7° Incontro – Continua il terzo capitolo

Amor, che ne la mente mi ragiona.


 

Vorrei cominciare, stasera, riprendendo e completando la lettura del seguente passo di Steiner:

 

 

“Nel pensare noi abbiamo un principio che sussiste per se stesso.

Si parta dunque da qui, per tentare di comprendere il mondo.

Col pensare noi possiamo afferrare il pensare stesso.

La questione è ora di vedere se per suo mezzo possiamo afferrare anche qualche altra cosa” (p.42).

 

 

Orbene, se ci è chiaro che, attraverso il pensare, possiamo afferrare non solo il pensare stesso, ma anche i concetti e le idee, possiamo cercare allora di comprendere se, attraverso questi, possiamo afferrare – come dice Steiner – “anche qualche altra cosa”.

Possiamo cercare di comprendere, in altre parole, quale rapporto vi sia tra i concetti e le idee che si danno per mezzo del pensare e i dati immediati che si danno invece per mezzo del percepire.

 

La volta scorsa vi ho proposto di immaginare di muovervi in una stanza con gli occhi chiusi e le braccia protese, e di arrivare così a toccare qualcosa. Chiamiamo adesso questo qualcosa “X“ poiché sappiamo, sì, avendolo toccato, che questo qualcosa è, ma non sappiamo ancora, non avendo aperto gli occhi, quale sia la cosa che è. Ebbene, immaginate ora che, una volta aperti gli occhi, diciate: “È una sedia!”. Cos’è dunque che ha permesso al vostro primo giudizio (“qui, c’è qualcosa”) di trasformarsi nel secondo? Cos’è, ossia, che vi ha permesso di determinare (o qualificare) quel che in un primo momento era del tutto indeterminato? Possiamo facilmente rispondere: il concetto. D’ora in avanti, perciò, X sarà per noi il percetto (il dato fornito dal percepire) e “A“ il concetto (il dato fornito dal pensare). Nel nostro esempio, possiamo dunque rilevare una sequenza di giudizi che ricorda quella classica del “sillogismo”. Abbiamo infatti:

 

  1. “Qui c’è X” (che può valere come “premessa maggiore”);
  2. X è A” (che può valere come “premessa minore”)
  3. “Qui c’è A” (che può valere come “conclusione”)

 

• Nella cosiddetta “cognizione sensibile” – dice a tale proposito Steiner –

si ha la cosa completa soltanto dopo aver riunito al dato percettivo (X) quello concettuale (A).

• Ma come stanno le cose per quanto riguarda la cognizione “extrasensibile” o “spirituale”?

In questa, infatti,

• non si parte più dal dato reale fornito dalla percezione dei sensi,

• bensì dal dato ideale fornito dal pensiero:

non si muove più, ossia, dal percetto X (da una forza indeterminata), ma dal concetto A (da una forma determinata).

 

Mi rendo conto che un discorso del genere possa apparire a prima vista illogico. Steiner, tuttavia, ha più volte insistito sulla necessità di distinguere la “logica razionale” dalla “logica del reale”. I sogni, tanto per fare un esempio, non sono “illogici”, bensì frutto – come insegnano, a modo loro, Freud e Jung – di una logica diversa da quella ordinaria di veglia (“la confusione – sembra abbia detto Henry Miller – è un ordine non compreso”). Va detto, comunque, che tanto è diversa la logica dei sogni da quella ordinaria di veglia, quanto è diversa – come abbiamo visto – la logica dello spazio da quella del tempo, la logica del tempo da quella della qualità, e la logica della qualità dal logos o dall’Io. Ciò significa che quella che Steiner chiama “logica del reale” non è che l’insieme di tutte queste logiche o, per meglio dire, la facoltà dell’Io di muoversi liberamente tra esse, in funzione della diversa natura degli oggetti con i quali si trova a confronto.

 

La “logica razionale” ama ad esempio calcolare; e ama farlo poiché trova che sia molto bello o gradevole che i conti – come si suol dire – “tornino”. Sottolineo questo in quanto occorre tenere presente ch’è proprio il prevalere del fattore “estetico” a dare il tono di fondo a quella sfera dell’anima che Steiner definisce “razionale o affettiva”. Prendete ad esempio un bambino che pesi, alla nascita, 3 chili e, all’età di due anni, 13 chili. Consegnate questi dati all’anima razionale o affettiva e vedrete che questa si metterà con ogni probabilità a calcolare che il bambino, cresciuto di 10 chili in due anni, è cresciuto, mediamente, di 5 chili l’anno, o di circa 416 grammi al mese. Fin qui, nulla da eccepire. Ma la stessa, sulla base dei medesimi dati, potrebbe essere tentata di calcolare anche quanto peserà quel bambino quando avrà compiuto magari trent’anni. Se il suo peso continuerà ad aumentare di 5 chili l’anno, sarà matematicamente certo che, a trent’anni, raggiungerà i 153 chili.

Come si vede, si tratta di un ragionamento ineccepibile e in cui, soprattutto, non c’è nulla di matematicamente sbagliato. L’unico e non irrilevante suo neo, tuttavia, è quello di non corrispondere alla realtà (il bambino potrebbe infatti morire prima dei trent’anni, potrebbe diventare un patito delle diete o un anoressico, oppure – ed è ciò che gli auguriamo – un normale adulto il cui peso sarà di gran lunga inferiore a quello emerso dal calcolo). Un esempio del genere – sia chiaro – è volutamente paradossale.

Quel che m’interessa è che ci si renda conto che una cosa è l’amore per la logica (ossia, per una logica, per la nostra logica), altra è l’amore per il fenomeno o per il mondo. Se si ama infatti il mondo o la realtà, bisogna allora essere pronti ad abbandonare qualsiasi logica mostri di essere inadeguata o di non corrispondere alla natura del fenomeno che si sta indagando. Solo l’Io può però disporre di tutte le logiche e muoversi liberamente tra esse. Ordinariamente, accade invece che ci si identifichi, in qualità di soggetti, con una sola di queste (per lo più, con la logica impostaci – per dirla con Jung – dal “conscio collettivo”) e, muniti di quest’arma (letteralmente “impropria”), ci si accosti quindi al fenomeno, non per accoglierlo e comprenderlo, bensì per imporglisi e strumentalizzarlo. Da questa identificazione, discende una sorta di “monoideismo”: una disposizione interiore che non giova affatto al mondo, bensì soltanto a colui che, per sorreggere e sentire sé stesso, la utilizza inconsciamente a mo’ di gruccia.

 

Torniamo comunque a noi e riprendiamo quanto stavamo dicendo del percetto (X) e del concetto (A), in rapporto alla cognizione “extrasensibile” o “spirituale”. Al riguardo, proprio la “logica razionale” potrebbe indurci a dire: come c’è stato prima (nella cognizione “sensibile”) un X che si è trasformato in A, così ci sarà adesso (in quella “extrasensibile”) un A che si trasformerà in X. Ragionando così, si corre però il rischio di dimenticare che, nella cognizione “sensibile”, in tanto X era un X (un percetto indeterminato), in quanto non si sapeva ancora che fosse un A (un concetto determinato). In quella “extrasensibile” si muove invece da A: si muove, ossia, da un concetto determinato che non ha alcun bisogno, in quanto tale, di essere ulteriormente determinato. Ma di che cosa necessita allora il suo astratto essere intellettuale per potersi trasformare in un reale essere spirituale? Necessita – possiamo rispondere – di vita, di luce e di calore: necessita, in altri termini, di veder trasfusa, nella sua esangue e vuota forma, quella forza volitiva che irrora normalmente il percepire.

 

A questo proposito, sentite cosa dice Steiner, ne I segreti della soglia:

“Rafforzando e ridestando l’anima interiormente in modo da vedere e sentire i propri pensieri, si ha il meditare. Il meditare è una condizione intermedia. Non è né pensare né percepire. È un pensare che vive così intensamente nell’anima, come è intensamente vivo il percepire; è un percepire che non percepisce nulla di esteriore, ma pensieri. Tra l’elemento luciferico del pensiero e quello arimanico della percezione, la vita dell’anima scorre nel meditare come nell’elemento divino-spirituale che porta in sé solo il progresso delle manifestazioni del cosmo. L’uomo che medita, che vive nei suoi pensieri in modo che divengano vivi in lui come in lui lo sono le percezioni, vive nella corrente divina”.

Comunque sia, possiamo ancora una volta notare come, pensando il pensiero o ricercando il concetto del concetto, si rimanga all’interno del pensare o del concetto stessi e si sperimenti perciò una realtà che – come abbiamo detto e ripetuto – poggia su di sé. In effetti, un oggetto, un impulso della volontà, un sentimento, per essere riconosciuti (nel primo caso, magari, quale “tavolo” o “sedia”, nel secondo quale “fame” o “sete”, nel terzo quale “simpatia” o “antipatia”), devono uscire da sé e andare incontro al pensiero.

Solo il pensiero può invece riconoscersi rimanendo all’interno di sé stesso.

 

 

“Quello che con la natura è impossibile – il creare prima di conoscere – col pensare noi lo facciamo.

Se volessimo aspettare di conoscere il pensare prima di pensare, non arriveremmo mai a pensare (…)

A questa mia proposizione riguardante il pensare, si potrebbe facilmente contrapporre,

come ugualmente giustificata, la seguente altra:

“Anche per digerire non si può aspettare di aver osservato il processo della digestione” (…)

Senza dubbio devo ben digerire prima di studiare il processo fisiologico della digestione;

ma il paragone col pensare reggerebbe soltanto se io poi volessi non considerare col pensiero la digestione,

ma mangiarla e digerirla.

E non è senza ragione il fatto che la digestione non può divenire oggetto del digerire,

mentre il pensare può benissimo divenire oggetto del pensare” (pp.40-41).

 

 

In proposito, vorrei richiamare di nuovo la vostra attenzione sulla psicologia dell’inconscio.

Freud – abbiamo detto – studia principalmente la vita istintiva e Jung quella affettiva. Entrambi ritengono dunque di dover rendere oggetto delle loro rispettive indagini la vita degli istinti e quella degli affetti, ma non la vita del pensiero: proprio quella vita del pensiero che consente però loro di fare scienza.

Orbene, non è questa, proprio in senso psicoanalitico, una “rimozione”? E non abbiamo appreso dallo stesso Freud che il “rimosso” tende, tornando alla superficie, a essere “proiettato”? In quanto rimossa, la forza immanente del pensare e dell’Io tende infatti a essere proiettata sul sentire, sul volere o sul non-Io.

Groddeck, ad esempio, è persuaso (lo dice ne Il libro dell’Es), che l’uomo altro non sia che un burattino manovrato dall’Es. Se non temessi di essere irriguardoso, gli direi di “parlare per sé”. Proprio lui, infatti, non accorgendosi di edificare col pensiero una specie di monumento al non-pensiero, dà invero l’impressione di essere posseduto o manovrato dall’Es.

Quel ch’è successo a Groddeck con l’Es, non è comunque molto diverso da quel ch’è capitato a Freud con la libido e a Jung con il Sé (il Selbst). Anche costoro, infatti, avendo ignorato la forza immanente del pensiero, hanno finito col proiettarla su degli immaginari contenuti di ordine trascendente (sia la libido sia il ci vengono per l’appunto presentati come realtà direttamente inattingibili).

asciatemi dire ch’è invero triste il constatare che degli indagatori del profondo non si accorgano di dare così vita, sul piano materiale e su quello animico, a dei veri e propri surrogati del pensare (la libido) e dell’Io (il ): di dar vita ossia – per dirla con Vico – a degli autentici “idola”.

 

 

“È dunque indubitato che col pensare noi teniamo il divenire del mondo per un lembo,

dove noi dobbiamo essere presenti se qualcosa deve prodursi. E questo è proprio quel che importa” (p.41).

 

 

Ma che cosa vuol dire che, col pensare, “noi teniamo il divenire del mondo per un lembo”?

Vuol dire che • il divenire del mondo è dentro di noi  • e che noi siamo dentro il divenire del mondo.

• Non ci sono quindi, da una parte, il mondo che attivamente diviene

• e, dall’altra, l’uomo che passivamente assiste al suo divenire,

• poiché l’uomo è insieme attore e spettatore del divenire del mondo.

Il mondo diviene infatti per mezzo del pensare, e il pensare diviene per mezzo dell’uomo.

Insomma, se al mondo non ci fossero gli esseri umani non si darebbe il pensare,

così come non si darebbe magari il latte se non ci fossero gli animali che lo producono.

 

A questo proposito, ricordo di aver letto, di recente, un libro di Alessandro Baricco, dal singolare titolo: L’anima di Hegel e le mucche del Wisconsin. In questo lavoro, l’autore, cita un passo di Hegel (in cui si parla dell’effetto che la musica di Beethoven produce nell’anima) e poi riferisce di una ricerca, eseguita nel Wisconsin, stando alla quale la musica di Beethoven indurrebbe le mucche a produrre più latte. È chiaro che l’accostamento tra questi due fatti vorrebbe essere, nelle intenzioni di Baricco, ironico e provocatorio. Ma c’è poco da scherzare. Saprebbe dirci infatti, Baricco, cos’è o “chi” è realmente una mucca? Crede forse che gli induisti venerino ancor oggi, in essa, la mera produttrice del latte o delle bistecche? Ma quando mai! Diciamo la verità: magari fossimo capaci di penetrare in quel fenomeno cosmico che si presenta ai nostri occhi in forma di mucca.

Provate a riflettere: là dove appare una mucca in realtà appare una forza metabolica in grado di trasformare la sostanza vegetale in sostanza animale. Steiner dice appunto che la mucca è una specie di “metabolismo ambulante” e ci suggerisce, per cominciare a orientarci un po’ meno superficialmente nel mondo animale, di imparare perlomeno a riconoscere le specie che sono prevalentemente “testa” (come gli uccelli), quelle che sono prevalentemente “petto” (come i felini) e quelle che sono prevalentemente “addome” (come i bovini). Dire che la mucca è una specie di “metabolismo ambulante”, significa dunque dire che l’attività cosmica della volontà si manifesta soprattutto nel suo essere.

Ove poi si consideri che – secondo quanto riferisce Alfred Tomatis – anche le mucche di un monastero bretone, sotto l’effetto delle sinfonie di Mozart, hanno fatto registrare una produzione di latte superiore alla media, ci sarebbe invero da augurarsi di riuscire ad apprezzare tali sommi compositori tanto quanto dimostrano di saperli apprezzare questi bovini (in modo ancor più vivo ed efficace, cioè, di quanto riesca agli stessi Hegel, Baricco e Tomatis). Chi ci dice, infatti, che le mucche non siano in costante e istintivo ascolto di quella stessa “armonia delle sfere” alla quale ogni grande musicista attinge, in maniera inconscia e frammentaria, i contenuti delle proprie composizioni?

 

• Come le mucche, dunque, costituiscono il “luogo” terrestre in cui maggiormente si manifesta la volontà del cosmo

(o dello spirito),

• così l’essere umano costituisce il “luogo” terrestre in cui maggiormente si manifesta il pensare del cosmo

(o dello spirito).

Se non ci fosse l’uomo, ci sarebbe perciò il mondo, ma non la conoscenza del mondo.

 

Tutto sta quindi a capire cosa se ne fa il mondo della conoscenza del mondo: ovvero, quale funzione svolga all’interno dell’essere e del divenire del mondo, quella conoscenza cui sono deputati gli esseri umani. Tenere per un “lembo” – come dice Steiner – il divenire del mondo, significa dunque avere in mano il “bandolo della matassa”, e quindi l’opportunità di dipanarne e scioglierne l’enigma.

 

 

Qualcuno potrebbe però obiettare che “il pensare, quale è in sé stesso, non ci è dato in nessun luogo”

poiché “quel pensare che collega le osservazioni delle nostre esperienze e vi innesta una rete di concetti,

non è affatto uguale a quello che più tardi estraiamo dagli oggetti dell’osservazione e facciamo oggetto del nostro studio”.

Difatti, “quello che in un primo tempo intessiamo incoscientemente nelle cose,

è tutt’altro da quello che poi coscientemente ne tiriamo di nuovo fuori”.

Chi così conclude “non capisce che in tal modo non gli è proprio possibile di sfuggire al pensare” (p.41).

 

 

Vorrei comunque sottolineare che ognuno di noi è chiamato a sperimentare in proprio la verità di quest’affermazione. Che non sia possibile “sfuggire al pensare” è anzitutto un fatto del quale occorrerebbe solo prendere coscienza. Chiunque sostenesse, ad esempio, che “il pensare non conta nulla” o che “non ci si può fidare del pensare” non dovrebbe essere quindi contestato quanto piuttosto invitato ad accorgersi che, per lui, il primo di questi due pensieri indubbiamente “conta” e che, del secondo, indubbiamente si “fida”.

Così è, del resto, per tutti coloro che edificano o hanno edificato, più o meno scientemente, un altare al non-pensiero: vale a dire, alla materia, al corpo, alla volontà, all’istinto, all’emozione o al sentimento. Ma tutte queste non sono forse delle realtà che pensiamo? Fatto sta che il pensare pensa il mondo, ma, non considerando sé stesso, è portato a pensarlo privo del pensiero con cui lo pensa. Qui dovremmo davvero far nostra l’esortazione evangelica: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Il vero problema, infatti, è sapere quel che si fa. Ma come si fa a sapere quel che si fa?

Come vedete, ci troviamo ancora una volta di fronte al problema dell’autocoscienza: di fronte cioè alla necessità che il pensare sappia del pensare, che la coscienza sappia della coscienza e che l’Io sappia dell’Io.

 

Ho già detto, una volta, che la nostra solita impressione di pensare le cose è del tutto fallace.

• In verità, noi non pensiamo mai cose, bensì sempre e soltanto pensieri.

• Le cose infatti non si pensano, ma si percepiscono perché, nella loro essenza, sono forze

che, nel momento stesso in cui c’impongono la loro presenza, ci pongono un limite o ci si oppongono.

 

A questo livello, al livello cioè della loro esperienza immediata, tali cose sono però ancora delle forze senza forma: vale a dire, delle incognite o delle X. Siamo infatti noi, pensando, a conferire loro forma. Quale rapporto vi sia tra la realtà delle forze che percepiamo e quella delle forme che pensiamo lo vedremo più avanti. Per il momento, è soprattutto importante realizzare che noi non facciamo altro che pensare pensieri.

 

Quel ch’è curioso, tuttavia, è che, pur pensando pensieri, riusciamo ugualmente a cogliere la realtà delle cose e a modificarla (“la cosa più incomprensibile del mondo – sembra abbia detto appunto Einstein – è la sua comprensibilità”). Al riguardo, vorrei suggerirvi la lettura di un bel libro di Brian Inglis, intitolato: La scienza e il dominio dell’occidente. In questo lavoro, l’autore riesce infatti a dimostrare come tutto il moderno potere (culturale, politico ed economico) dell’Occidente non derivi, in definitiva, che dal pensiero scientifico. Ma non è questa appunto una riprova dell’efficacia del pensiero? Non è una riprova, cioè, della sua capacità di afferrare la realtà e d’imprimerle il suo sigillo?

Se è vero, tuttavia, che noi non pensiamo che pensieri, e che questi sono capaci di afferrare e modificare la realtà, dovrebbe essere anche vero, allora, che la realtà stessa, nella sua essenza, non è che pensiero.

 

Riprendiamo comunque il passo che abbiamo appena letto e sentiamo che cosa dice ancora Steiner:

 

“Se si vuol distinguere un pensare pre-cosciente da un successivo pensare cosciente,

non si deve però dimenticare che questa è una distinzione completamente esteriore,

che con la cosa in sé non ha nulla a che fare” (p.41- 42).

 

 

Che cosa significa questo?

Significa che la distinzione tra un pensare “pre-cosciente” (o “incosciente”) e un pensare “cosciente”

non concerne la natura del pensare, bensì quella del nostro rapporto con esso.

Provate a immaginare, tanto per fare un esempio, che mentre me ne sto affacciato alla finestra, veda spuntare da un angolo una gallina, la veda poi passare sotto di me, e infine sparire dietro l’angolo opposto. Ebbene, l’essere della gallina ha forse qualcosa a che fare col fatto che io la veda o meno? E cosa direste se, per il fatto appunto che ora la vedo e ora non la vedo, mi sentissi in diritto di teorizzare l’esistenza di una gallina “pre-cosciente” (o “incosciente”) e di un’altra “cosciente”?

Detta così, la cosa suona di certo un po’ buffa. Vorrei augurarmi, tuttavia, che suonasse non meno buffa anche quando ci si presenta in tutt’altra e più paludata veste. Ad esempio, una nota e pregevole opera dello storico della psichiatria Henri F. Ellenberger reca questo titolo: La scoperta dell’inconscio. Ma l’inconscio – chiediamoci – è stato forse “scoperto” allo stesso modo dell’America o della penicillina? È stato “scoperto”, vale a dire, come si scopre un oggetto o una cosa? No, di certo. Un titolo del genere non nasce dunque che dalla connaturata tendenza della nostra attuale coscienza a reificare o materializzare ogni realtà.

 

Il cosiddetto “inconscio” altro non è, in verità, che la coscienza di cui non siamo ancora coscienti

o il pensare che non sappiamo ancora pensare.

Ma così come Mida trasformava in oro tutto ciò che toccava,

così il moderno intelletto trasforma in “cosa” tutto ciò che pensa.

 

 

“Non posso figurarmi che il mio proprio pensare divenga un altro solo perché l’osservo.

Io stesso osservo ciò che io stesso produco” (p.42).

 

 

In effetti, se non fossimo noi i produttori del pensare, non potremmo sapere come lo stesso si presenta al momento della nascita, ma potremmo solo sapere come si presenta, una volta nato, alla nostra osservazione. In una condizione del genere, avremmo quindi ragione di sostenere che la natura del pensiero che noi sperimentiamo a-posteriori e dall’esterno, potrebbe essere diversa da quella che viene invece sperimentata a-priori e dall’interno da colui che lo produce. Ma così non è.

Siamo infatti noi – come abbiamo visto – sia a produrre sia a osservare il pensiero e, proprio per questo, abbiamo ragione di credere che l’unica differenza di cui si possa legittimamente parlare sia quella riguardante i diversi livelli di coscienza ai quali svolgiamo tali attività.

 

Si può pertanto parlare di un pensiero “cosciente” e di uno “precosciente” (o “incosciente”), con ciò intendendo, però, che, di uno stesso pensare, la nostra coscienza a un certo livello sa, mentre a un altro non sa.

Se questo ci è chiaro, ci sarà anche chiaro, allora, che è la soggettiva (o umana) coscienza del pensare a doversi sviluppare e non l’oggettivo (o cosmico) pensare.

Allorché parla della coscienza immaginativa, ispirativa e intuitiva, Steiner parla infatti di livelli di coscienza che, in quanto superiori a quello ordinario, consentono di sperimentare lucidamente il pensare, prima quale atto dell’Io e poi quale Io in atto (“è l’io stesso – dirà infatti – che, stando nel pensare, osserva la propria attività”).

 

Ricorderete che vi ho già parlato del pensare come di una realtà “liquida” e dei pensati come di una realtà “solida”. Risalire – come usa dire Scaligero – il “movimento del pensare”, equivale dunque a risalire, immaginativamente, la corrente di un fiume per scoprirne la fonte. Se il movimento della coscienza naturale va infatti dalla sorgente alla foce (dall’Io all’intelletto), quello della coscienza spirituale va, all’opposto, dalla foce alla sorgente (dall’intelletto all’Io). Non si tratta dunque di un pigro e naturale abbandono alla corrente, quanto piuttosto di un energico e innaturale procedere “contro-corrente”. Ecco perché è così raro che ci si occupi con serietà del pensiero. Ai molti che oggi credono che “pensare il pensiero” sia un’occupazione oziosa o, tutt’al più, un esercizio o un hobby da filosofi, andrebbe pertanto ricordato che una cosa è speculare astrattamente e oziosamente sul pensare, in quanto animati dall’antico spirito filosofico dell’anima razionale o affettiva, altra è osservarlo e sperimentarlo quale viva realtà, in quanto animati dal moderno spirito scientifico dell’anima cosciente.

 

Ma andiamo avanti.

Qualcuno – dice Steiner – potrebbe obiettare che si dovrebbe partire dalla coscienza e non dal pensare poiché l’esistenza della coscienza, in quanto necessaria portatrice del pensare, lo precede. Ma un’obiezione del genere – dice ancora – dovrebbe essere mossa al “creatore” del mondo, e non al suo “conoscitore”.

Anche ammesso, infatti, che il “creatore” del mondo abbia dato alla luce la coscienza prima del pensare, è comunque certo che il “conoscitore” del mondo deve partire dal pensare e non dalla coscienza.

 

 

“Che cosa ci serve – conclude appunto Steiner – partire dalla coscienza e sottoporla all’analisi pensante,

se prima nulla sappiamo attorno alla possibilità di ottenere una spiegazione delle cose

per mezzo dell’analisi pensante?” (p.43).

 

 

Che cosa ci viene ricordato qui?

Ci viene ricordato (e ne abbiamo già parlato) che il processo del creare (che va dall’invisibile al visibile)

è l’inverso di quello del conoscere (che va dal visibile all’invisibile).

 

Immaginiamo ad esempio un pittore che prima pensi a cosa dipingere, poi dipinga, e infine se ne stia in contemplazione del proprio dipinto. Quest’ultimo, prima di diventare una cosa visibile è stato dunque un’idea invisibile. L’atto creativo non ha perciò fatto altro che trasformare una realtà intelligibile in una realtà percepibile (dai sensi). Orbene, l’atto conoscitivo fa esattamente il contrario: ovvero, trasforma una realtà percepibile (dai sensi) in una realtà intelligibile. Ben si comprende, così, il perché il “conoscitore” del mondo debba invertire il percorso seguito dal “creatore” del mondo. È dunque chiaro – per tornare a noi – che la coscienza, dal punto di vista creativo, deve precedere il pensare, mentre il pensare, dal punto di vista conoscitivo, deve precedere la coscienza. Anche di questo, comunque, siamo chiamati in primo luogo ad accorgerci.

 

In ogni caso, è invero strano che non ci si avveda dell’impossibilità – come dice Steiner – di “sfuggire al pensare”. Nell’edificare la propria visione del mondo, c’è chi pensa, ad esempio, alla materia e parte perciò dalla materia, c’è chi pensa all’anima e parte perciò dall’anima e c’è chi pensa allo spirito e parte perciò dallo spirito. Pur partendo tutti da uno stesso pensare, pongono dunque, al principio delle loro concezioni, tre diversi pensati. Ma questo accade perché la coscienza che hanno del vivo pensare non è altrettanto lucida quanto quella che hanno dei morti pensati.

 

 

“Dobbiamo dapprima considerare il pensare in modo del tutto neutrale,

senza una relazione con un soggetto pensante o con un oggetto pensato.

In soggetto e oggetto abbiamo infatti dei concetti già formati.

Non si può negare che prima che si possa comprendere ogni altra cosa, deve essere compreso il pensare” (p.43).

 

 

Ecco espressa, in poche parole, tutta l’originalità di quest’opera. Dati, infatti, un pensante, un pensare e un pensato, non abbiamo fatto altro, fin qui, che portare in primo piano l’attività del pensare, lasciando provvisoriamente sullo sfondo tanto il soggetto pensante che l’oggetto pensato. Dico “provvisoriamente”, perché non mancheremo in seguito di esaminare i rapporti che il pensare ha col soggetto e con l’oggetto.

 

In termini antroposofici (quelli usati da Steiner nelle Massime antroposofiche), potremmo anche dire

• che il pensante rappresenta l’essere del pensare (come soggetto) quale Entità divino-spirituale,

• che il pensato rappresenta l’esistere del pensare (come oggetto) quale opera compiuta,

• e che il pensare rappresenta quel movimento eterico, divenire o effetto operante

che, alla pari del tempo, media

• tra la realtà superiore dell’essere (e delle essenze)

• e quella inferiore dell’esistere (alla stessa stregua dell’hegeliano “svolgimento” del concetto).

 

Ricordiamoci, comunque, che non si tratta di un postulato che basti meramente apprendere. Un pensare così appreso sarebbe infatti un pensato e non il pensare. Dico questo perché ci sono delle persone che, avendo inavvertitamente ridotto il pensare a un pensato, assumono poi nei suoi confronti un atteggiamento quasi fideistico, misticheggiante, se non perfino “mitomaniacale”. Non è di certo così che va però accolta l’indicazione di Steiner. In tal modo, si finisce soltanto col ridurre l’antroposofia a “ideologia” o “dottrina”, e sé stessi a individui che “credono”, a differenza degli altri, nel “movimento del pensare”, nell’”etere del pensiero” o nel “pensare eterico”. Ma qui – mai ci stancheremo di ripeterlo – non si tratta di “postulare” né tantomeno di “credere”. Si tratta piuttosto di osservare e pensare: in una parola, di sperimentare. È meglio quindi occuparsi, dal punto di vista del pensare vivente, del pensiero morto, che non occuparsi, dal punto di vista del pensiero morto, del pensare vivente.

 

 

“In vista di una spiegazione del mondo per mezzo di concetti, non si può partire dagli elementi cronologicamente primi dell’esistenza, bensì da quello che ci è dato come il più prossimo ed intimo.

Non possiamo trasportarci con un salto all’inizio del mondo per cominciare da lì la nostra osservazione, ma dobbiamo partire dal momento presente e vedere se possiamo risalire dal più recente al più antico (…)

Fino a che la filosofia accetterà tutti i possibili principii come atomo, moto, materia, volontà, incosciente, resterà campata in aria.

Solo quando il filosofo considererà l’assolutamente ultimo come suo primo, potrà arrivare alla meta.

E l’assolutamente ultimo cui è pervenuta l’evoluzione del mondo è il pensare” (p.44).

 

 

Ecco qui la differenza con la metafisica.

Questa parte infatti da principi primi o da fondamenti assoluti

per ricavare poi da questi, deduttivamente, tutto il resto: parte, insomma, dall’essere per arrivare all’esistere.

Noi invece – sostiene Steiner – dobbiamo partire dall’esistere per arrivare all’essere.

 

Ma non è facile poiché, in genere, chi muove dall’essere perviene solo astrattamente all’esistere, mentre chi muove dall’esistere, o perviene solo astrattamente all’essere, o non vi perviene affatto e quindi lo nega.

“Non possiamo trasportarci con un salto – dice Steiner – all’inizio del mondo”.

Sono proprio tali “salti” a essere però prediletti dalla speculazione astratta. Penso ricordiate, a questo proposito, l’esempio della carrozza che fa spesso Steiner. Ve lo voglio comunque leggere così come viene riportato nel primo volume dell’Arte dell’educazione: vale a dire, nell’Antropologia.

 

• “Sopra una strada vediamo dei solchi, e domandiamo: da che cosa provengono? Si risponde: da una carrozza passata per di qua. – Perché passava di qua la carrozza? – perché coloro che vi stavano seduti volevano raggiungere un dato luogo. – Perché volevano raggiungere quel luogo?…Eccoci ormai completamente fuori del seminato. Nella realtà bisogna a un certo punto finire di domandare. Solo se si resta nell’astrazione si può continuare a girare all’infinito la ruota delle interrogazioni. Invece il pensare concreto, a un certo punto, si ferma”.

In effetti, il pensare “concreto” o “pratico” non va curiosamente e capricciosamente da una domanda all’altra, ma, come sa procedere quando è il momento di procedere, così sa fermarsi quando è il momento di fermarsi.

Steiner ha detto, una volta, che l’antroposofia è “un’alta scuola di pensiero”: ovvero, una disciplina dalla quale è impossibile prescindere se si vogliono impostare correttamente i problemi e porre in modo giusto le domande. Solo imparando a interrogare e ad ascoltare la realtà s’impara infatti ad amarla e, solo imparando ad amarla, s’impara a interrogarla e ad ascoltarla.

 

Va altresì ricordato che si risolve un problema soltanto per poterne affrontare un altro.

Proprio per questo, Scaligero amava dire che non sarebbe male essere animati da un certo spirito “sportivo”. Un atleta che pratichi ad esempio il “salto in alto” sa bene che soltanto dopo aver superato un certo traguardo potrà meritare di affrontare quello superiore.

Mi capita spesso di dire, al riguardo, che

è meglio sapere poco, ma saperlo bene,  che non sapere tanto, ma saperlo male.

Per “sapere bene” bisogna però imparare a procedere con realismo, con pazienza e, soprattutto, con umiltà.

 

Il vero conoscere ha un proprio ritmo:

• ci sono fasi in cui è necessario essere attivi per interrogare,

• e ce ne sono altre in cui è necessario essere ricettivi per ascoltare.

 

Insomma, – come dice il Vangelo – possiamo costruire e costruirci tanto sulla “sabbia” che sulla “roccia”. Certo, finché tutto va bene, la differenza tra chi ha costruito sulla “sabbia” e chi ha costruito sulla “roccia” si vede poco o non si vede affatto. Ma nei momenti difficili, cioè in quelli in cui veniamo messi severamente alla prova, la differenza si palesa tutta. Dal momento però che la vita intera è una prova, dovremmo tutti sforzarci di costruire e di costruirci su un terreno sicuro: ovvero, sul sicuro terreno di una conoscenza che sia davvero e finalmente all’altezza della vita.

Proprio l’opera di cui ci stiamo occupando è, in tal senso, fondamentale. Chi non ne fosse ancora convinto, pensi allora a questo. Un giorno, qualcuno ha chiesto a Steiner: “Tra mille anni, cosa resterà del suo insegnamento?”. Ebbene, sapete che cosa ha risposto? Ha risposto: “Non resterà altro che La filosofia della libertà”.

Solo chi comprenda davvero La filosofia della libertà può però comprendere il perché di questa risposta. Da parte mia, posso soltanto dirvi che in qualunque ambito condurrete le vostre ricerche vi ritroverete sempre alle prese con quell’essenziale gioco di forze che in questo libro – come vedremo – ha per protagonisti, oltre al pensare, il percetto, il concetto e la rappresentazione.

 

Risposta a una domanda

Dal momento che il concetto sorge mediante il pensare, non vi è speranza di sperimentarlo realisticamente se non si è prima sperimentato il pensare. Non dimenticate che quella del pensato, del pensare e del pensante è una precisa gerarchia che – volendo – potrebbe essere ulteriormente specificata.

Abbiamo già visto, infatti, che là dove collochiamo il pensato va situata la rappresentazione, e che là dove collochiamo il pensare va situato quel giudicare che mette in rapporto tra loro i concetti. Possiamo adesso aggiungere che è tra il pensare e il pensante che vanno collocati quest’ultimi.

Difatti,

• come il giudicare media tra i concetti e le rappresentazioni,

• così i concetti, in qualità di essenze (o entelechie), mediano tra l’Io e il giudicare.

 

Nella logica hegeliana, ad esempio, è la sfera dell’essenza a far da tramite tra quella originaria dell’essere e quella in cui si dà, quale prima forma di esistenza o di manifestazione, il tempo.

Per Hegel,

• il tempo corrisponde infatti a un uscir-fuori-di-sé dell’essenza,

• mentre lo spazio è un suo definitivo esser-fuori-di-sé.

 

Nella sua logica,

la soglia che divide la sfera della realtà in sé (dell’essere) da quella della realtà ex-sé (dell’esistere)

• si colloca quindi tra l’essenza e il tempo.

Proprio nel medesimo luogo, cioè, in cui si colloca la soglia che divide – per noi –

• la realtà dell’Io e dei concetti (o del mondo delle idee)  •  da quella del giudicare e delle rappresentazioni.