5° Incontro – Non conosciamo la forza del volere, ma sempre e soltanto la sua rappresentazione.

Arte dell’educazione 1° – Antropologia – O.O.293

Commento di Lucio Russo


 

Abbiamo concluso il nostro ultimo incontro leggendo un passo in cui Steiner raccomanda di “notar bene

la differenza tra germe e immagine”.

 

• Il germe – spiega – è “qualcosa di sopra-reale” che va verso il futuro

(una “potenza” che va verso l’”atto” – nda),

• mentre l’immagine è “qualcosa di sub-reale” che viene dal passato

(un “atto” in cui si è esaurita la “potenza” – nda).

 

Ma che cosa sono, in realtà, il passato, il presente e il futuro? Sono qualità del tempo

(il “colore”, il “profumo” o il “sapore” che gli conferiscono le entità superiori).

 

Penso ricordiate, a questo proposito, che Steiner, ne L’iniziazione, c’invita (ve lo leggo), a

“dirigere l’attenzione dell’anima su determinati processi del mondo che ci circonda; da un canto sulla vita germogliante, crescente e fiorente, e dall’altro su tutti i fenomeni connessi con l’appassire, lo sfiorire e il morire”.

 

Tanto il nascere o il germogliare, quanto l’appassire o il morire sono processi che si svolgono nel tempo,

• ma il primo (come Steiner spiega altrove) conferisce al tempo una qualità “solare”,

• mentre il secondo gliene conferisce una “lunare”.

 

• Una cosa, dunque, è il dipanarsi ininterrotto del tempo (di quel tempo che, a detta di Albert Einstein, “non è nella fisica” e che, a detta di Ilya Prigogine, “precede l’esistenza”),

• altra sono le qualità che caratterizzano o animano i momenti o le fasi del suo divenire.

Immaginiamo, ad esempio, una circonferenza tracciamone poi il diametro verticale A-C e quello orizzontale B-D, così da dividerla in quattro archi di cerchio.

La linea continua della circonferenza, rappresentante l’andamento del tempo, è ora suddivisa nei quattro archi A-B, B-C, C-D e D-A, che dobbiamo immaginare come quattro fasi qualitativamente diverse tra loro.

 

 

Posto, nel punto A, il momento della nascita e, nel punto C, quello della morte, il primo arco (A-B) rappresenterà la fase che va dalla nascita alla prima metà della vita; il secondo (B-C) quella che va dalla seconda metà della vita alla morte; il terzo (C-D) la fase che va dalla morte alla cosiddetta “mezzanotte cosmica”; il quarto (D-A) quella che va dalla “mezzanotte cosmica” a una nuova nascita (terrena).

 

Fatto sta che ognuno di noi,

• sia nel corso della prima metà della vita dopo la nascita (per maturare quale essere terreno),

• sia in quello della prima metà della vita dopo la morte (per maturare quale essere spirituale) “cresce” e “fiorisce”,

mentre,

• sia nel corso della seconda metà della vita dopo la nascita (per ri-nascere quale essere spirituale),

• sia in quello della seconda metà della vita dopo la morte (per ri-nascere quale essere terreno),

“appassisce” e “sfiorisce”.

 

L’attività del rappresentare (l’”immagine”), collegata alla vita prima della nascita (al passato),

va messa dunque in rapporto con la semicirconferenza A-C,

mentre l’attività del volere (il “germe”), collegata alla vita dopo la morte (al futuro),

va messa in rapporto con la semicirconferenza C-A.

 

La volontà – afferma appunto Steiner – non è altro “che il germe, già insito in noi,

di ciò che dopo la morte sarà in noi una realtà spirituale-animica”.

 

Se sul piano del tempo abbiamo dunque a che fare con la continuità, e quindi con la metamorfosi,

sul piano della qualità abbiamo invece a che fare con l’enantiodromia (con il “rovesciamento nell’opposto”):

ad esempio, con una morte (spirituale) che si muta in una nascita (terrena),

con una morte (terrena) che si muta in una nascita (spirituale),

o con un processo d’incarnazione che si muta in un processo di dis-incarnazione, e viceversa.

 

Lo abbiamo detto. C’è una logica dello spazio, c’è una logica del tempo, e c’è una logica della qualità;

e quest’ultima è per l’appunto caratterizzata dall’enantiodromia

(come avevano intuito, sul piano psicologico, Jung e, su quello speculativo, Hegel).

 

Che cosa significa tutto ciò? Significa che • il mondo (spirituale-terreno) è uno,

mentre diversi sono i modi in cui noi possiamo entrarvi in rapporto.

Siamo noi, infatti, a nascere e morire, a incarnarci e a dis-incarnarci.

 

In qual modo entriamo in rapporto col mondo, durante la vita tra nascita e morte?

In due modi opposti:

• attraverso il rappresentare (collegato al passato), che ha col mondo

un rapporto caratterizzato (etimologicamente) dalla fredda anti-patia, e quindi dalla r e p u l s i o n e ;

• attraverso il volere (collegato al futuro), che ha col mondo

un rapporto caratterizzato (etimologicamente) dalla calda sim-patia, e quindi dall’ a t t r a z i o n e .

 

Non è facile, tuttavia, collegare correttamente la volontà al futuro, poiché siamo per lo più portati a figurarcela come una vis a tergo: ossia, come una forza che ci spinge da dietro. Ma non è così.

Dovremmo piuttosto figurarcela simile alla forza della calamita che attrae a sé il ferro. Questa immagine della calamita, apparentemente passiva (perché non si muove), ma in realtà attiva (in quanto attrae), e del ferro, apparentemente attivo (perché si muove), ma in realtà passivo (in quanto attratto) ci permette inoltre di chiarire lo stato in cui ci troviamo nel nostro ordinario volere (nel nostro desiderare o bramare): apparentemente attivi (in quanto muoviamo verso l’oggetto bramato), in realtà passivi (in quanto mossi o attratti da esso).

 

• Laddove agiscono la sim-patia e l’attrazione, viviamo in simbiosi (maggiore o minore) col mondo,

• mentre laddove agiscono l’anti-patia e la repulsione, lo oggettiviamo.

Dobbiamo quindi all’anti-patia e alla sua capacità di oggettivare il mondo,

la facoltà di conoscerlo, rappresentandocelo.

 

Anche il rappresentare, in quanto modalità (riflessa) del pensare

condizionata, al contrario di quella concettuale, dalla vita prenatale, è dunque destino o karma.

 

Nel ciclo di conferenze, intitolato: Il pensiero cosmico (ripubblicato, nel 2004, dalle edizioni Estrella de Oriente, con il titolo: Pensiero umano e pensiero cosmicondr), Steiner spiega, in proposito, che ci si sente portati, che so, al materialismo, al sensismo, al realismo, all’idealismo o allo spiritualismo, non perché si trovi più giusta una concezione, ma perché l’anima è predisposta ad accogliere la luce della costellazione che le corrisponde.

 

Ogni costellazione (ogni segno dello zodiaco) è in rapporto con una “visione del mondo”,

così come ogni pianeta è a sua volta in rapporto

con la disposizione animica (gnostica, volontaristica, mistica, ecc.) con cui questa viene vissuta.

 

Può essere interessante notare che anche il celebre filosofo e psichiatra tedesco Karl Jaspers (ignorando, ovviamente, il risvolto cosmico della questione) ha dedicato un’opera alla Psicologia delle visioni del mondo (Astrolabio, Roma 1950 – ndr), distinguendo – al pari di Steiner – le “visioni del mondo”, propriamente dette, dagli “atteggiamenti” (intuitivo, estetico, razionale, ecc.) con cui vengono vissute.

Questa relativizzazione psicologica delle Weltanschauungen (degli “ismi”) non deve sorprendere, poiché un conto sono le idee (“le visioni del mondo – afferma Jaspers – sono idee”), un conto è l’Io.

 

Che cosa sostiene infatti Steiner, nello stesso Pensiero cosmico?

Che l’Io dovrebbe essere indipendente dalle idee (dalle essenze del corpo astrale),

perché solo così potrà davvero “averle”, e quindi servirsene

per afferrare compiutamente (e non unilateralmente) la realtà del mondo.

 

Fatto si è che come ciò che si rivela ad esempio alla vista non si rivela al tatto, o ciò che si rivela all’udito non si rivela al gusto, così ciò che si rivela ad esempio al realismo non si rivela all’idealismo, o ciò che si rivela al materialismo non si rivela allo spiritualismo.

Ma torniamo a noi.

▸ Dice sempre Steiner che se cercassimo “quale contenuto gli psicologi assegnino alla volontà” troveremmo “sempre che tale contenuto proviene dal rappresentare e che la volontà, a tutta prima, non ha reale contenuto”.

 

Non conosciamo la forza del volere, ma sempre e soltanto la sua rappresentazione,

poiché nella sfera in cui opera il volere siamo incoscienti (come nel sonno senza sogni),

mentre in quella in cui opera il rappresentare siamo coscienti.

 

Soprattutto oggi, sarebbe importante distinguere con attenzione

il reale dalla rappresentazione del reale (dal cosiddetto “virtuale”),

poiché corriamo sempre più il rischio di confondere il reale con quella pletora di sue rappresentazioni

ammanniteci quotidianamente dalla stampa, dal cinema, dalla televisione, dai computer o dai videogiochi

(cui, non bastasse, si sono di recente aggiunte quelle dei videofonini – ndr).

 

Abbiamo visto, infatti, che la rappresentazione del reale, in quanto “immagine” o non-essere, è irreale.

Essendo dunque il rappresentare un irreale o un non-essere cosciente e il volere un reale o un essere incosciente,

la sola cosa che possiamo fare è sviluppare allora la coscienza

per portarla all’altezza del reale e dell’essere.

Non riusciremo però a farlo, se non supereremo, per mezzo dell’antroposofia,

l’irrealtà o il non-essere dell’ordinario pensiero riflesso e del grado di coscienza che gli corrisponde.

 

 

“Portiamo in noi la forza dell’antipatia, e, per suo mezzo, trasformiamo l’elemento prenatale in una semplice immagine rappresentativa.

Invece ci uniamo in simpatia con la realtà volitiva che irradia, oltre la morte, verso un’esistenza ulteriore.

Di questa simpatia e di questa antipatia non diveniamo coscienti in modo immediato;

esse vivono in noi inconsciamente e formano il nostro sentire il quale è continuamente costituito

da un ritmo alterno di simpatia ed antipatia, di sistole e diastole.

Abbiamo continuamente in noi questo ritmo alterno, nel nostro sentire:

l’antipatia, che agisce in un senso, trasforma continuamente la nostra vita animica in rappresentazione;

la simpatia, che agisce nell’altro, trasforma la nostra vita animica

in ciò che conosciamo come la nostra volontà d’azione

la quale, mantenuta allo stato di germe, diviene realtà spirituale dopo la morte” (p. 34).

 

 

Quelle della sim-patia e dell’anti-patia sono dunque attività “fisiologiche”.

Solo un abnorme prevalere dell’una sull’altra ingenera infatti una patologia. Una cosa, perciò, è parlare del “tipo” isterico, altra parlare del “nevrotico” isterico, così come una cosa è parlare del “tipo” nevrastenico, altra parlare del “nevrotico” ossessivo.

 

Laddove l’eccessiva prevalenza della sim-patia (del volere) sull’anti-patia (sul rappresentare), o dell’anti-patia

sulla sim-patia, genera una patologia, gli opposti caratteri di queste due forze si rendono più evidenti.

Consideriamo, ad esempio, la nevrosi “ossessivo-coatta” (“croce” degli psicoterapeuti).

 

▸ Dice Steiner che “portiamo in noi la forza dell’antipatia,

e, per suo mezzo, trasformiamo l’elemento prenatale in una semplice immagine rappresentativa”.

È dunque la forza dell’anti-patia a neutralizzare quella della vita prenatale.

 

Ma che cosa accade – domandiamoci – quando la forza dell’anti-patia non è in grado di assolvere a questa funzione, perché, dis-locandosi, prende magari a tenere a bada o a respingere il presente (terreno) anziché il passato (spirituale)?

Accade quel che si verifica appunto nelle nevrosi ossessivo-coatte: ossia, che il rappresentare (legato alla vita prenatale) rimane dotato di un’inconsueta, cogente e patogena vitalità.

Al cospetto di questa nevrosi, viene infatti da domandarsi: ma il rappresentare, normalmente spento o inerte, da dove mai trarrà tanta energia?

 

Abbiamo detto, la volta scorsa, che un conto è avere a che fare con un gatto, altro avere a che fare con la foto di un gatto. Ebbene, il particolare sconcerto che suscita la nevrosi ossessivo-coatta potrebbe essere appunto paragonato a quello suscitato dalla foto di un gatto che miagolasse, facesse le fusa o graffiasse.

Dal momento, però, che una foto non può fare tali cose, si dovrebbe riconoscere che ci si trova allora al cospetto di un gatto vero e proprio, e non di una sua mera riproduzione. Si dovrebbe in altri termini riconoscere (ma sta qui la difficoltà) che ci si trova in questo caso al cospetto di un pensare o di un immaginare vivo, e non di un rappresentare morto: cioè al cospetto di una realtà che proviene dalla vita prenatale (e non soltanto, quindi, da quella dell’infanzia o della vita intrauterina), e che, in tanto continua a farsi sentire, in quanto non è stata sufficientemente neutralizzata o devitalizzata dal presente.

 

Siamo soliti parlare – lo sapete – del “pensiero vivente” (Scaligero ha scritto un Trattato del pensiero vivente).

Ma come vedete,

• un conto è il pensiero che vive (quale immaginazione)

perché non è ancora morto (perché non si è fatto ancora rappresentazione),

• un conto è il pensiero che vive (quale coscienza immaginativa)

perché è risorto dalla morte (dalla coscienza rappresentativa).

 

Tanto che si potrebbe dire, schematizzando:

• il pensiero non ancora morto è psichicamente morboso;

• il pensiero morto è psichicamente “normale” (ordinario);

• il pensiero risorto è animicamente sano e, in quanto tale, propriamente umano.

• Il primo infatti lo si patisce (poiché vive nostro malgrado),

• il secondo invece lo si condivide (col “conscio collettivo”),

• e il terzo infine ci rinnova (poiché può essere soltanto conquistato).

 

Sta di fatto che,

• sia il pensiero non ancora morto (legato extrasensibilmente al passato),

• sia quello morto (legato sensibilmente al presente), sono del tutto sterili

(quello morto, infatti, è creativo unicamente sul suo stesso piano: vale a dire, su quello della tecnica),

in quanto manca loro la forza (legata extrasensibilmente al futuro) della coscienza immaginativa.

(Un altro dei libri di Scaligero è per l’appunto intitolato: La luce – Introduzione all’immaginazione creatrice).

 

Ovviamente, il pensiero morto può essere disturbato o inficiato anche dal volere inconscio, istintivo e bramoso (come accade nelle nevrosi isteriche). In questo caso, non ci si trova al cospetto di un pensiero intrinsecamente (ma morbosamente) vivo, bensì al cospetto di un pensiero ravvivato o rinfocolato estrinsecamente (ma sempre morbosamente) dalle brame (che gli psichiatri chiamano “pseudologia fantastica”, e che io spesso chiamo, molto meno dottamente, “panziero”).

Non abbiamo purtroppo tempo per parlare ancora delle patologie (che si manifestano soprattutto nel sentire) dovute allo squilibrio tra il rappresentare e il volere; vorrei pertanto consigliarvi, ove desideraste saperne di più, un vecchio libro dello psicoterapeuta americano David Shapiro, intitolato: Stili nevrotici (Astrolabio, Roma 1969 – ndr). Si tratta di un testo in cui l’autore prende appunto in esame le modalità del pensare, del sentire e del volere che caratterizzano la nevrosi “ossessivo-coatta”, la nevrosi “paranoide”, la nevrosi “isterica” e quella “impulsiva”.

Prima di lasciarci, vorrei comunque dire due parole sul problema del rappresentare e del volere, dal punto di vista dello sviluppo spirituale.

 

Normalmente,

• il rappresentare, che viene dal passato, è “vuoto”,

• mentre il volere, che va verso il futuro, è “cieco”.

Si tratta di due correnti che scorrono parallele (ma in senso inverso) nell’anima,

senza potersi perciò incontrare e reciprocamente fecondare

(ricordate Goethe? “Due anime albergano nel mio petto…”).

 

Qualora però ci rammentassimo di uno degli schemi che si trovano in Antroposofia–Psicosofia– Pneumatosofia (Antroposofica, Milano 1991, p. 186 – ndr), ci avvedremmo che queste due correnti orizzontali vengono intersecate da altre due correnti verticali (legate al presente): una proveniente, in basso, dal corpo fisico; l’altra proveniente, in alto, dall’Io.

 

 

 

Il che ci consentirebbe di realizzare che è l’Io

(quel presente detto – da qualcuno – “il riflesso dell’eterno nel tempo degli uomini”)

a dover far sì che, nell’anima,

la corrente del passato (del rappresentare) s‘incontri con quella del futuro (del volere),

così che la prima cessi di essere “vuota”, e la seconda di essere “cieca”.

È dall’incontro di queste due correnti che nasce la coscienza immaginativa.

 

Allorché si attraversa poi la “soglia”, che divide

il regno dell’esistere (dell’”al di qua”) da quello dell’essere (dell’”al di là”),

e si sale dalla coscienza immaginativa (vivente) a quella ispirativa (qualitativa),

si realizza invece un’enantiodromia:

la luce del pensiero (non più separata dal calore della volontà)

si fa infatti percezione (del pensare-volere delle Gerarchie),

• mentre il calore della volontà (non più separato dalla luce del pensiero)

si fa dedizione (al volere-pensare delle Gerarchie).

 

È solo dunque a questo punto che l’uomo – come afferma Steiner –

“cessa di essere ragionevole e comincia a diventare saggio”.

 

L.R. – Roma, 2 dicembre 1999