6° Incontro – Continua il terzo capitolo

Amor, che ne la mente mi ragiona.


 

Stasera, prima di proseguire l’esame di questo capitolo, vorrei tornare su alcune cose dette la volta scorsa.

Abbiamo visto, anzitutto, che Steiner ci invita a fare un’osservazione inconsueta. Dico “inconsueta”, poiché si tratta di osservare una cosa che passa quasi sempre inosservata: la nostra attività pensante. Non veniamo dunque sollecitati a pensare qualcosa, ma ad accorgerci di qualcosa.

Una volta che ci si è resi conto di svolgere tale attività, ci si pone però la domanda: “Perché, mentre pensiamo, non ci accorgiamo di pensare?”. A questa – come abbiamo visto – Steiner risponde: • “Perché ci è normalmente impossibile osservare una cosa nel momento stesso in cui la stiamo facendo”.

 

• Quando creiamo ci troviamo infatti all’interno di un fare,

• mentre quando conosciamo ci troviamo all’esterno di un fatto.

In ogni caso,

• dopo aver risolto il problema di “osservare” il pensare,

• ci si è posto quello di “pensare” il pensare stesso.

 

 

“Per moltissimi uomini è oggi difficile afferrare il concetto del pensare nella sua purezza” (p.37).

 

 

Proprio per questo, aiutandoci con dei facili esempi, abbiamo cercato di mettere in evidenza la natura del relazionare o del pensare puro. Ricorderete, di certo, che abbiamo cominciato osservando le relazioni esistenti tra due dati (A e B): relazioni espresse l’una dal segno > (maggiore) e l’altra dal segno < (minore).

A questo livello – come abbiamo visto – non s’incontra ancora però il pensiero puro. Per incontrarlo è infatti indispensabile prescindere da quei contenuti determinati (A e B) che, in quanto attinti alla sfera sensibile, ne recano l’impronta.

Coscienti di ciò, cosa abbiamo fatto allora? Abbiamo isolato le relazioni da siffatti contenuti e ci siamo poi concentrati su di esse. Non abbiamo più pensato, cioè, che A era maggiore di B (A>B) e che B era minore di A (B<A), ma ci siamo concentrati sulla relazione di “maggiore” (>) e su quella di “minore” (<), chiedendoci quale relazione potesse esserci tra le due.

 

• Se, all’inizio, ci eravamo trovati alle prese col problema di due diverse relazioni tra due stessi dati,

• alla fine ci siamo trovati dunque alle prese col problema di una stessa relazione tra due diverse relazioni.

 

Come ricorderete, è solo a questo punto che ci si è infatti rivelata la relazione pura. E ci si è rivelata quale “essere” o “sostanza” comune delle due diverse forme di relazione. È appunto tale essere o sostanza ad aver infatti assunto, in un caso, la forma “maggiore” (>) e, nell’altro, la forma “minore” (<). Va peraltro detto che una riflessione del genere può anche trasformarsi in un vero e proprio esercizio. Insistendo a meditare o a contemplare l’essere o la sostanza comune delle diverse relazioni si può infatti giungere a una diretta esperienza del pensare puro.

 

Dal momento che abbiamo parlato di esercizio interiore, vorrei provare a proporvi un’altra riflessione. Prendete una superficie libera (un foglio di carta bianca o una lavagna) e tracciatevi in mezzo una linea. Ebbene, sapete cosa avete fatto? Con un sol gesto, avete dato vita a due opposte realtà. Se avete tracciato una linea orizzontale, avete dato infatti vita a un “sopra” e a un “sotto”, o a un “alto” e a un “basso”; se ne avete tracciata una verticale, avete dato invece vita a una “destra” e a una “sinistra”. Una riflessione del genere, per quanto elementare, può aiutarci a capire che

è la dualità a derivare dall’unità                • o che sono gli elementi a derivare dall’insieme.

 

Diciamo questo poiché gli “atomisti” sono convinti del contrario.

Alla base della loro convinzione c’è però un equivoco. Pensate, ad esempio, a un puzzle. È vero che la figura d’insieme finale del puzzle deriva dalla unione dei singoli pezzi, ma non meno è vero che i singoli pezzi derivano dalla divisione della figura d’insieme iniziale. Allorché ci accingiamo a ricomporre tali pezzi, dovremmo perciò ricordarci che ci troviamo soltanto all’inizio della storia del nostro (soggettivo) giocare, e non all’inizio della storia (oggettiva) del gioco.

 

Chiunque fosse incapace di distinguere tra queste due storie, somiglierebbe a un individuo che, entrato in un cinema con mezz’ora di ritardo, fosse nondimeno convinto che il film è iniziato nello stesso momento in cui lui ha cominciato a vederlo. Mi rendo conto che questi esempi possano apparire a prima vista bizzarri. Essi alludono, tuttavia, a una questione molto seria: ovvero, al rapporto tra la  • storia del mondo    • e la storia della coscienza del mondo.

Tanto dal punto di vista filogenetico quanto da quello ontogenetico, gli esseri umani pervengono alla coscienza scientifica e analitica del mondo soltanto a un certo stadio della loro evoluzione o della loro storia.

L’origine del mondo non coincide dunque, nel tempo, con quella della coscienza intellettuale.

• I chimici, ad esempio, sono attualmente convinti (“atomisticamente”)

che si debbano spiegare i composti mediante gli elementi, e non viceversa.

 

Ascoltate quanto dice infatti, alla voce “composto”, questa moderna Enciclopedia della scienza e della tecnologia: “Sostanza derivante dalla combinazione di due o più elementi secondo un rapporto in peso ben definito e costante in ogni suo campione, ossia secondo un rapporto definito tra il numero di atomi di ciascuno degli elementi costituenti”. L’acqua – si esemplifica – è un composto che deriva dalla combinazione di due atomi di idrogeno e di un atomo di ossigeno.

Ciò che non viene detto o ricordato, però, è che questo lo sappiamo unicamente in virtù dell’analisi chimica. Come un bambino smonta un giocattolo per capire com’è fatto, così noi “smontiamo” l’acqua per capire com’è fatta. Quel che non va, tuttavia, è che, così facendo, si finisce poi col credere che l’acqua, all’inizio del mondo, sia stata “montata” in modo analogo a quello in cui il giocattolo viene “rimontato” dal bambino. Non si considera, perciò, che

la coscienza intellettuale, in virtù della quale analizziamo e conosciamo gli elementi,

è qualitativamente diversa da quella che ci consente di conoscere sinteticamente l’insieme.

 

Ovviamente, ciò vale soprattutto per la realtà vivente. L’esistenza di un qualunque organismo, non solo precede infatti quella della conoscenza analitica dei suoi componenti, ma soprattutto non si presta, quale insieme, a essere ridotta a questi ultimi.

La stessa Enciclopedia aggiunge appunto: • “Le caratteristiche fisico-chimiche di un composto sono diverse da quelle degli elementi che lo compongono (un composto costituisce un individuo chimico dotato di sue specifiche proprietà che ne permettono il riconoscimento)”. Ma se le cose stanno così, sarebbe più corretto dire allora che l’acqua, proprio in quanto “individuo chimico”, costituisce una realtà (qualitativa) a sé stante che si manifesta, sul piano fisico-chimico, combinando e utilizzando, a suo modo, l’idrogeno e l’ossigeno. Ciò non viene detto, però, perché

la coscienza intellettuale, mentre riesce a pensare realisticamente gli elementi,

non riesce a pensare realisticamente l’insieme.

Tanto reale è comunque quest’ultimo che la medesima coscienza non può fare a meno di figurarselo dotato – come abbiamo visto – di una propria “individualità”.

 

Del resto (ed è questo l’aspetto più importante della questione), come i singoli elementi, nella vita della natura, se ne starebbero in pace o in equilibrio nei loro composti se la mano dell’uomo non intervenisse a dividerli e isolarli, così i singoli concetti, nella vita dello spirito (che è – non dimentichiamolo – l’altra faccia di quella della natura), se ne starebbero in pace o in equilibrio nelle loro idee (nei loro composti) se l’intelletto dell’uomo non intervenisse a dividerli e isolarli.

D’altro canto, solo la coscienza che ha imparato, mediante appunto l’intelletto, a dividere e isolare i concetti (ad analizzarli) può sperare di riunirli, mediante la ragione, nelle idee, per ricomporre poi queste nella loro armonia originaria (quella cosiddetta “delle sfere”).

 

 

“Dalla semplice osservazione io non so perché al lampo segua il tuono; ma perché il mio pensiero colleghi il concetto di tuono con quello di lampo, io lo so immediatamente dal contenuto dei due concetti” (p.37).

 

 

Alla luce di quanto detto fin qui, spero sia chiaro che è dunque un’intrinseca e reciproca necessità a spingere questi due concetti l’uno verso l’altro. In effetti, dal momento che essi, nel mondo delle idee, sono uniti, ci si dovrebbe semmai meravigliare di trovarli, nella coscienza umana, separati.

Nel mondo, invero straordinaria è l’analisi cosciente (intellettuale e “a-posteriori”)

e non la sintesi incosciente (naturale e “a-priori”).

 

Risposta a una domanda

Galluppi, pur essendo uno spiritualista, cerca un sostegno nell’empirismo perché intende contrastare le tesi “innatistiche” del razionalismo. Quest’ultimo sostiene infatti che le idee sono “innate”, mentre l’empirismo sostiene che nascono dall’esperienza. Si tratta però di un errore poiché dall’esperienza (sensibile) non nascono le idee, bensì nasce la coscienza delle idee.

Abbiamo infatti bisogno dell’esperienza se vogliamo che le idee divengano coscienti. So bene che non è facile immaginare una cosa del genere, in quanto siamo disabituati a pensare che esistano delle idee inconscie.

 

Vorrei raccomandarvi, al riguardo, di rileggere le pagine che Steiner, ne Le opere scientifiche di Goethe, dedica a Eduard von Hartmann e alla sua Filosofia dell’inconscio. In tale opera, questi sostiene appunto che una cosa è la realtà in sé dell’idea, altra il rapporto che tale realtà ha con la coscienza umana. La distinzione tra un’idea cosciente e una incosciente riguarda perciò la coscienza umana e non la natura intrinseca dell’idea.

Viene da pensare, in proposito, che Jung, ove fosse stato criticamente più agguerrito, sarebbe probabilmente giunto alla stessa conclusione. Invece che di “mondo dello spirito” e di “idee” egli ha parlato però di “inconscio collettivo” e di “archetipi in sé”, senza realizzare che gli “archetipi in sé” altro non sono che “idee” e che le “idee” altro non sono che “archetipi in sé”.

 

In ogni caso,

• le idee, per passare dalla vita incosciente della natura a quella autocosciente dello spirito,

debbono attraversare le “forche caudine” dell’intelletto umano.

Volendo usare i termini cari agli alchimisti, potremmo perciò dire che l’intelletto solve quanto la natura coagula, mentre lo spirito coagula quanto l’intelletto solve. La coscienza umana si evolve dunque attraverso un moto di “andata” (analitico) e uno di “ritorno” (sintetico): ovvero, attraverso un ritmo animico-spirituale che ha i suoi riflessi fisici in quello cardiaco e in quello respiratorio.

 

La volta scorsa, abbiamo visto, concludendo, che il pensiero ha l’eccezionale capacità di reggersi su di sé. Prendete, ad esempio, la cosiddetta psicologia dell’inconscio. Freud studia soprattutto la vita corporea o istintiva, mentre Jung studia soprattutto quella psichica o affettiva. Entrambi tentano dunque di venire a capo dei loro rispettivi campi d’indagine servendosi del pensiero. Non potrebbero fare altrimenti, del resto, poiché la vita istintiva non si presta a essere conosciuta dall’istinto, così come quella affettiva non si presta a essere conosciuta dall’affetto. Un’osservazione del genere può apparire a qualcuno banale, se non addirittura ridicola. Ma questo qualcuno dovrebbe spiegarci allora il perché sia così difficile imbattersi nell’esplicito riconoscimento che

• è soltanto il pensiero a godere del privilegio di poter considerare sé stesso senza uscire da sé stesso.

Qualsiasi altra realtà, per conoscersi, deve infatti interrogare il pensiero così come s’interroga un “oracolo”.

Ogni fenomeno, per sapere di sé, deve dunque uscire da sé e interpellare il pensiero,

mentre il pensiero, per sapere di sé, può rimanere in sé e interpellare sé stesso.

 

Risposta a una domanda

 

Per precisare quanto detto in precedenza, in linea generale, della “relazione pura” o del “pensare puro”, può essere utile osservare il seguente schema:

 

 

• Ci siamo prima limitati a distinguere i pensati (le rappresentazioni) dal pensare, e a definire “puro” il secondo

per il fatto che non serba più nulla, in sé, di quanto proviene dalla sfera della percezione sensibile.

• Se vogliamo essere adesso più precisi, dobbiamo allora spingere la nostra analisi all’interno della relazione stessa.

 

Continuo a dire “relazione”, ma potrei benissimo dire “logica”. È “logico”, infatti, quel movimento del pensiero che incessantemente tesse, ai diversi livelli, le relazioni tra le rappresentazioni, le immaginazioni e i concetti.

Si potrebbe anche parlare, perciò,

• di una logica “quantitativa” o “meccanica” (delle rappresentazioni),

• di una logica “organica” o “vivente” (delle immaginazioni),

• di una logica “qualitativa” (dei concetti),

• e di un essere della logica (dell’Io o del logos) che tutte le compenetra e le informa.

 

La logica analitica di Aristotele ben riflette, ad esempio,

il modo “discreto” (o discontinuo) in cui si muove il pensiero al primo livello (quello meccanico),

• mentre quella “dialettica” o “speculativa” di Hegel mostra di oscillare, in modo non del tutto sicuro,

tra il secondo (vivente o continuo) e il terzo (qualitativo).

 

In ogni caso, ciò mi ricorda un libro di Ernest Bindel che ho letto, in francese, alcuni anni fa, il cui titolo, tradotto in italiano, sarebbe: Gli elementi spirituali dei numeri. In questo lavoro, l’autore – seguace di Steiner – ci propone un’indagine qualitativa dei numeri che risale soprattutto a Pitagora e agli insegnamenti “non-scritti” (agrapha) di Platone. Orbene, Bindel, esaminando le quattro operazioni, osserva che viene a esprimersi o riflettersi, in queste, la realtà costitutiva dell’uomo.

 

• Sul piano fisico – dice ad esempio – possiamo soltanto sommare e sottrarre.

Un “aggregato” è infatti diverso da un “organismo”, in quanto possiamo aggiungergli o sottrargli a piacimento delle parti senza alterarne per ciò stesso la natura. Ci troviamo dunque sul piano della logica dello spazio, laddove imperano il principio d’identità (o di non-contraddizione) e il nesso di causa-effetto. È interessante notare che il tempo, a questo livello, viene spazializzato, frazionato e sperimentato come “successione”, e non quindi come “continuità”. Normalmente, parliamo infatti del passato, del presente e del futuro, ma quasi mai ci chiediamo dove in realtà stia, o quale sia, il tempo. Ebbene, il tempo è proprio ciò che hanno in comune il passato, il presente e il futuro: ovvero, proprio ciò che tesse una segreta, fluente e ininterrotta relazione tra queste sue ordinarie scansioni.

 

• Ove ci riesca di cogliere questa sottile realtà del tempo, ci riuscirà quindi di cogliere anche quella della logica che abbiamo definito “organica” o “vivente” e che, nel libro di Bindel, viene messa in rapporto con la “moltiplicazione”: ossia, con un processo che ha il suo equivalente biologico in quella “proliferazione” cellulare che caratterizza, ad esempio, lo sviluppo embrionale della “morula”. È dunque l’elemento del tempo o della continuità a caratterizzare la logica del vivente (o la logica vivente).

In effetti, mentre ci è impossibile affermare che le ruote di un’automobile sono una metamorfosi dello sterzo, o che il cofano è una metamorfosi del cruscotto, ci è possibile invece affermare, con Goethe, che lo stelo, il fiore e il frutto di una pianta sono una metamorfosi della foglia: ovvero, l’esito di un processo che, senza soluzione di continuità, fa nascere e crescere una forma dall’altra. Va tuttavia ricordato che è stato Hegel, nonostante la devozione che nutriva per Goethe, a cogliere il limite della logica “organica”, e a definire la metamorfosi “un fugace alito delle forme che non giunge alla distinzione qualitativa”.

 

• Ma se tale logica “non giunge alla distinzione qualitativa” lo si deve al fatto che il piano sul quale si svolge la logica qualitativa trascende quello sul quale si svolge la logica del vivente. Immaginate, ad esempio, che nel giardino di casa, io pianti un seme di garofano e, poco più in là, un seme di geranio. Passa il tempo, e sotto i miei occhi ambedue le piante cominciano a crescere e a metamorfosare. La terra, l’aria, la luce e l’acqua con cui le innaffio sono le stesse, così come lo stesso è il puro processo della loro crescita e della loro metamorfosi. Ma perché allora da uno dei due processi viene a prendere forma un garofano e dall’altro un geranio? A quale logica risponde una simile differenziazione? Alla logica qualitativa (o della qualità) – possiamo rispondere – che Bindel pone appunto in rapporto con la “divisione”.

 

In ogni modo, un concreto ed eloquente esempio della differenza tra la logica del vivente e quella della qualità, può averlo chiunque si prenda la briga di fare un confronto tra le cellule epatiche, notoriamente molto vitali e poco differenziate, e quelle nervose, notoriamente poco vitali e molto differenziate.

 

A questo punto, seguendo il nostro schema, abbiamo esaurito le quattro operazioni e le tre correlative modalità di relazione. Ci è rimasto quindi da esaminare quanto abbiamo chiamato “essere della relazione”, ma che potremmo anche chiamare, avendolo messo in rapporto con l’Io, “fondamento della relazione”. Non mi riferisco qui, ovviamente, all’io abituale (o pensato), bensì all’Io spirituale (o pensante).

Se la relazione “meccanica”, quella “vivente” e quella “qualitativa”, in quanto atti, rappresentano infatti il soggetto quale verbo, l’“essere della relazione”, in quanto appunto “essere”, costituisce invece il verbo quale soggetto.

Del resto, se all’origine tutto è Uno, questo stesso Uno deve allora trovarsi anche all’origine di tutte le relazioni.

 

La coscienza umana

ha avuto comunque bisogno di frantumare l’Uno originario

per poter accedere, mediante la cognizione del molteplice, all’autocoscienza.

• Nell’Uno originario, infatti, ciascuno di noi non esiste ancora quale Io o quale individualità autonoma e separata

(così come, quali realtà autonome e separate, non esistono, ad esempio, le nostre braccia o le nostre gambe).

• Com’è alluso nel mito di Osiride, l’Uno viene infatti “smembrato” fino al punto di giungere

a quel che non si presta a essere ulteriormente diviso: ovvero, alla coscienza dell’io abituale:

di quell’ego, vale a dire, che, identificandosi col corpo,

si sperimenta nello spazio separato da tutti gli altri ego, e a questi giustapposto.

 

Il cammino evolutivo va dunque dall’Uno-Tutto (o Uno universale) all’uno-uno (o uno individuale).

Ma potremmo anche dire (distinguendo questa volta il Tutto, quale Io universale, dall’uno, quale io individuale):

il cammino evolutivo va

• da un Tutto che non è ancora un uno,

• attraverso un uno che non è ancora un Tutto,

• a un Uno ch’è insieme un Tutto,  •  e a un Tutto ch’è insieme un Uno.

 

Torniamo comunque al testo, e leggiamo quanto dice Steiner:

 

“Bisogna prima, per ogni oggetto, esaminare i rapporti che esso ha con altri,

per poter determinare in che senso si può parlare della sua esistenza.

Un processo sperimentato può essere una somma di percezioni,

ma può anche essere un sogno o un’allucinazione. In breve, non posso dire in quale senso esso esista.

Questo, potrò anche non dedurlo dal processo,

ma lo sperimenterò quando lo considererò in rapporto ad altre cose.

Il mio cercare arriva su terreno solido soltanto quando riesco a trovare un oggetto

per il quale io possa ricavare il senso della sua esistenza dall’oggetto medesimo” (p.39).

 

 

Riguardo a questo credo che ci siamo già detti l’essenziale. Vorrei tuttavia aggiungere un paio di cose.

Abbiamo visto che, tracciando una linea in mezzo alla lavagna, vengono a prendere vita due opposte realtà: vale a dire, un “sopra” e un “sotto” o una “destra” e una “sinistra”. Vengono a prendere dunque vita dei concetti relativi.

Non esiste infatti un “sopra” se non in relazione a un “sotto” così come non esiste una “destra” se non in relazione a una “sinistra”.

 

Nella sua Scienza della logica, Hegel non manca certo di rilevare questo aspetto.

I concetti – dice infatti – sono, a un tempo, degli esseri “per sé” e degli esseri “per l’altro”.

 

Stando al principio d’identità, ad esempio, la “destra” è la “destra”, e quindi un essere “per sé” o un essere “assoluto”; la stessa però, avendo senso solo se correlata alla “sinistra”, è al tempo stesso un essere “per l’altro” o un essere “relativo”. In tutti i casi, è proprio questa relatività dei concetti a ricordarci la loro comune origine: a ricordarci, cioè, che tutti i concetti sono figli dell’Io, così come tutti gli uomini sono figli di Dio.

Se è stato l’intelletto a scacciarli dall’Eden e a disperderli, è la ragione a spingerli invece a ritrovarsi e a riunirsi nell’Io. Dal momento, però, che ogni esistenza rimanda a un’altra ed è perciò relativa, si pone allora il problema di trovare se esista un qualcosa che non rimandi a null’altro che a sé stesso. Ed eccoci così di nuovo alle prese con quella caratteristica che è – come abbiamo detto – precipua del pensare.

 

La seconda cosa che volevo dire è questa.

Immaginate di trovarvi in una stanza e di avere gli occhi chiusi; avanzate lentamente con le braccia protese e a un certo punto toccate qualcosa. Ebbene, per il solo fatto di aver toccato qualcosa, sarete in grado, senza aprire gli occhi, di formulare il seguente giudizio: “Qui, c’è qualcosa”. Lo stesso giudizio, formulato da un filosofo, suonerebbe probabilmente così: “Ora e qui, qualcosa è”. Sapete dunque che qualcosa è, ma non sapete ancora quale sia la cosa che è. In che consiste allora l’esperienza che avete fatto? Nel vivo incontro o scontro del vostro essere con l’essere della cosa. Il giudizio di cui abbiamo detto (e che Steiner chiama “giudizio di percezione”) scaturisce dunque in modo immediato dall’impatto tra la forza volitiva del soggetto e quella dell’oggetto.

 

 

“La più semplice affermazione che posso fare riguardo ad una cosa è che essa è, che esiste” (p.39).

 

 

Si tratta di un’esperienza davvero fondamentale. È da questa, infatti, che il percepire trae tutta la sua forza probativa. Non a caso, per raggiungere una determinata certezza, cerchiamo dei testimoni “oculari”, oppure vogliamo vedere con i “nostri occhi”, udire con le “nostre orecchie” o (come S.Tommaso) “toccare con le nostre mani”.

• Se il pensare si presenta quale garante del mondo ideale,

• il percepire si presenta dunque quale garante del mondo reale.

Tutto il problema sta pertanto nel fatto che

• ciò che riconosciamo come ideale non lo sperimentiamo come reale,

• mentre ciò che sperimentiamo come reale non lo riconosciamo come ideale.

 

L’effettivo stato della nostra coscienza ordinaria è appunto questo:

• quando percepiamo, percepiamo il reale;    • quando pensiamo, pensiamo l’ideale;

ma quel ch’è ideale lo avvertiamo assai meno “corposo” di quel ch’è reale.

E questo – badate – non perché l’ideale sia, di per sé, meno “corposo” o “sostanzioso” del reale,

ma perché lo incontriamo con quella parte di noi in cui domina il morto e freddo essere del nervo,

e non con quella in cui domina invece il vivo e caldo essere del sangue.

 

In altri termini,

• ciò che giudichiamo “concreto” (il percetto), ci appare tale perché lo apprendiamo in modo vivo e diretto,

• mentre ciò che giudichiamo “astratto” (il concetto), ci appare tale perché lo apprendiamo in modo spento e indiretto (riflesso).

Insomma, il problema – come abbiamo detto sin dall’inizio – riguarda noi e non il mondo.