estraneo alla loro intima struttura. E questo vale tanto per gli esseri viventi quanto per le cose inanimate. Nella mente dell’ingegnere trova espressione lo spirito dell’industrialismo nella sua forma più funzionale. Sotto la sua guida, diretta sempre a uno scopo ben preciso, gli uomini sarebbero ridotti alla condizione di un agglomerato di strumenti senza uno scopo loro proprio”.

 

Non crediate, mi raccomando, che intenda con questo bocciare l’ingegneria, perché questa è anzi una delle poche cose che ancora funzionano, sempre che si occupi della sfera inorganica e non di quella organica (come fanno invece, ad esempio, l’ingegneria genetica e le biotecnologie).

 

Vi leggo, in proposito, dei passi di un articolo pubblicato dall’“Osservatorio”: • “Nel corso dell’Ottocento, allorché la tecnica ha preso ad allentare il suo tradizionale e monogamico vincolo con la scienza e a instaurare una sorta di menage a trois con l’economia, si è avuta la “rivoluzione industriale”, ma si è avuto anche l’inizio di quel processo che sottrae il non-essere del pensiero alla calda volontà dell’uomo per farne il veicolo della fredda volontà di quella entità spirituale che “inabita” il mondo inorganico. “È stata la “macchina” – afferma Panfilo Gentile – a produrre la “rivoluzione industriale””. Ma in tanto la macchina ha potuto sostituire l’uomo nel lavoro, in quanto ha sfruttato l’energia della natura inanimata: dei “cadaveri” vegetali, nel caso del carbone; dei “cadaveri animali”, in quello del petrolio.

I capitalisti si sono dunque illusi, come capita a ogni “apprendista stregone”, di poter dominare con la propria volontà la forza della “sub-natura” agente attraverso la macchina. “Il capitale – scrive Emanuele Severino – tende a servirsi della tecnica per incrementare il profitto; la tecnica tende invece sempre più a servirsi del capitale per incrementare la quantità di potenza a disposizione dell’uomo”.

Ma tale potenza è davvero “a disposizione dell’uomo”? O non è piuttosto l’uomo, oggigiorno, a essere “a disposizione” di tale potenza? Lo stesso Severino riconosce che “la tecnica sta portandosi al centro e alla guida della nostra civiltà perché le grandi forze di pensiero e di vita della tradizione occidentale vanno ritirandosi ai margini”. Non si tratta, in ogni caso, di essere “a favore” o “a sfavore” della tecnica (o della modernità), bensì di impegnarsi a restituire al pensiero quella vita e quella forza che la “tradizione occidentale” ha ormai perso.

Da questo punto di vista, quella della “tecnocrazia” è una vera e propria sfida al pensiero (la sfida di una natura inanimata e ricca di “energia” a un pensiero inanimato e povero di “energia”). Sul piano storico e culturale la tecnocrazia, per il suo carattere estensivo e intensivo, rappresenta un fenomeno del tutto nuovo, e proprio perché tale non si presta a essere compreso e dominato da alcuna forza proveniente dal passato. Se le “grandi forze di pensiero e di vita della tradizione occidentale” – come dice Severino – vanno “ritirandosi ai margini” è perché sono da tempo già morte. Ogni speranza, dunque, non può essere riposta che in un pensiero del tutto nuovo, in un pensiero che si dimostri capace di attingere alla “sovra-natura” la forza che gli necessita per comprendere e dominare quella della “sub-natura”, e porre così davvero la potenza della tecnica “a disposizione dell’uomo”” (6).

 

 

Se si vuol comprendere la vita umana, occorre anzitutto considerarla da due lati.

Dalle precedenti vite terrene l’uomo porta seco la facoltà di farsi delle rappresentazioni

del cosmico che agisce dalla periferia della terra e di quello che agisce nella sfera terrestre.

Percepisce con i sensi il cosmico attivo sulla terra, e per mezzo della sua organizzazione del pensiero

pensa il cosmico che dalla periferia della terra agisce su di essa.

Mediante il suo corpo fisico l’uomo vive così nel percepire; mediante il suo corpo eterico, nel pensare.

Ciò che avviene nel suo corpo astrale e nel suo io agisce nelle regioni più recondite dell’anima.

È attivo per esempio nel destino. Ma all’inizio non va ricercato nelle vicende complicate del destino,

ma nei processi semplici ed elementari della vita.

L’uomo si collega con certe forze terrestri, orientando il proprio organismo entro di esse.

Egli impara a stare eretto ed a camminare; con le braccia e con le mani impara a collocarsi nell’equilibrio delle forze terrestri.

Queste forze non agiscono però dal cosmo; sono meramente terrestri. In realtà nulla di quanto l’uomo sperimenta è astrazione.

Ma poiché non ravvisa da dove l’esperienza gli provenga, egli costruisce delle astrazioni da idee attinenti a realtà

(pp. 222-223).

 

 

Quando avevo circa trent’anni, e avevo cominciato da poco a dipingere, mi capitò di fare una singolare esperienza. Stavo sfogliando un libro sull’astrattismo, quando mi caddero gli occhi su un quadro del pittore francese Robert Delaunay (1885-1941), praticamente uguale a uno di quelli che avevo dipinto io. Intendiamoci, il suo era un’opera d’arte, mentre il mio era solo una “crosta”. L’immagine era comunque la stessa. La cosa tanto mi colpì e tanto mi dette da pensare che finii col non dipingere più (con grande sollievo, peraltro, di tutti). Mi dicevo: “Se avessi ritratto un qualche elemento della realtà, che so, un cesto di frutta o un paesaggio, potrei capirlo, ma com’è possibile che un’immagine astratta risulti praticamente uguale, nella forma e nei colori, a quella realizzata da un altro?”. Presi a indagare, finché non m’imbattei in un saggio, intitolato: Il simbolismo nelle arti figurative, nel quale l’autrice, la psicoanalista junghiana Aniela Jaffé, sosteneva che i dipinti astratti (come quelli, ad esempio, di Jackson Pollock) “si dimostrano immagini più o meno esatte della natura stessa, e dispiegano una incredibile rassomiglianza con la struttura molecolare degli elementi naturali, organici e inorganici. E’ un fatto che suscita perplessità. L’astrazione pura diviene immagine della natura concreta” (7).

 

• “Ciò significa – conclusi allora – che anche quando siamo convinti di esserci abbandonati, in un modo o nell’altro, alla fantasia, rimaniamo sempre nella realtà, e non ne usciamo”.

Dice infatti Steiner: • “In realtà nulla di quanto l’uomo sperimenta è astrazione. Ma poiché non ravvisa da dove l’esperienza gli provenga, egli costruisce delle astrazioni da idee attinenti a realtà”.

Non usciamo dunque dalla realtà quando ci lasciamo andare alla fantasia o al sogno, ma non ne usciamo neanche quando (in tutt’altro modo e a tutt’altro livello) tracciamo, ad esempio, i tre assi del cosiddetto “sistema di riferimento cartesiano” (8), giacché questi non sono che l’astratta espressione di ciò che sperimentiamo, in modo vivo, ma inconscio, quando orientiamo, come dice Steiner, il corpo fisico entro le forze terresti, quando impariamo a stare eretti, a camminare e a collocarci, con le braccia e con le mani, nell’equilibrio di tali forze.

Le nozioni di “alto e basso”, di “destra e sinistra”, di “davanti e dietro”, le ricaviamo da questa esperienza. Quando mangiamo, per dirne solo una, le sensazioni di sapore diminuiscono man mano che il cibo va dal davanti al dietro.

Si tratta di esperienze reali alle quali diamo, astraendo, una veste che permetta all’intelletto di apprenderle.

 

 

L’uomo parla di leggi meccaniche. Crede di averle estratte dai fenomeni naturali.

Non è però così; tutto quello che l’uomo sperimenta nella sua anima in fatto di leggi puramente meccaniche

è vissuto invece interiormente nel rapporto di orientamento che egli ha col mondo terrestre

(nel suo stare eretto, nel camminare, e così via)” (p. 223).

 

 

• “L’uomo – dice Goethe – non comprende mai quanto sia antropomorfico” (9).

• Com’è vero, infatti, che “nulla di quanto l’uomo sperimenta è astrazione”

• così è vero che tutto quello che l’uomo sperimenta è “homo”.

Il problema, pertanto, non è se l’uomo debba o non debba essere antropomorfico,

ma con quale parte, diciamo, dell’“homo-uomo” (di sé) va incontro all’“homo-mondo” (alla natura).

 

Pensare ad esempio il mondo come un grande meccanismo (L’universo meccanico: questo è il titolo di un recente libro dello scrittore americano Edward Dolnick) (10), vuol dire pensarlo con lo stesso tipo di pensiero che edifica e governa il nostro scheletro: ossia con un pensiero che in tanto comprende la morte in quanto è morto. La morte, infatti, non sta solo fuori di noi, ma anche dentro di noi: nello scheletro siamo appunto già morti.

Quanto vale per lo scheletro o per le ossa vale anche per i nervi e, in specie, per la cosiddetta “neocorteccia”.

 

Ho già fatto, una sera, questo esempio. Se inforcassimo degli occhiali con delle lenti rosse, vedremmo rosso quanto in effetti è rosso, ma vedremmo rosso anche quanto non lo è.

Allo stesso modo, il pensiero ordinario vede morto quanto in effetti è morto (la realtà inorganica), ma vede morto anche quanto non lo è (le realtà della vita, dell’anima e dello spirito).

E’ questo quell’“uomo a una dimensione” di cui parlava (a sproposito) Herbert Marcuse (11): ovvero, un uomo a un solo grado di pensiero e di coscienza. Dice lo Spirito della Terra a Faust: “Tu somigli allo spirito che comprendi, non a me!”.

 

Non dimentichiamo

• che veicolo dell’Io è il sangue che circola (grazie alle entità della seconda Gerarchia),

• e non il nervo ch’è fermo.

Che cosa farebbe quindi un Io che, essendo davvero un Io, “circolasse”? E’ presto detto:

• affronterebbe la realtà morta col pensiero rappresentativo,  • la realtà viva col pensiero immaginativo,

• la realtà animata col pensiero ispirato  •  e la realtà spirituale col pensiero intuitivo.

E che cosa fa invece l’ego?

• S’identifica con il primo di questi livelli di pensiero e dice: “Cogito, ergo sum” (anziché: “Sum, ergo cogito”).

• In questo modo, però, non è più il pensiero a dipendere dall’Io, ma è l’Io a dipendere dal pensiero.

 

 

Ma con questo l’elemento meccanico si palesa come elemento meramente terrestre,

poiché ciò che è legge naturale nei colori, nei suoni e così via, è fluito nell’elemento terrestre dal cosmo.

Solo nella sfera terrestre il carattere meccanico viene immesso anche nelle leggi naturali,

così come l’uomo sta di fronte ad esso con la propria esperienza solo nella sfera terrestre.

La massima parte di ciò che oggi opera nella civiltà attraverso la tecnica,

e in cui l’uomo con la sua vita è irretito in sommo grado, non è natura, ma subnatura.

È un mondo che si emancipa dalla natura, verso il basso” (p. 223).

 

 

Dice Steiner:

• “La massima parte di ciò che oggi opera nella civiltà attraverso la tecnica, e in cui l’uomo con la sua vita è irretito in sommo grado, non è natura, ma subnatura. È un mondo che si emancipa dalla natura, verso il basso”.

L’ho già detto: la tecnologia dimostra che, in virtù dell’intelletto, possiamo essere creatori nella sfera della morte.

Non possiamo esserlo, però, in quella della vita. Come per diventare creatori nella sfera della morte abbiamo dovuto infatti far nostro un determinato livello di pensiero e di coscienza (quello rappresentativo), così per poter diventare creatori nella sfera della vita dovremmo far nostro un livello di pensiero e di coscienza superiore (quello immaginativo): quel livello al quale l’Io si manifesta non più come ego, ma come Sé spirituale.

Scrive Unger: “Nel senso dell’antroposofia, la scienza viene liberata mediante l’arte (l’immaginazione), l’arte mediante la religione (ispirazione), la religione mediante la conoscenza (intuizione)” (12).

 

 

Si osservi come l’orientale, quando tende verso lo spirito,

cerchi di uscire dalle condizioni di equilibrio che provengono solo dalla sfera terrestre.

Quando medita, egli prende una posizione che lo colloca nell’equilibrio puramente cosmico.

La terra non agisce allora più sull’orientamento del suo organismo

(questo non è detto a scopo di imitazione, ma soltanto a chiarimento delle cose qui esposte; chi conosce i miei scritti,

sa come in questa direzione si differenzi la vita spirituale orientale da quella occidentale).

Occorreva all’uomo il rapporto con l’elemento puramente terrestre per lo sviluppo della sua anima cosciente” (pp. 223-224).

 

 

E’ questa l’unica ragione per la quale siamo penetrati nel regno della morte,

cioè nel regno della materia o, più esattamente, della gravità.

 

Ricordate la “legge pedagogica universalmente valida”?

• “Perché si sviluppi il corpo fisico può essere efficace solo ciò che vive nel corpo eterico, in un corpo eterico.

• Perché si sviluppi un corpo eterico può essere efficace solo ciò che vive in un corpo astrale.

• Perché si sviluppi un corpo astrale può essere efficace solo ciò che vive in un io,

• e può essere efficace su un io solo ciò che vive in un sé spirituale.

Potrei proseguire oltre il sé spirituale, ma entreremmo nell’ambito delle indicazioni esoteriche” (13).

 

Questa legge vale per l’agire, ma anche per il pensare: è l’eterico, infatti, a pensare il fisico (“Il corpo eterico è propriamente il portatore del nostro intelletto nella sua interezza […] Il pensare nell’elemento intellettuale determina una sempre maggiore indipendenza del corpo eterico, e anche la possibilità di usarlo come strumento indipendente”) (14).

Ma qual è il problema? Ormai lo sappiamo: è che l’eterico, per poter pensare il fisico, deve aderirvi e muoversi in modo discreto, e non continuo, rendendosi per ciò stesso “meccanico”.

• Per pensare la realtà inorganica, l’Io si serve dunque del pensare delle ossa e dei nervi, e non di quello del sangue. L’ego però lo ignora, ed è portato perciò a credere che il pensare, inconsciamente identificato con il movimento discreto (digitale), sia una realtà fisica, e quindi, in definitiva, neurologica o cerebrale (perdendo così la possibilità di usare il pensare eterico “come strumento indipendente”).

 

 

Nell’epoca moderna si formò poi la tendenza a realizzare ovunque, anche nell’azione, ciò che deve diventare esperienza umana.

Abbandonandosi a ciò che è meramente terrestre, l’uomo si imbatte nell’elemento arimanico.

E deve, col suo proprio essere, mettersi nel giusto rapporto con tale elemento arimanico” (p. 224).

 

 

“Mettersi nel giusto rapporto” con l’elemento arimanico non vuol dire evitarlo o fuggirlo.

Chi facesse questo non farebbe che cadere nelle grinfie dell’elemento luciferico.

Le nature nevrasteniche sono più portate verso l’intellettualità arimanica (verso quella Psiche – il rappresentare – che dovrebbe conquistare, secondo König, “la virtù dell’umiltà”), mentre quelle isteriche sono più portate verso la passionalità luciferica (verso quell’Eros – il bramare – che dovrebbe conquistare, sempre secondo König, “la virtù della compassione”) (15).

Per “mettersi nel giusto rapporto” con le forze ostacolatrici,

così da poter gestire umanamente ciò da cui si viene altrimenti gestiti dis-umanamente,

ci si deve perciò dis-identificare dalla propria natura.

 

 

Ma nel corso fin qui svoltosi dell’epoca tecnica, sfugge per ora all’uomo

la possibilità di trovare il giusto rapporto anche di fronte alla civiltà arimanica.

Egli deve trovare la energia, la forza conoscitiva interiore, per non essere sopraffatto da Arimane nella civiltà tecnica.

La subnatura deve venir capita come tale. Potrà venir capita solo se l’uomo, nella conoscenza spirituale,

salirà alla natura superiore extraterrena per lo meno altrettanto, quanto con la tecnica è disceso nella subnatura.

La nostra epoca abbisogna di una conoscenza che vada al di sopra della natura, perché interiormente

deve venire a capo di un contenuto di vita, pericoloso nella sua azione, che si è sommerso al di sotto della natura.

Beninteso, questo non vuol dire che si debba ritornare a stati di civiltà precedenti, ma che l’uomo trovi la via

per mettere le nuove condizioni della civiltà in un rapporto giusto con se stesso e col cosmo” (p. 224).

 

 

Una sera, abbiamo paragonato l’Io al fulcro di un pendolo che oscilla tra il polo luciferico e quello arimanico.

Quando vediamo il pendolo fermo (come l’ego), vuol dire allora che l’Io è stato incantato dagli ostacolatori: non già, badate, perché è fermo a “destra”, come gli rimprovereranno quelli che sono fermi a “sinistra”, o perché è fermo a “sinistra”, come gli rimprovereranno quelli che sono fermi a “destra”, o perché è fermo al “centro”, come gli rimprovereranno tanto quelli che sono fermi a “sinistra” quanto quelli che sono fermi a “destra”, ma semplicemente perché si è fermato, e perché, fermandosi, ha perso la propria libertà.

Ricordate lo Zen?

“Dove non c’è destra, dove non c’è sinistra, e dove non c’è centro, là è il centro” (massima 61).

 

 

Oggi, soltanto una piccola minoranza sente i gravi compiti spirituali che ne risultano per l’uomo.

L’elettricità, che dopo scoperta è stata esaltata come l’anima dell’esistenza naturale,

deve essere riconosciuta nella sua forza che sta nel condurre dalla natura alla subnatura.

E l’uomo non vi deve scivolare assieme!” (p. 224).

 

 

Spero sia chiaro, a questo punto, che non si tratta di tornare ad accendere le candele, ma di non scivolare, assieme alla forza dell’elettricità, dalla natura alla subnatura.

Ma quand’è che vi si scivola? Ogni volta, per dirla con Horkheimer, che la ragione dei mezzi (tecnica) prende il sopravvento sulla ragione dei fini (scientifica): ogni volta, cioè, che i mezzi si mutano in fini.

Horkheimer ha dunque ragione nell’opporre la “ragione oggettiva” (dei fini) alla “ragione strumentale” (dei mezzi), ma ha torto nell’ignorare che la sola ragione oggettiva in grado di rimettere al suo giusto posto quella strumentale è la ragione scientifico-spirituale.

 

Vedete, come il musicista si serve delle note, o come il pittore si serve dei colori, così ciascuno di noi dovrebbe servirsi dei mezzi che gli forniscono la natura e la tecnica per creare o ricreare l’umano.

Anche quella di vivere è d’altronde un’arte, ma un’arte inaccessibile, ancor più delle altre, alla mente computazionale, alla tecnica e all’ingegneria.

Ben vengano insomma l’elettricità, legata al sub-astrale luciferico, e il magnetismo, legato al sub-devachan inferiore arimanico: a patto, però, che si sia capaci di metterli al servizio del Cristo (e per ciò stesso dell’uomo) o, qualora se ne sia incapaci, si abbia allora il buon senso di ricorrere alla scienza dello spirito.

 

 

Nell’epoca in cui ancora non esisteva una vera e propria tecnica indipendente dalla natura,

l’uomo trovava lo spirito nella contemplazione della natura.

La tecnica che si andava emancipando fece sì che lo sguardo dell’uomo

si irrigidisse sull’elemento meccanicistico-materiale, quello che per lui diventava ora scientifico.

In esso è però assente tutta la spiritualità divina collegata con l’origine dell’evoluzione dell’umanità.

L’elemento puramente arimanico domina quella sfera.

Nella scienza dello spirito viene ora creata l’altra sfera in cui non esiste nulla di arimanico.

E appunto accogliendo con la conoscenza quella spiritualità, alla quale le potenze arimaniche non hanno accesso,

l’uomo si rafforza, per affrontare Arimane nel mondo” (pp. 224-225).

 

 

Ascoltate, a conclusione non solo della lettera, ma anche del nostro lavoro, queste parole di Steiner:

• “L’antroposofia è la preparazione per tutto ciò che si avvererà in avvenire. Coloro che prendono sul serio l’evoluzione dell’umanità vogliono che lo sviluppo dell’anima non si arresti e sprofondi in una palude, ma che continui a procedere in modo che la Terra possa realmente liberarsi nella sua parte spirituale, mentre la sua parte più grossolana se ne distaccherà a guisa di un cadavere. Potrebbe anche darsi che, per colpa degli uomini, tutta questa grande opera venga rovinata; ma coloro che vogliono evitare questo disastro e far sì che l’opera riesca, devono acquistarsi una comprensione della vita spirituale per mezzo di ciò che oggi chiamiamo antroposofia. Così l’antroposofia diventa un dovere, e la conoscenza desta in noi dei sentimenti di responsabilità. Quando i misteri del mondo ci inducono a sentire di voler essere antroposofi, abbiamo l’atteggiamento giusto. L’antroposofia non deve essere una mera soddisfazione della nostra curiosità, ma deve divenire una cosa senza la quale non possiamo vivere. Solo in questo caso abbiamo il giusto sentimento, solo allora siamo delle pietre vive entro quella grande costruzione che dovrà sorgere nelle anime degli uomini ed estendersi a tutta l’umanità” (16).

 

Leggiamo adesso le ultime massime.

Massime 183/184/185 (12 aprile 1925)

 

 

183 – “Nell’epoca delle scienze che si inizia intorno alla metà del secolo diciannovesimo,

l’attività culturale degli uomini scivola a poco a poco

non soltanto nei dominii più bassi della natura, ma sotto la natura. La tecnica diventa subnatura”.

 

184 – “Ciò richiede che l’uomo trovi, sperimentandola, una conoscenza dello spirito

per cui si innalzi di altrettanto nella natura superiore,

di quanto affonda sotto la natura con l’attività tecnica subnaturale.

Così si crea nell’interiorità la forza per non affondare”.

 

185 – “Una concezione naturale anteriore conteneva ancora in sé lo spirito

col quale è collegata l’origine dell’evoluzione umana;

a poco a poco questo spirito è scomparso dalla concezione naturale,

e vi si è infiltrato quello puramente arimanico, riversandosi da lì nella civiltà tecnica”.

 

 

Note:

  1. E.Segrè: Personaggi e scoperte della fisica. Da Galileo ai quark – Mondadori, Milano 2002, vol. I, p. 326;
  2. G.Segrè: Faust a Copenaghen. Lotta per l’anima della fisica – il Saggiatore, Milano 2009, p. 31;
  3. ibid., pp. 11 e 75;
  4. cfr. Eclisse della ragione, 12 maggio 1999;
  5. J.W.Goethe: Massime e riflessioni – TEA, Roma 1988, p. 158;
  6. vedi nota 3;
  7. C.G.Jung: L’uomo e i suoi simboli – Casini, Firenze-Roma 1967, p. 265;
  8. cfr. Pensiero matematico e realtà, 1 gennaio 2004;
  9. J.W.Goethe: op. cit., p. 67;
  10. cfr. E.Dolnick: L’universo meccanico – Bollati-Boringhieri, Torino 2012;
  11. cfr. H.Marcuse: L’uomo a una dimensione – Einaudi, Torino 1999;
  12. C.Unger: Il linguaggio dell’anima cosciente – Antroposofica, Milano 1970, p. 340;
  13. R.Steiner: Corso di pedagogia curativa – Antroposofica, Milano 2007, p. 31;
  14. R.Steiner: Il cristianesimo esoterico e la guida spirituale dell’umanità – Antroposofica, Milano 2010, pp. 20 e 25;
  15. K. König: L’anima umana – Natura e Cultura, Alassio (SV) 1996, p. 29;
  16. R.Steiner: Il cristianesimo esoterico e la guida spirituale dell’umanità, p. 68.

 

Al lettore

Concludiamo, dopo tre anni e mezzo, la pubblicazione di questo lavoro. Nostra sola speranza è che possa essere di aiuto a quanti, non disdegnando l’“intelletto”, studiano con serietà e amore l’opera di Rudolf Steiner.

Ricordiamo queste sue parole:

• “Nessuno può trovare direttamente una verità spirituale nei mondi superiori, se non ha sviluppato un alto grado di facoltà spirituali, di chiaroveggenza. La chiaroveggenza è condizione indispensabile, però, soltanto per la scoperta di verità spirituali. Importa tener presente che, siccome fino ad oggi ed ancora per molto tempo, i rosacroce non insegneranno nulla exotericamente che non possa venir afferrato con il comune intelletto logico, si erra obiettando che sia necessaria la chiaroveggenza per poter capire la forma rosicruciana della scienza dello spirito. L’importante non è la facoltà di percezione. Se non si comprende la sapienza dei rosacroce col pensiero significa solo che l’intelletto logico non è stato ancora sviluppato abbastanza. Se si accoglie la cultura moderna e quanto si può raggiungere attraverso di essa, basterà avere pazienza e costanza e non essere troppo pigri nello studio; si capirà allora l’insegnamento del maestro rosicruciano. Se dunque qualcuno mette in dubbio questa sapienza, dicendo che non la può capire, la causa non sarà la sua mancata elevazione ai mondi superiori, ma l’insufficiente applicazione del suo intelletto logico, o il non voler usufruire delle normali esperienze dell’intelletto al fine di capire veramente”; “Oggi la comprensione razionale, intellettuale, della scienza dello spirito è straordinariamente necessaria, perché è proprio questo il mezzo per aver ragione delle potenze culturali più resistenti. L’intelletto degli uomini, oggi, è talmente capace che tutta la scienza dello spirito può venir compresa, solo a volerlo. E mirare a questa comprensione, appunto, è un interesse della civiltà non egoistico, bensì universalmente umano” (Massime 165/166/167 – 1°).

Il nostro ”Osservatorio” resta attivo, ma ciò che d’ora in poi ci sarà dato di pubblicare non potrà conservare la periodicità (settimanale) di questi ultimi anni.

Roma, 18 marzo 2014