4° Incontro – Finisce il secondo capitolo – comincia il terzo.

Amor, che ne la mente mi ragiona.


 

Stasera, vorrei cominciare con l’osservare

il modo in cui si va dipanando quella che abbiamo chiamato la “logica interna” del testo.

 

Abbiamo visto, nel primo capitolo, che

Steiner ci propone di distinguere i motivi coscienti dell’azione da quelli incoscienti.

• Tale incipit è significativo poiché implica il riconoscimento della realtà di due sfere:

quella del conscio e quella dell’inconscio.

Ebbene, basterebbe questo a dimostrare l’assoluta modernità di quest’opera.

 

In ogni caso, il dualismo di “conscio-inconscio” non è che l’embrione di tutti quelli che si presentano, nel secondo capitolo, nella forma più tradizionale di “spirito-materia”, “soggetto-oggetto” o “pensiero-fenomeno”.

In questo capitolo, si esplicita dunque in forma speculativa quanto è già presente nel primo in quella veste che abbiamo definito “logodinamica”. Grazie a questa osservazione viene quindi alla luce un sottile elemento di continuità.

Ma è appunto la continuità a caratterizzare il processo vitale della metamorfosi.

Parliamo infatti di metamorfosi tutte le volte che un elemento, in sé duraturo, si svolge senza soluzione di continuità nel tempo, manifestandosi in forme diverse e successive nello spazio: in forme che hanno la peculiarità di svilupparsi non solo l’una dopo l’altra, ma anche, e in primo luogo, l’una dall’altra o l’una attraverso l’altra.

 

La polarità che abbiamo precedentemente incontrato nella veste di “conscio-inconscio” si è ora dunque metamorfosata in quella di “spirito-materia”. È muovendo da quest’ultima che Steiner – come abbiamo visto – passa in rassegna le diverse soluzioni che vorrebbero dare al problema i monisti idealisti o spiritualisti, i monisti materialisti e i cosiddetti “psicofisicalisti”.

Per quanto riguarda i primi due, abbiamo osservato che “come non è possibile al materialista di abolire lo spirito, – sono queste le parole di Steiner – così non è possibile allo spiritualista di abolire il mondo esterno materiale” (p.27).

La soluzione dei terzi (e degli altri che abbiamo citato) l’abbiamo invece definita “pilatesca” poiché tesa più ad aggirare il problema che non a risolverlo.

La coniunctio, la coincidentia o la sintesi degli opposti è cosa ben diversa da un compromesso tra gli stessi; una vera sintesi, infatti, s’invera sempre in una terza e superiore realtà: ovvero, in quella realtà che come principio (o essere) viene prima degli opposti, e che come fine (o spirito) viene viceversa dopo di essi.

 

Possiamo ricordare, a questo proposito, che una delle principali differenze fra la teoria freudiana e quella junghiana riguarda proprio la concezione dell’inconscio. Per Freud, infatti, viene prima il conscio dal quale, per effetto della rimozione, si sviluppa poi l’inconscio. Per Jung, invece, viene prima l’inconscio dal quale, per effetto di una differenziazione evolutiva, si sviluppa poi il conscio.

Non credo sia difficile riconoscere come questa seconda teoria corrisponda maggiormente alla realtà. Il neonato vive infatti in un prevalente stato d’incoscienza: per lo più dorme e interrompe il suo sonno solo in quei brevi lassi di tempo che gli occorrono per nutrirsi. Soltanto dopo qualche tempo si accende in lui il lume della coscienza e, ancora più tardi, quello dell’autocoscienza. All’accendersi della coscienza dell’Io si accompagna però – secondo quanto abbiamo detto – quello della coscienza del non-Io.

 

Al riguardo, Pasquale Galluppi, un filosofo italiano (1770-1846) caduto nel dimenticatoio più ancora dei suoi contemporanei Gioberti e Rosmini, nel suo Saggio filosofico sulla critica della conoscenza (in sei volumi), si chiede: “Per quali mezzi noi arriviamo alla conoscenza di un fuor di noi?”. A tale domanda, in un breve scritto dedicato a quest’opera, ho così risposto: arriviamo alla conoscenza di un mondo che è “fuor di noi” unicamente perché noi siamo fuori del mondo.

Ciò è vero – s’intende – solo per quanto riguarda la testa. Ma nella testa c’è il cervello, e quindi il centro dell’attività neuro-sensoriale che presiede all’ordinaria conoscenza. È questo, invero, uno dei più importanti e celati aspetti dell’organizzazione umana.

 

• Con una parte di sé (con quella ritmica legata al sentire e con quella metabolica legata al volere)

l’uomo è ancora unito alla natura vivente,

• ma con un’altra parte di sé (con quella corticale legata al pensare)

ne è sgusciato fuori deponendone il cadavere (la neocorteccia).

 

Il vero problema è perciò quello di capire quale relazione vi sia

• tra lo spirito (o il pensiero astratto) che si è portato fuori dalla natura

• e lo spirito (o il pensiero vivente) che, continuando ad agire all’interno della stessa,

si presenta ai sensi quale immediata realtà sensibile.

 

Lo spirito (o il pensiero) è infatti presente e attivo nel mondo minerale, nel mondo vegetale e in quello animale.

Come facciamo a saperlo? Ci basta osservare una qualunque “legge” della natura.

In sé, cos’è infatti una “legge”?

Nient’altro che pensiero: pensiero che, dando forma alle forze, governa i fenomeni e le sostanze naturali.

Allorché indaghiamo le leggi della natura,

non facciamo dunque che ricercare il pensiero che segretamente la dirige.

 

Proprio oggi, peraltro, un amico mi ha segnalato un articolo di un quotidiano in cui si sostiene che gli animali pensano, e che il loro pensiero non è granché diverso dal nostro. Il problema non sta però nel sapere se gli animali pensino o non pensino, quanto piuttosto nel sapere se dispongano o meno della facoltà di pensare il pensiero. Come si fa, infatti, a non rendersi conto che non c’è un solo animale al mondo che, messosi a riflettere sul proprio pensiero, abbia poi scritto un articolo per sostenere che il pensiero umano non è granché diverso dal suo?

Scherzi a parte, so bene che qualche “anima bella” (ma in verità “brutta”) potrebbe rispondermi che un tale animale c’è ed è appunto l’uomo. Troppo semplice. Se l’uomo può pensare il pensiero in quanto è un animale, ci si dovrebbe infatti spiegare il perché gli altri animali non lo facciano; se l’uomo può pensare il pensiero nonostante sia un animale, ci si dovrebbe invece spiegare in virtù di quale facoltà gli riesca di fare quello che gli altri animali non fanno.

 

In realtà, l’uomo riesce a pensare il pensiero solo perché è uno spirito (un Io)

che ha in sé, quali suoi inferiori arti costitutivi, l’animale (l’astrale), il vegetale (l’eterico) e il minerale (il fisico).

 

 

“Ci siamo, è vero, distaccati dalla natura,

ma qualcosa di lei dobbiamo pure averlo preso con noi, nel nostro proprio essere.

Dobbiamo scoprire questo qualcosa, e ritroveremo allora anche l’antico nesso” (pp.28-29).

 

 

Ebbene, abbiamo già visto che tale distacco dalla natura avviene nella sfera della testa o, più precisamente, in quella della neocorteccia, e che ciò che della natura abbiamo “preso con noi” vive invece nella sfera mediana o dei ritmi (respiratorio e circolatorio) e, soprattutto, in quella vegetativa (detta – da Steiner – “metabolica e degli arti”).

Diciamo “soprattutto” perché

• nella sede superiore siamo sempre fuori dalla natura,

• in quella inferiore siamo sempre dentro la natura,

• mentre in quella mediana ne siamo alternativamente o ritmicamente dentro e fuori

(dentro nella fase di inalazione e fuori in quella di esalazione).

 

Spero vi rendiate conto che, così facendo, non solo ci lasciamo alle spalle la filosofia per fare il nostro ingresso nell’antroposofia, ma che, muovendo dall’antroposofia, ci inoltriamo di fatto nella fisiologia: non nella fisiologia ordinaria, certamente, bensì nella “fisiologia occulta”. Solo questa strada può in effetti condurci a una vera soluzione dei problemi. Ma la vera soluzione non è in fondo che l’uomo stesso. Ciò significa che quella sintesi, quel nesso o quei rapporti che andiamo ricercando sono già presenti e attivi nella vivente realtà dell’uomo.

 

In quanto è ed esiste, l’uomo è dunque una soluzione vivente, ma, come tale, ancora sconosciuta.

Per trovare la soluzione bisogna perciò trovare l’uomo e per trovare l’uomo bisogna trovare la soluzione.

 

Ho già ricordato, in uno dei nostri precedenti incontri, la figura di Pilato che chiede al Cristo “cosa” sia la verità. Ma la verità – lo abbiamo detto – non è una “cosa” né tantomeno un’“informazione” o – come sottolinea Scaligero – una “notizia”. Essa non si apprende infatti con il solo intelletto, così come si apprende, si registra o si memorizza un qualsiasi dato.

Dice il Cristo: “Io sono la via, la verità e la vita”.

Si può perciò  e s s e r e  la verità, ma non  a v e r e  la verità.

• Tuttavia, essere la verità significa  d i v e n i r e  la verità.

 

Si tratta dunque di un processo di trasformazione o di rinascita spirituale che ci coinvolge interamente. So bene che ciò può fare paura in quanto siamo abituati unicamente ad apprendere o a sapere e, per far questo, non avvertiamo alcuna necessità di modificare noi stessi. In realtà, siamo anzitutto noi a dover divenire veri.

• Difatti, se noi entriamo nella verità, la verità entra in noi e, trasformandoci, ci rende uomini.

Si tenga presente che, nella sfera della natura, non ci sono “uomini”, bensì solo individui di sesso maschile o femminile.

• Non si nasce “uomini”, ma lo si diventa.      • E diventare “uomini” significa diventare la verità.

 

 

“Noi non faremo discussioni sulla reciproca azione fra natura e spirito,

ma scenderemo nel profondo del nostro essere per trovarvi quegli elementi

che, nella nostra fuga dalla natura, abbiamo portato con noi” (p.29).

 

 

• Poiché, però, gli elementi che “abbiamo portato con noi” sono, dal punto di vista animico, il sentire subcosciente e il volere incosciente, “scendere – come si ripropone Steiner – nel profondo” significa allora scendere nella sfera della vita subcosciente (o di sogno) e in quella incosciente (o di sonno). “La nostra strada – dice sempre Steiner – è così già tracciata”.

 

Ecco riemergere qui la valenza squisitamente moderna della “nostra strada”. Chi ritiene che l’antroposofia sia una “fede” e che noi si sia dei “credenti”, si sbaglia di grosso. Essere oggi in sintonia con il vero “Spirito del tempo” non significa infatti continuare a impostare le cose nei logori termini del “credere” o del “non credere”, bensì in quelli moderni dell’“essere coscienti” o del “non essere coscienti” e, innanzitutto, dell’essere coscienti di sé o del non esserlo.

 

L’autocoscienza accende i suoi primi e incerti barlumi nell’istante stesso in cui si avvia lo sviluppo dell’anima cosciente (nel XV secolo) e consegue una sua prima maturazione nel XVII secolo, soprattutto per merito di Cartesio e del suo celebre cogito. Che tale maturazione non rappresenti che un primo e basale stadio del processo di sviluppo della coscienza dell’Io (grosso modo equivalente a quello che gli individui conseguono al termine della cosiddetta “età evolutiva”) viene messo in luce da Steiner con una considerazione molto semplice, ma rivelatrice.

“Penso, dunque sono”, dice Cartesio. Io però penso – osserva Steiner – durante lo stato di veglia e non penso durante quello di sonno. Se fosse vero, quindi, che “sono” in quanto “penso”, sarebbe vero allora che cesso di “essere” nel momento stesso in cui, durante il sonno, cesso di pensare. Il che contrasta palesemente con l’esperienza.

Fatto si è – possiamo aggiungere – che

Cartesio non distingue (come del resto fanno i più) l’“Io” dalla “coscienza dell’Io”.

• Vegliando e cogitando non si acquisisce infatti l’Io, bensì la coscienza dell’Io,

• così come, dormendo e non cogitando non si smarrisce l’Io, bensì la sua coscienza.

 

Volendo, si potrebbe anche osservare che l’Io, in realtà, è uno e trino poiché si articola, sì, nel pensare (cosciente), nel sentire (subcosciente) e nel volere (incosciente), ma non smarrisce mai, al contempo, la propria realtà unitaria. Di questa complessa e profonda realtà dell’Io sono, ciascuno di noi coglie, in virtù dell’ordinario stato di veglia, il primo aspetto, ma rimane ignaro degli altri due: ne rimane ignaro, però, nella medesima misura in cui il pensiero riflesso o astratto rimane ignaro della propria vita, della propria luce e del proprio calore.

Il pensiero che sappia ritrovare, al di là del non-essere della sua immagine riflessa (dall’organo cerebrale), la propria e viva realtà spirituale, comincia infatti a varcare, per ciò stesso, la soglia che normalmente lo separa dalla vita del sentire e del volere e ad acquisire così consapevolezza di quanto altrimenti giace nelle profondità del subcoscio e dell’inconscio. E in tali profondità – come abbiamo visto – giace anzitutto quella “forza” dell’Io che, nell’ordinaria coscienza riflessa, ci si dà unicamente quale spenta immagine o “forma”.

 

L’evoluzione della coscienza dobbiamo cominciare dunque a pensarla in termini “intensivi” e non soltanto “estensivi”: ovvero, in chiave “verticale” o “qualitativa”, e non soltanto “orizzontale” o “quantitativa”.

Se vogliamo che la scienza dello spirito sia davvero una “scienza” (scaturente dallo stesso “spirito” che “anima” le scienze naturali) dobbiamo quindi sforzarci di non soggiacere all’abitudine di impostare le cose in modo astrattamente razionale.

La scienza procede infatti per mezzo dell’osservazione e del pensiero: in una parola, dell’esperienza. E come le scienze della natura hanno per oggetto la sfera dell’esperienza sensibile, così la scienza dello spirito ha per oggetto la sfera dell’esperienza animico-spirituale; e se pure è un medesimo spirito ad animare entrambe, i loro metodi saranno diversi poiché diversi sono i loro campi d’indagine.

 

Siamo così arrivati alla fine del capitolo che Steiner – come vedete – chiude con queste parole:

 

“Quel che m’importa non è il modo in cui la scienza ha finora interpretato la coscienza,

bensì come la coscienza vive la sua vita sperimentando sé stessa, un’ora dopo l’altra” (p.29).

 

 

Un siffatto modo di procedere potrebbe in qualche modo ricordare quello della “fenomenologia” di Husserl. Steiner c’invita infatti a muovere dalla pura osservazione del fenomeno e a realizzare, “mettendo tra parentesi” il mondo, un interiore distacco (epoché) da qualsivoglia presupposto di ordine teoretico. Vedremo appunto che Steiner ci esorterà, nel prossimo capitolo, a compiere una particolarissima osservazione: una osservazione – dirà – ch’è “la più straordinariamente importante” di quante l’uomo possa farne. Detto questo, e visto che abbiamo ancora un po’ di tempo, direi di cominciare subito il terzo capitolo.

 

Terzo capitolo

 

Nel primo capitolo ci è stato presentato il dualismo di “conscio-inconscio”: dualismo che si è poi mutato, nel secondo, in quelli di “spirito-materia”, “soggetto-oggetto” e “pensiero-fenomeno”.

Ebbene, che cosa avviene adesso? Per capirlo, basta osservare il titolo di questo capitolo:

Il pensiero al servizio della comprensione del mondo.

 

Adesso ci accingiamo dunque a esaminare in modo approfondito il primo dei due termini del dualismo (rinviando l’altro al prossimo capitolo). C’è comunque da notare che mentre il primo, dopo essersi sviluppato nella sequenza “conscio-spirito-soggetto”, è già approdato – come abbiamo visto – al “pensiero”, il secondo, dopo essersi sviluppato nella sequenza “inconscio-materia-oggetto-fenomeno”, approda solo a questo punto alla “percezione” (il quarto capitolo è infatti intitolato: Il mondo come percezione).

Il dualismo iniziale è dunque pervenuto, mediante metamorfosi, alla sua forma finale:

ovvero, al dualismo di “pensiero-percezione” o, per meglio dire, di “pensare-percepire”.

È doveroso sottolineare che tale esito è specialmente fecondo poiché ognuno può rendere più facilmente oggetto della propria osservazione le concrete attività del pensare e del percepire che non le astratte rappresentazioni dello spirito e della materia o del soggetto e dell’oggetto. Quelle del pensare e del percepire sono infatti attività che svolgiamo dalla mattina alla sera, ma nelle quali raramente scopriamo di essere totalmente inseriti. È appunto questo che veniamo esortati a scoprire, cominciando ovviamente con l’osservare il pensare.

 

Dobbiamo renderci conto, anzitutto, che noi

esercitiamo la nostra attività pensante in modo del tutto naturale e, per ciò stesso, incosciente.

Il paradosso, dunque, è che siamo di norma incoscientemente pensanti:

che siamo ignari, ossia, del modo in cui funziona il nostro pensare,

di quale sia la vera natura delle forze in gioco, o di quali siano i rapporti dinamici che intercorrono

tra il concetto, il giudizio e la rappresentazione.

 

In effetti, soltanto essendo capaci di osservare e padroneggiare il pensare si può sperare di trasformare la coscienza naturale in coscienza spirituale. Quest’ultima, infatti, altro non è che la “coscienza della coscienza naturale”.

Del percepire si può dire quasi la stessa cosa. C’è però da considerare che, se quello del pensare è un grande mistero, quello del percepire lo è ancora di più.

Non a caso Scaligero, ne La logica contro l’uomo, gli ha dedicato un intero capitolo (intitolato: Verso una nuova scienza della percezione). Non solo, ma, nei suoi Manuale pratico della meditazione e Tecniche della concentrazione interiore, ha proposto, tra gli altri, anche l’esercizio del “percepire puro” (l’unica cosa – mi disse una volta – che si era permesso di aggiungere alle indicazioni pratiche fornite da Steiner).

 

Torniamo comunque al pensare, poiché è questo il tema del presente capitolo. Notiamo dunque che, osservando il mondo, noi ci limitiamo semplicemente a registrare dei dati. I fenomeni si danno, ma sperimentiamo che, se non siamo noi a mettere in movimento il pensare, con i fenomeni non si danno i relativi concetti. Conoscete forse qualcuno che, vedendo per la prima volta un triangolo rettangolo, abbia simultaneamente pensato il teorema di Pitagora? Per la verità, ci sono persone che non riescono a pensarlo nemmeno dopo anni. Per sviluppare la capacità di muovere il pensiero sul piano della pura concettualità occorre invero essere attivi e faticare (dice in proposito Goethe: “Il puro guardare un oggetto non ci permette di progredire. Ogni vedere trapassa in osservare, ogni osservare in riflettere, ogni riflettere in collegare, cosicché si può dire che noi teorizziamo ad ogni attento sguardo sul mondo”).

 

La nostra conoscenza si compone dunque di due parti:

• di una che “s’impone”, e che guadagnamo perciò senza sforzo,

• e di un’altra che viene viceversa “posta”, e che otteniamo solo in virtù della nostra iniziativa.

Se dormissimo, anche la prima parte, ovviamente, non s’imporrebbe. Qui però presupponiamo un uomo sveglio e capace di quel tanto di attenzione di cui abbisognano gli stimoli per varcare le normali soglie percettive. Stando così le cose, è dunque lecito supporre che la prima di queste due parti si basi su un’attività diversa da quella su cui si basa la seconda. Ma è in virtù di quest’ultima che otteniamo la spiegazione dei fatti o dei fenomeni.

 

 

“Vi è una differenza profondissima

fra le reciproche relazioni che hanno, per me, le varie parti di un fenomeno

prima che io abbia scoperto i corrispondenti concetti, e dopo.

La semplice osservazione può seguire le parti di un dato processo nel suo svolgimento;

ma il loro nesso rimane oscuro finché non vengono in aiuto i concetti” (p.31).

 

 

In effetti, “seguire le parti di un dato processo nel suo svolgimento”

significa seguire, nel tempo, una mera successione di fenomeni: ovvero,

prendere atto di una loro relazione cronologica, ma non ancora di una loro relazione causale o qualitativa.

 

Dati, ad esempio, i fenomeni A e B, la prima relazione mi dice, sì, che A si dà prima di B e che B si dà dopo A, ma non mi dice ancora se B si dia necessariamente per mezzo di A, se A sia perciò la causa e B l’effetto.

È vero, dunque, che per istituire un nesso temporale tra i fenomeni già si richiede l’intervento del pensiero, ma è pur vero che tale nesso non è ancora sufficiente a ottenere una loro spiegazione.

Rimanendo sul piano cronologico, potremmo infatti registrare o catalogare i fenomeni, ma mai potremmo individuare le leggi che, sul piano qualitativo, stabiliscono e governano i loro reciproci rapporti.

 

Fatto si è che noi muoviamo, normalmente, da una condizione in cui il percepire e il pensare fluiscono ininterrottamente l’uno nell’altro rendendo così oltremodo arduo il compito di districarli.

E’ soprattutto per questo che siamo abitualmente ignari della natura delle attività o degli elementi che formano la nostra conoscenza.

Avremmo mai saputo, del resto, ove non l’avessimo artificialmente analizzata, che, per formare l’acqua, occorre unire due gas (l’idrogeno e l’ossigeno), e che occorre inoltre unirli secondo una ben determinata proporzione (H2O)?

Orbene, come ci siamo serviti dell’acqua anche prima di sapere che fosse composta da due atomi di idrogeno e uno di ossigeno, così ci siamo serviti del conoscere anche prima di sapere che fosse composto, secondo rapporti specifici, dal percepire e dal pensare.

 

Anche il nostro conoscere deve essere dunque sottoposto a un procedimento di analisi: di analisi non chimica, di certo, bensì pensante o critica. “Soltanto colui che sa dividere – dice Goethe – può unire”.

Ma ciò non è facile poiché i caratteri “astenici” (neuro-sensoriali) sarebbero pronti a morire di sete pur di non sintetizzare l’idrogeno e l’ossigeno, mentre i caratteri “stenici” (metabolici), pur di non analizzare l’acqua, sarebbero magari pronti a farsi venire una crisi.

In termini più seri, ciò vuol dire che, tra gli innumerevoli equilibri che l’uomo è chiamato incessantemente a creare e ricreare, c’è anche quello tra l’analisi e la sintesi, tra la divisione e l’unione o tra il molteplice e l’uno.

Difatti, colui che divide deve dividere quel che prima era unito e colui che unisce deve unire quel che prima era diviso. La cosa può sembrare forse ovvia, ma non è così. Ad esempio, il meccanicista ama dividere, ma non unire, mentre il mistico ama unire, ma non dividere. La sintesi operata dai monisti, per essere valida, non deve essere dunque frettolosa, bensì frutto di una previa e scrupolosa analisi.

 

In ogni caso, per tornare al problema della “spiegazione” dei fenomeni, vorrei che riflettessimo ancora sulla grande differenza che c’è, anche nella vita quotidiana, tra l’atteggiamento che assumiamo nei confronti delle cose che conosciamo bene e quello che assumiamo nei confronti di quelle che conosciamo invece meno o non conosciamo affatto.

Io, per esempio (perdonate questo riferimento personale), intendendomi di pipe, ma assai meno di orologi, conosco bene la differenza che c’è tra lo stato d’animo con il quale mi può capitare di portare a riparare una pipa e quello con il quale mi può capitare di portare a riparare invece un orologio. In questo secondo caso, infatti, non essendo in grado di valutare la natura del danno, non so neanche valutare l’entità della spesa e sono perciò costretto a rimettermi interamente alla competenza e all’onestà dell’orologiaio.

Il seppur lieve disagio che ciò comporta è del tutto assente, invece, quando, portando ad aggiustare una pipa, so bene quel che è successo, quel che bisogna fare per ripararla e la spesa cui andrò probabilmente incontro. In questo caso, mi sento più sicuro e quindi a mio agio. Ben capite che questi stati d’animo, dipendendo direttamente dal conoscere, si prestano a essere estesi al nostro intero rapporto col mondo e con gli altri.

 

Lasciatemi dire, a questo proposito, che ben poche cose mi appaiono più ridicole del senso di “insicurezza” di cui parla la psicopatologia. Suvvia! Ma su quale senso di “sicurezza” dovrebbe mai contare un individuo che non sa darsi ragione del perché è nato, del perché vive e del perché morirà?

Non credo proprio di esagerare dicendo che, stando così le cose, dovrebbe essere considerato normale il senso di “insicurezza” e non quello di “sicurezza”. D’altro canto, scopo più profondo della scienza dello spirito è quello di renderci, nel senso più elevato, degli uomini “pratici” e non dei velleitari o dei sognatori.

In proposito, mi capita spesso di dire che si sta sempre più avvicinando il giorno in cui, senza una scienza dello spirito, non riusciremo nemmeno a cuocerci due uova al tegame. Difatti, se a una realtà (del percepire) che è, e sempre è stata, “forte”, continueremo a contrapporre un pensiero che si va facendo sempre più “debole”, noi tutti, prima o poi, ci trasformeremo in esseri incapaci di pensare tanto il mondo che ci circonda quanto gli eventi o il destino che la storia ci chiama ad affrontare.