34° Incontro – Le condizioni di vita dell’insegnante.

Arte dell’educazione 1° – Antropologia – O.O.293

Commento di Lucio Russo


 

Ci siamo occupati, giovedì scorso, di quella parte del nostro corpo che si forma “dall’interno verso l’esterno”, cioè della testa, di quella parte del nostro corpo che si forma invece “dall’esterno verso l’interno”, cioè degli arti, e abbiamo visto che la mascella rappresenta una metamorfosi (atrofizzata) delle braccia e delle mani, mentre la mandibola rappresenta una metamorfosi (atrofizzata) delle gambe e dei piedi.

Occupiamoci adesso del petto, cioè di quella parte del nostro corpo in cui si mescolano “la natura della testa e quella degli arti, in parti equivalenti”.

 

 

“Il petto manifesta costantemente nella sua parte superiore la tendenza a divenire testa, mentre la parte inferiore mostra una continua propensione ad adattarsi alla natura degli arti, a conformarsi al mondo esteriore, cioè, in altre parole, a divenire membra.

Ma la parte superiore del petto non può divenire testa: la testa vera e propria vi si oppone.

Perciò il petto non arriva che a creare un’immagine della testa, qualcosa che si potrebbe chiamare un inizio di formazione di una testa.

Non possiamo riconoscere chiaramente che nella parte superiore del petto vi è come una preformazione della testa?

Ivi si trova la laringe (in tedesco Kehlkopf, parola composta da Kehl = gola, e Kopf = testa); questa è veramente una testa umana atrofizzata, una testa che non può arrivare a divenir del tutto testa, e che perciò realizza questa sua natura particolare nel linguaggio umano.

Il linguaggio rappresenta lo sforzo continuo sostenuto dalla laringe a contatto dell’aria, per diventare testa” (p. 197).

 

 

Vedete, se ho due mele e due pere, posso dire di avere quattro frutti. In questa addizione, 2 + 2 = 4, il primo 2 rappresenta le mele, l’altro le pere, e il 4 i frutti. E che cosa rappresentano invece il segno + e il segno = ? Lo abbiamo detto altre volte: delle relazioni, e quindi delle realtà che non si possono vedere con gli occhi o toccare con le mani come le mele e le pere (cosa che, a rigore, vale anche per i “frutti”. Hegel racconta appunto la storia di un tizio che, avendo deciso di mangiare solo “frutta”, ma non vedendosi offrire altro che mele, pere, banane, ciliegie, fragole, ecc., finì col morire di fame).

 

Ebbene, quanto vale per le mele e le pere, vale anche per la testa e la laringe (oltre che – come abbiamo visto la volta scorsa – per il naso e i polmoni, per la mascella e le braccia e le mani, per la mandibola e le gambe e i piedi). Una cosa sono infatti la testa e la laringe fisiche (che si possono vedere e toccare), altra le relazioni (eteriche) che vi intercorrono. Queste – come ormai sappiamo – possono essere percepite solo con gli occhi dello spirito, e quindi “immaginate” (dalla coscienza “immaginativa”).

 

Mi sembra già di sentire l’obiezione: “Tutto ciò, dunque, è solo frutto d’immaginazione”. Oh bella! E non è pure “frutto d’immaginazione” tutto ciò che, in fatto di relazioni, ci presenta il materialismo? Ricordate il passo di Boncinelli che ho letto la volta scorsa? Non è forse “frutto d’immaginazione” che il codice genetico si sia “instaurato per caso”, che “la pressione selettiva” non abbia “mai permesso la sopravvivenza di entità biologiche che tentassero di utilizzarne uno diverso”, o che si sia “trattato di un vero e proprio incidente congelato, di una combinazione particolare, né migliore né peggiore di altre, che ha attecchito subito e i cui effetti si sono proiettati nei secoli”?

 

Fatto sta che come non si può sfuggire al pensare, così non si può sfuggire all’immaginazione.

Il problema – se si vuole essere scientifici – riguarda perciò il come si debba immaginare. Un conto, infatti, è educarsi a farlo con rigore oggettivo, altro lasciarsi andare alla fantasia. E quand’è che ci si lascia andare alla fantasia? Quando, partendo dall’ordinario grado di veglia della coscienza rappresentativa, si scende inavvertitamente a quello inferiore del sogno (e quindi a quello delle “sub-immaginazioni” o delle “contro-immaginazioni”), anziché salire a quello superiore della coscienza immaginativa.

 

 

“Dobbiamo dunque essere coscienti che, quando il bambino ci viene affidato nella scuola, abbiamo da esercitare su di lui, nel campo dell’anima, una funzione simile a quella che il corpo ha compiuto facendo spuntare i nuovi denti.

Così consolidiamo, ma soltanto animicamente, la formazione del linguaggio, quando insegniamo nel giusto modo le regole della grammatica, che poi dal linguaggio esercitano un’azione sul modo di scrivere e di leggere.

Non avremo il giusto rapporto di sentimento col linguaggio, se non sappiamo che le parole che l’uomo pronuncia sono in realtà destinate a formare una testa” (p. 198).

 

 

La grammatica, quale “sistema osseo di natura animica”, rappresenta dunque, per l’anima, ciò che i denti rappresentano per il corpo.

Il che mi porta a dire che La filosofia della libertà sta all’antroposofia (allo spirito) come la grammatica sta al linguaggio (all’anima).

Non è forse inutile dirlo, dal momento, come purtroppo si sa, che non tutti quelli che dicono di richiamarsi all’antroposofia la studiano, l’approfondiscono e la meditano, mostrando così di non riconoscerla come l’opera fondamentale di Steiner dalla quale non si può assolutamente prescindere.

Avrete notato quante volte, nel corso del nostro studio, ci siamo richiamati a La filosofia della libertà. Ciò è dovuto al fatto che quest’opera rappresenta una sorta di “scheletro” atto a sostenere le varie materie o discipline (in questo caso, la pedagogia), permettendo loro di conseguire la “stazione eretta”, e per ciò stesso la forma “umana” (l’odierna antropologia, ad esempio, parlando dell’uomo come di un animale, mostra di non averla ancora conseguita).

 

 

“Come la parte superiore del tronco umano ha la tendenza a divenire testa, la parte inferiore ha la tendenza a divenire membra.

Ma mentre ciò che viene emesso dalla laringe, il linguaggio, è una testa di natura più sottile, una testa rimasta ancora allo stato aeriforme, tutto ciò che proviene dalla parte inferiore del tronco, e tende a organizzarsi sotto forma di membra, è invece della stessa natura degli arti veri e propri, ma più grossolana.

Ciò che il mondo esteriore impianta in certo modo nell’uomo è paragonabile a degli arti di natura più densa, più grossolana.

Se una volta la scienza arriverà a svelare il mistero per cui delle mani e dei piedi, delle braccia e delle gambe di natura più grossolana sono impiantati nell’interno del corpo umano più di quanto non appaiono all’esterno, allora questa scienza avrà scoperto i segreti della sessualità. Allora soltanto si potrà trovare il tono giusto per parlare di tali cose.

Non vi è perciò da meravigliarsi se tutte le considerazioni che oggi si fanno per spiegare la questione sessuale sono quasi prive di valore; non si può infatti spiegare bene ciò che non si capisce da se stessi (…)

Si deve sapere che, come vi è analogia fra ciò che l’educatore infonde nell’anima del bambino nei primi anni di scuola e ciò che si manifesta nel cambiamento dei denti intorno al settimo anno d’età, così pure vi è affinità fra quello che si fa entrare nell’anima dei fanciulli durante gli ultimi anni delle scuole elementari e nelle scuole medie, e ciò che deriva dalla natura degli arti e che viene completamente ad espressione soltanto dopo la pubertà” (pp. 198-199).

 

 

Dice una storiella: “Quando un tedesco non sa una cosa l’impara; quando un italiano non sa una cosa l’insegna”. Non si sa se l’abbia inventata o meno un tedesco, ma si può essere certi che quando si tratta della sessualità la tentazione d’insegnarla si fa universale.

 

Qualcuno talvolta lamenta che Steiner abbia trattato poco questo argomento. Il che è vero, ma solo per quella parte della sessualità ch’è a tal punto oberata e afflitta – oggi più di ieri – da pregiudizi e passioni (coscienti o incoscienti) da rendere praticamente impossibile il parlarne obiettivamente o con il “tono giusto”.

Ascoltate quanto dice, riferendosi appunto alla “psico-sessualità”: • “L’occultista è cauto in questo campo perché verità ed errore sono separate solo da una ragnatela e perché tocca tutto l’atteggiamento dell’anima; ecco perché è rischioso parlare di queste cose” (cfr. Essere cosmico e Io – Antroposofica, Milano 2000 – ndr).

 

Prendiamo, ad esempio, la teoria della “sessualità infantile” di Freud. Si tratta di una fantasia (di una “sub-immaginazione”) in tutto e per tutto pari a quella dell’”incidente congelato” di Boncinelli (cfr. Freud, Jung, Steiner, 15 novembre 2003 – ndr).

Sulla base di tale teoria, Freud spiega però l’origine o l’eziologia delle nevrosi. • “In principio” – sostiene infatti – c’è la sessualità (il bios); poi intervengono le “contro-cariche socio-culturali” (Fenichel) che, reprimendo in un primo tempo la sessualità, generano le perversioni, e, reprimendo in un secondo tempo le perversioni, generano le nevrosi.

 

Orbene, un ragionamento di questo genere equivale a quello di chi dicesse: due più due fa cinque, cinque più tre fa otto, e otto più quattro fa dodici; equivale cioè a un ragionamento che ha il solo difetto di partire col piede sbagliato.

“In principio” (prima ancora della pubertà), non c’è infatti la sessualità (lo ha realizzato anche Jung), bensì quella dedizione che caratterizza, animicamente, soprattutto il primo e il secondo settennio: quella dedizione che scaturisce, nel bambino, dall’inconscia convinzione che il mondo sia “buono” e “bello” (come quello spirituale che ha appena abbandonato).

 

Se proprio lo si volesse (ma sarebbe meglio evitare di aumentare la confusione), si potrebbe vedere in questa dedizione, ossia in questa corrente d’interesse e d’amore che il bambino riversa sul mondo, l’autentica “Libido” o l’autentico “Eros”.

E’ vero, dunque, che la repressione della perversione può generare la nevrosi, così come la repressione della sessualità può generare la perversione, ma ancor prima è vero che è la repressione del caldo interesse rivolto al mondo a generare precocemente quello rivolto alla sessualità: a provocare, cioè, un ritiro di tale interesse dal mondo, e un doloroso richiudersi dell’anima in se stessa (nel proprio corpo).

 

Di quale “repressione” sarebbe allora il caso di parlare? Di quella esercitata sull’anima infantile (ma non solo su questa) dalle “contro-cariche socio-culturali” (dal “conscio collettivo”, direbbe Jung) che ne mortificano o negano in modo sistematico ogni più profondo bisogno di bontà, di bellezza e di verità.

(Scrive Saul Bellow: “Un mondo dal quale il mistero è stato estirpato ti fa dolere il cuore, ti rende più suggestionabile. In poesia la gradisci, tale suggestionabilità. Quando invece irrompe nei momenti sbagliati (in un contesto razionale) mandi a chiamare la polizia; e gli agenti psicologici portano via il tuo criminale “animismo”. La tua rispettabile aridità vien così ripristinata” – Gerusalemme: andata e ritorno – Rizzoli, Milano 1977).

 

 

“Come nella facoltà d’imparare a leggere e a scrivere, durante i primi anni di scuola, si manifesta una specie di dentizione animica, così, in tutto ciò che è attività di fantasia ed è pervaso di calore interiore, si esprime quello che l’anima del ragazzo sviluppa fra il dodicesimo e il quindicesimo anno.

Allora emergono in modo tutto speciale le facoltà psichiche che hanno bisogno di essere compenetrate di amore interiore animico, vale a dire dunque quelle che si esprimono come forza di fantasia (…)

Stimolare la fantasia del ragazzo: ecco quello che dobbiamo cercar di ottenere col nostro insegnamento in questo periodo, specialmente per mezzo di quanto ha attinenza con lo studio della storia e della geografia” (p. 199).

 

 

“Specialmente”, ma non solo, dal momento che Steiner stesso esemplifica (utilizzando il teorema di Pitagora) uno dei modi in cui si potrebbe stimolare la fantasia perfino nell’insegnamento della geometria e della matematica.

Stiamo parlando, ovviamente, di quella fantasia infantile che deve fare da levatrice all’intelletto, e non di quella cui è possibile regredire (istericamente) dopo ch’è maturato l’intelletto.

Nel fanciullo, l’intelletto è il futuro della fantasia, mentre, nell’adulto, l’immaginazione è il futuro dell’intelletto.

Ho spesso ricordato, in proposito, che l’Arcangelo Michele, guidandoci verso un futuro ch’è stato, a un diverso livello, il nostro passato (la nostra origine), ispira la nostalgia del futuro: un sentimento quindi ignoto, sia a quelli cui Lucifero ispira la nostalgia del passato, sia a quelli cui Arimane presenta il futuro come un’incognita o come il “buio che è dietro l’angolo”.

 

 

“Si deve dunque far continuamente attenzione perché ciò che il maestro trasmette allo scolaro sia, in quell’età specialmente (fra il dodicesimo e il quindicesimo anno – nda), stimolante per la fantasia.

Il maestro deve mantenere vivente dentro di sé la materia d’insegnamento, deve penetrarla di fantasia.

Ed egli non vi riuscirà in altro modo se non compenetrandola di volontà piena di sentimento (…)

Tutto questo getta una luce sul modo in cui il maestro stesso deve comportarsi e vivere.

In nessun momento della sua vita deve inacidirsi.

Vi sono due cose che non si dovranno mai incontrare in lui, se la sua vita dev’essere benefica e feconda: sono la professione di maestro e la pedanteria (…)

Da ciò vedete che l’insegnamento implica una certa moralità interiore, crea certi doveri.

Esiste un vero imperativo categorico per il maestro, ed è questo: “Conserva vivente la tua fantasia; e quando senti che stai diventando pedante, di’ a te stesso: “La pedanteria può già essere un male per gli altri uomini, ma per me è una scelleratezza, un’immoralità””” (pp. 200-201).

 

 

Se è una “scelleratezza” o un’”immoralità” portare incontro ai fanciulli la “pedanteria”, figuriamoci allora cos’è il portare loro incontro, in una forma o nell’altra, la cosiddetta “realtà virtuale”: ossia una realtà che mira appunto a surrogare tecnicamente, meccanicamente e freddamente la mancanza o il vuoto di fantasia.

Tanto più, poi, che quel che crediamo ingenuamente “virtuale” è invece “reale”; non certo dal punto di vista umano, ma da quello di Arimane: dal punto di vista cioè di uno spirito che, essendo privo di anima, non può far altro che simularla.

 

 

“Al dovere di compenetrare di fantasia la sua materia d’insegnamento, il maestro deve aggiungere ancora il coraggio della verità (e Arimane – lo sappiamo – è lo spirito della menzogna – nda).

Senza il coraggio della verità, egli non potrà riuscir bene nel suo insegnamento, specialmente con gli scolari meno giovani.

D’altra parte, lo sviluppo di questo coraggio della verità dev’essere sempre accompagnato da un forte sentimento di responsabilità di fronte alla verità stessa.

Necessità di fantasia, senso della verità, sentimento di responsabilità sono le tre forze che costituiscono i nervi della pedagogia.

E chi vuole dedicarsi alla pedagogia, scriva come motto per la sua attività le parole seguenti: compenetrati di fantasia; abbi il coraggio della verità; affina il tuo sentimento di animica responsabilità” (p. 203).

 

 

Abbiamo così finito il nostro lavoro. Vi ringrazio per averlo reso possibile.

L.R. – Roma, 6 luglio 2000