8° Incontro – Fine terzo capitolo / Inizio quarto

Amor, che ne la mente mi ragiona.


 

Aggiunta alla seconda edizione del 1918

 

 

Qualcuno – dice Steiner all’inizio di quest’aggiunta – considerando ciò che abbiamo detto della differenza tra il pensare e tutte le altre attività dell’anima, potrebbe fare la seguente obiezione: “Se io penso su di una rosa, esprimo con ciò unicamente un rapporto fra il mio “io” e la rosa, così come quando sento la bellezza di quella rosa. Nel pensare sorge un rapporto fra “io” e “oggetto” allo stesso modo che, per esempio, nel sentire o nel percepire” (p.45).

 

 

Ricorderete che ci siamo già occupati di questo, e abbiamo visto che Steiner non sostiene che solo in virtù del pensare s’instaura un rapporto tra il soggetto e l’oggetto, ma afferma che tale rapporto è qualitativamente diverso da quelli instaurati dal sentire e dal volere (o dal percepire).

Facendo ricorso alla terminologia freudiana,

• abbiamo definito “idealmente oggettuale” (o “transitiva”) la natura del primo in quanto il pensare si spinge o protende verso l’oggetto nell’intento di afferrarne l’essenza ideale;

• abbiamo definito “narcisistica” (o “intransitiva”) quella del secondo in quanto il sentire non fuoriesce dal soggetto;

• e abbiamo definito “realmente oggettuale” (o “transitiva”) quella del terzo in quanto il volere (o il percepire) mira ad afferrare la sostanza reale dell’oggetto. È infatti il volere, in veste di cupiditas, a far sì che il soggetto si senta attratto dagli oggetti e li desideri con avidità o bramosia.

 

Steiner fa però, a questo punto, una considerazione della massima importanza:

 

 

“Non bisogna far confusione fra l’“avere immagini mentali” e l’elaborare pensieri mediante il pensare.

Immagini mentali possono sorgere nell’anima in modo sognante, come vaghi suggerimenti.

Questo non è pensare” (p.45).

 

 

Non credo di esagerare dicendo che la maggior parte delle difficoltà che s’incontrano nello studio di questo libro e in genere di tutta l’antroposofia (almeno nella misura in cui la si affronta come una “via della conoscenza”), discendono proprio da questo problema. Ricordo di aver già detto, al riguardo, che

pensare non significa avere dei pensieri o essere in balìa dei pensieri

(come capita quando siamo ad esempio “preoccupati”),

• bensì significa pensare i pensieri che si hanno o di cui si è in balìa.

 

In ogni caso, a chi desiderasse “toccare con mano” quel ch’è davvero il pensare, suggerirei di misurarsi con i due volumi della Scienza della logica di Hegel. Chi non si riscuota dalla consueta pigrizia mentale e non attivi il pensare, troverà infatti quest’opera oscura e impenetrabile.

A tale proposito Scaligero (grande conoscitore dell’Oriente e redattore della rivista East and West) mi disse una volta che in alcuni moderni monasteri Zen si usa meditare proprio la Scienza della logica di Hegel. Certo, è quantomeno singolare che numerosi occidentali si diano alla lettura di testi divulgativi dello Zen (quali quelli, ad esempio, di Christmas Humphreys, Alan Watts, D.T. Suzuki o Charles Luk), mentre alcuni maestri di questa dottrina si rifanno ad Hegel. Chi conosce la Scienza della logica non si meraviglierà però di questo, poiché sa quale possente strumento sia in grado di divenire questo testo nelle mani di chi voglia esercitare il pensiero, concentrarsi o meditare.

 

C’è anche da dire che il pensare, in quanto attività, costa fatica. Ricordo ancora che il mio primo incontro con la Enciclopedia delle scienze filosofiche dello stesso Hegel (una sezione della quale è dedicata alla logica) fu alquanto frustrante, e dovetti faticare non poco per conquistarmi quello che mi era parso, in un primo momento, quasi incomprensibile. Prendete, ad esempio, questo pensiero: “L’avere – dice Hegel – è il passato dell’essere” e ditemi se si presta a essere compreso con la stessa facilità o immediatezza con la quale capiamo, magari, che la gioventù è il passato della vecchiaia. Occorre quindi stare attenti a non confondere il pensare attivo (o – come usano dire gli psicologi – “indirizzato”) con quel capriccioso e fantasioso vagare del pensiero che caratterizza le nature “steniche” (o “isteriche”), o con quel suo incessante e molesto ruminio che caratterizza invece le nature “asteniche” (o “nevrasteniche”).

 

Fatto si è che non solo siamo quasi tutti abitualmente incapaci di padroneggiare il pensiero, ma che possiamo arrivare perfino a utilizzarlo – per dirla con la psicoanalisi – come un “meccanismo di difesa”. “Razionalizzare” vuol dire infatti servirsi, più o meno inconsciamente, del pensiero per mascherare od occultare i reali motivi delle nostre azioni. E non è forse quello che facciamo ogni giorno? Se non fosse questo il nostro stato di partenza, non si spiegherebbe, del resto, che bisogno avremmo, nel seguire le indicazioni della scienza dello spirito, di praticare la “concentrazione”. Chi conosce questo esercizio sa che non si tratta di padroneggiare o di tenere ferma una singola rappresentazione, ma di padroneggiare o di tenere fermo un tema, e quindi uno svolgimento di rappresentazioni. Il che vuol dire che i pensieri che andiamo dipanando devono riferirsi sempre all’oggetto (alla spilla, al bottone, alla matita, ecc.) e non a noi. Insomma, dobbiamo sforzarci quanto più possibile di farci da parte. Quel che conta è l’oggetto e noi non dobbiamo far altro che svolgere, senza distrarci, i pensieri a esso relativi.

 

Pensate, ad esempio, ai cosiddetti “fogli di lavoro”. Quando si deve costruire qualcosa, in specie con le macchine utensili, si pongono due preliminari domande: 1) cosa si deve costruire? 2) come lo si deve costruire? Orbene, alla prima si risponde col “disegno” (tecnico), alla seconda col “foglio di lavoro”. Ove paragonassimo tutto questo a un viaggio, il “disegno” equivarrebbe alla meta da raggiungere, mentre il “foglio di lavoro” all’itinerario più conveniente da seguire. Dal momento che “il tempo – come si dice – è denaro”, tale “foglio” lo si studia e prepara “a tavolino” in modo da impostare una successione razionale di fasi operative che va poi rigorosamente rispettata. Un procedimento del genere – com’è ovvio – prevede l’assoluta esclusione di ogni elemento di carattere personale. Quel che conta, infatti, è l’oggetto da costruire e non il soggetto che, osservando il “disegno” e seguendo il “foglio di lavoro”, lo costruisce. Ciò significa dunque che, in quest’ambito, l’impersonalità è un valore. Pensate a un insegnante di “lettere” e a uno di “lavorazioni meccaniche” che si accingano a correggere i lavori dei propri allievi. Che cosa si aspetteranno? Il primo si aspetterà di leggere di uno stesso tema, tanti svolgimenti diversi quanti sono gli alunni, mentre il secondo si aspetterà di avere tra le mani tanti lavori uguali quanti sono gli alunni. Nell’ambito delle lavorazioni meccaniche, infatti, non vi è posto per lo “stile” personale. Certo, un “disegno” (tecnico), un “foglio di lavoro” o un lavoro possono essere fatti bene o male: ma questo non dipenderà che dall’aver rispettato o meno determinate regole o criteri di “unificazione”. Tutto ciò – lo so – può apparire freddo e forse perfino sgradevole. Eppure, pensate in che condizioni verremmo a trovarci se ci si rompesse un pezzo dell’automobile e non potessimo contare sul fatto di poterlo sostituire con un altro assolutamente uguale.

 

In merito, ci sarebbero molte altre cose da dire, ma non ne abbiamo il tempo. Una, però, vorrei almeno accennarla. Vedete, questa fredda dimensione impersonale non è più quella calda della personalità “inferiore” (naturale), ma non è ancora quella calda della personalità “superiore” (spirituale). Essa si situa infatti, alla pari del morto intelletto che la governa, tra la sfera vivente della natura e quella vivente dello spirito. Proprio per questo, però, tale dimensione si fa garante di quella prima forma di libertà che è la cosiddetta libertà da (dalla natura). È da questa che dobbiamo quindi partire se vogliamo colmare di spirito il vuoto lasciato in noi dalla natura e trasformare così la libertà da o libertà negativa nella cosiddetta libertà per o libertà positiva.

Da questo punto di vista, l’Io vincolato all’intelletto (e ai sensi fisici) si rivela davvero un Io “crocifisso”; un Io “crocifisso” cui è dato però di sottrarsi alla sua condizione in due opposti modi: o risorgendo (nello spirito) o decomponendosi (nella sub-natura).

A suggello di queste ultime considerazioni, vi voglio leggere un significativo passo del libro di Scaligero: Graal: saggio sul mistero del Sacro Amore. “Il moto del freddo pensiero astratto, scaturito come pensiero scientifico, cela in sé il potere di una dimensione trascendente, riconoscibile nel suo carattere di impersonalismo puro. Tale valore metafisico, presente nell’esperienza scientifica occidentale, sfugge tuttavia allo scienziato come al filosofo. Nell’aridità dell’agnostico pensiero matematico, in effetto brilla una fredda luce, segno inavvertito di una invisibile luce di vita, più prossima alle nitide linee della geometria e della logica formale, che non alle tensioni della psiche yoghica o mistica”.

 

Torniamo dunque alla concentrazione. Ricordo che proprio Scaligero mi disse una volta: “Se qualcuno ti dovesse dire che fa questo esercizio con facilità, non gli credere”. Sapete perché me lo disse? Perché si tratta di un esercizio che, soprattutto agli inizi e se fatto sul serio, può esporci a delle pesanti frustrazioni. Animati dalla migliore volontà, decidiamo di concentrarci ad esempio sul bottone. Cominciamo allora a rappresentarci i vari tipi di bottone, a considerare la loro funzione e il modo in cui vengono costruiti, quand’ecco ci accorgiamo, d’improvviso, di esserci nel frattempo addormentati o distratti, e di essere magari arrivati a pensare, partendo dal bottone, alla giacca di nostro nonno, poi al nonno e alla nonna, e poi ancora, e con commozione, alla nostra infanzia. In questi casi, è interessante notare che non ci si accorge mai del momento in cui ci si addormenta o ci si distrae, ma che ci si rende conto soltanto a-posteriori di aver fatto questa fine. Ancor più interessante, peraltro, è la possibilità di sfruttare tali occasioni per cogliere in “flagranza di reato” una volontà che non coincide evidentemente con la nostra: ovvero, con quella di un ego che si era prefisso di pensare oggettivamente e freddamente al bottone e che si ritrova invece a dormire (e magari sognare), oppure a versare calde lacrime di commozione ripensando al passato.

Dunque, se l’esercizio della concentrazione non si presta a essere svolto – come mi disse Scaligero – “con facilità”, è perché , pur svolgendosi sul piano del pensare, è in realtà un esercizio del volere o, per essere più precisi, del volere nel pensare; di quel volere nel pensare – possiamo aggiungere – che impronta l’attitudine scientifica dell’anima cosciente in modo palesemente diverso da quel sentire nel pensare che informa l’attitudine filosofica dell’anima razionale o affettiva. È attraverso questo esercizio che l’Io può quindi strappare a viva forza il pensiero dalle mani degli usurpatori e riappropriarsene. Se volete un’immagine che ben rappresenti questa lotta, pensate allora a Parsifal che strappa la “sacra lancia” dalle mani di Klingsor per ricondurla e restituirla alla sede del Graal.

 

Ma è tempo di tornare a noi. Non dimentichiamo che, per dire tutto quello che abbiamo detto, abbiamo preso spunto dall’esortazione di Steiner a non confondere l’“avere immagini mentali” con l’“elaborare pensieri mediante il pensare”.

Ci siamo soffermati su questa esortazione perché essa tocca – come ho detto – questioni fondamentali. Voi sapete, ad esempio, che l’antroposofia è detta – dallo stesso Steiner – una “via della conoscenza” o una “via del pensiero”. Ebbene, cosa potrebbe esserci di più triste del constatare che ci sono alcuni che seguono tale “via della conoscenza” senza conoscenza o tale “via del pensiero” senza pensiero? Dicendo “senza pensiero”, non intendo tanto dire “spensieratamente” quanto piuttosto “sentimentalmente”, se non addirittura “fideisticamente”. Ciò è triste, oltretutto, perché, non essendo possibile – secondo quanto abbiamo visto – sottrarsi al pensare, è inevitabile che si finisca poi col rivestire tale opzione “sentimentale” o “fideistica” con una maschera di pensiero (per lo più “dottrinario”). Un tale stato di cose, dall’esterno, lo si vede poco o non lo si vede affatto. Per poterne cogliere la sostanza, dobbiamo infatti osservarlo dall’interno.

A questo proposito, sempre Scaligero mi fece una volta l’esempio di due assegni: uno – come si dice – “coperto”, l’altro “scoperto”. Ebbene, se avessimo qui, sul tavolo, quei due assegni, potremmo mai, col solo osservarli, distinguere quello “coperto” da quello “scoperto”? No. È soltanto andando in banca, e portandoli quindi all’incasso, che potremo infatti scoprire quale dei due è soltanto un pezzo di carta. Per gli assegni, basta dunque andare in banca, ma dove si deve andare per controllare se un pensiero è “coperto” o “scoperto”? La risposta è facile: non bisogna andare da nessuna parte, ma rimanere all’interno del pensiero stesso per sondarne lo “spessore” o la “corposità” spirituale (o, per dirla con Michelstaedter, il grado di “persuasione”).

 

C’è stato un uomo, in particolare, che si è dato disperatamente a indagare se il moderno pensiero intellettuale fosse “coperto” o meno dalla vita dello spirito, e che, avendolo trovato “scoperto”, ha ritenuto di dover allora ripiegare sulla vita della natura, aizzando contro l’impotenza dell’intelletto la potente volontà del sangue. Avrete già capito che si tratta di Nietzsche. Non a caso, Steiner ha dedicato alla nobile figura di questo pensatore un libro dal significativo titolo: Friedrich Nietzsche: un lottatore contro il suo tempo.

Se permettete, vorrei leggervi, al riguardo, alcuni passi tratti da un breve saggio, intitolato: La teleologia a partire da Kant, che Nietzsche prese a scrivere a soli 24 anni. • “Ciò che eternamente diviene – dice ad esempio – è la vita; per la natura del nostro intelletto noi cogliamo forme: il nostro intelletto è troppo ottuso per percepire la continua trasmutazione: ciò che gli è conoscibile lo chiama forma”. Oppure: • “Dal punto di vista della natura umana: conosciamo il meccanismo; non conosciamo l’organismo (…) In verità l’unica cosa sicura è che noi conosciamo soltanto ciò che è meccanico. Ciò che sta al di là dei nostri concetti è del tutto inconoscibile”. Oppure ancora: • “In modo puro l’uomo conosce solamente ciò che è matematico (…) Nella natura è spiegabile soltanto ciò che è rigorosamente matematico (…) Per il resto ci si trova di fronte all’ignoto”.

Spero che questi pochi esempi bastino a capire che la tragedia di Nietzsche, dal punto di vista spirituale, è stata proprio quella di essere riuscito, da una parte, a mettere impietosamente a nudo l’arida natura del moderno intelletto, ma di non essere riuscito, dall’altra, a immaginarne un superamento, se non nella forma di un dionisiaco ritorno alla natura o alla potenza di quella volontà che già Schopenhauer aveva contrapposto all’apollineo pensiero hegeliano.

 

A questo punto, torniamo però a noi e proseguiamo nella lettura del passo di Steiner dal quale avevamo preso le mosse.

 

 

“Certo, – egli continua – qualcuno potrebbe dire: se s’intende il pensare in tal modo, in questo pensare

sta nascosto il volere, e non si ha allora a che fare soltanto col pensare, ma anche con la volontà del pensare.

Questa osservazione, tuttavia, autorizzerebbe solo a dire che il vero pensare deve sempre essere voluto.

Ma ciò non ha nulla a che fare con la definizione del pensare, quale è stata data in queste nostre considerazioni” (p.45).

 

 

Orbene, cominciamo col dire che quando distinguiamo, nell’anima, un pensare, un sentire e un volere, e quando distinguiamo, nel corpo, quali rispettivi supporti organici di tali facoltà, un sistema neuro-sensoriale, un sistema ritmico e un sistema metabolico (e degli arti), affermiamo delle verità che hanno un valore approssimativo. Tali distinzioni hanno infatti un carattere prevalentemente funzionale e alludono perciò più a una “triarticolazione” che non a una “tripartizione”.

Ciò vuol dire dunque che il pensare, il sentire e il volere agiscono sempre insieme, ma in un modo che varia al variare dei loro interiori e reciproci rapporti. Ciascuna di queste facoltà viene a svolgere infatti, una volta, un ruolo dominante e, due volte, un ruolo subordinato. Mi spiego subito.

• Quando parliamo del “pensare”, dovremmo piuttosto parlare del sentire e del volere nel pensare;

• quando parliamo del “sentire”, dovremmo piuttosto parlare del pensare e del volere nel sentire;

• quando parliamo del “volere”, dovremmo piuttosto parlare del pensare e del sentire nel volere.

 

Come vedete, ogni facoltà riveste appunto, in un caso, un ruolo dominante e, negli altri due, un ruolo subordinato. Nell’attenzione, ad esempio, abbiamo il sentire e il volere attivi all’interno del pensare, mentre nell’intenzione abbiamo il sentire e il pensare attivi all’interno del volere. L’obiezione ipotizzata da Steiner non scaturisce dunque dall’osservazione della viva realtà delle cose, ma dall’attitudine dell’intelletto a irrigidirle e schematizzarle.

Pensiamo ad esempio a un ospedale e chiediamoci: che cos’è che fa di un ospedale un “ospedale”? La risposta è ovvia: l’attività terapeutica. Ma ciò vuol dire che nell’ospedale non si svolgono altre attività? No, di certo. Anzi, proprio per assicurare lo svolgimento della sua attività primaria, vi si debbono svolgere anche delle attività tecniche e amministrative. Qual è allora il problema? Il problema è che un ospedale è un “ospedale” fintantochè le attività tecniche e amministrative che vi si svolgono rimangono subordinate a quella terapeutica, mentre cesserebbe di esserlo ove una delle due attività secondarie prendesse il sopravvento su quella primaria.

 

Riguardo all’obiezione secondo la quale il pensare non sarebbe “pensare” in quanto vi “sta nascosto il volere”, possiamo quindi dire che il pensare è il “pensare” non perché non abbia nulla a che fare con il sentire e il volere, ma perché li sottomette e li utilizza per la propria espressione. La sua “patologia”, infatti, s’inizia proprio nel momento in cui il sentire o il volere, anziché sostenerlo, lo scavalcano e gli s’impongono. È così che nasce, ad esempio, la cosiddetta “pseudologia fantastica” degli isterici. Cos’altro sono, del resto, le fantasticherie e le illusioni se non deformazioni prodotte, nel pensare, dall’insubordinazione del sentire o del volere?

Ascoltate cosa dice in proposito Jung, in Libido, simboli e trasformazioni: “Il nostro uomo moderno e adulto s’abbandona in larga misura al pensare fantastico, che subentra non appena il pensare indirizzato viene a cessare. Un allentamento dell’interesse, una lieve stanchezza sono sufficienti a mettere fine al pensare indirizzato, all’esatto adattamento psicologico al mondo reale, e a sostituirlo con fantasie. Ci allontaniamo dal tema e cediamo il passo al nostro corso di pensieri; se il rilassamento dell’attenzione si fa più forte perdiamo a poco a poco coscienza del presente e la fantasia prende il sopravvento”.

 

Naturalmente, ciò che vale per le facoltà dell’anima vale anche per le funzioni del corpo. La medicina antroposofica insegna, ad esempio, che già una semplice cefalea è segno che, nella sfera in cui dovrebbe prevalere l’attività del sistema neuro-sensoriale, sta invece prevalendo l’attività del sistema metabolico (e degli arti).

 

 

Bisogna dire – aggiunge Steiner – “che il pensare, proprio a cagione della sua essenza che qui si è messa in valore,

appare, a chi l’osserva, interamente voluto” (p.46).

 

 

Ho parlato prima della Scienza della logica di Hegel come di un testo estremamente impegnativo. Ma perché è così impegnativo? Perché si svolge sul piano della più pura e tersa concettualità: solo di rado vi si trovano infatti degli esempi o vi si dà l’ausilio di qualche immagine. Per seguirlo, occorre perciò un alto grado di attenzione e una continua concentrazione. Ma tutto ciò è faticoso, ed è faticoso perché è frutto di una attività: proprio dell’attività di quel pensare che – come dice Steiner – esige d’essere “interamente voluto”. Al contrario, il pensiero quotidiano (o “apparente”) non solo non è “voluto” o “posseduto”, ma anzi – per così dire – ci “vuole” o ci “possiede”.

 

• Mentre il pensare attivo è “voluto” infatti dall’Io (o – secondo quanto abbiamo detto e ripetuto – è l’Io stesso in atto),

• il pensiero passivo è invece “voluto” da qualcun altro,

e agisce quindi quale medium di una forza che tende a sostituirsi al soggetto e ad asservirlo.

Il problema è dunque quello di capire chi, in noi, muova realmente il pensiero.

 

A tale proposito, ricordo che una volta Scaligero stava per rispondere a una domanda che gli avevo rivolto quando d’improvviso si fermò dicendomi: “Se non ti dispiace, ne parliamo la prossima volta perché voglio vedere da dove è venuto questo pensiero”. In verità, avrebbe potuto anche dire: “perché voglio vedere chi ha pensato questo pensiero”. Nella vita di tutti i giorni, non capita spesso, infatti, che i pensieri che crediamo di “avere” ci siano dettati invece dall’ambizione, dalla vanità, dalla brama, dall’invidia, dalla gelosia, dalla paura o dall’ansia? Quante volte ci capita di dire: “Sai, mi è venuta un’idea”? Già, ma da dove è venuta? E chi ce l’ha mandata?

Una cosa comunque è certa: il pensare attivo e, a maggior ragione, il pensare vivente o immaginativo, sono sempre e sicuramente espressioni dell’Io. Per capire chi pensa, bisogna dunque badare, ancora una volta, al come si pensa: bisogna cioè badare alla qualità dell’attività che in noi si svolge. Non è assolutamente detto, infatti, che tale attività, per il fatto di svolgersi in noi, sia svolta da noi.

 

• Se il pensare reale, insomma, è un atto dell’Io,

• il pensiero “apparente” è invece un atto del non-Io.

Ma che cos’è un “atto del non-Io”?

Un atto che origina, non dallo spirito, bensì dalla psiche o dal corpo.

 

Sul piano della vita psichica, la psicologia analitica di Jung ce ne dà ampia conferma. Essa insegna, infatti, che la psiche inconscia (o, per essere più precisi l’“inconscio collettivo”) è popolata da entità “archetipiche” (ad esempio, dall’Ombra, dal , dal Puer, dal Senex, dall’Anima o dall’Animus) che possono prendere il sopravvento sull’io abituale.

Se il Senex, tanto per fare un esempio, prendesse inconsciamente il sopravvento su di me, mi sentirei saturninamente depresso. Se poi disgrazia volesse che, in tale stato, m’imbattessi pure in un tipo che, sopraffatto invece dal Puer, presentasse uno stato mercurialmente “ipomaniacale”, allora – come si dice – “sarebbero dolori”! In un caso del genere, non si avrebbe infatti l’incontro di due diversi Io, bensì lo scontro di due opposte entità che costituiscono, a detta di Jung, dei “modelli di comportamento”.

Per coloro che conoscono da più tempo la scienza dello spirito, potrei anche aggiungere che tali “archetipi” junghiani altro non sono, in realtà, che quelle entità che l’esoterismo cristiano chiama “Archai” o “Principati” e che Steiner chiama anche Spiriti della personalità.

Mentre l’Io umano è legato infatti (monoteisticamente) agli Spiriti della forma (vale a dire, a entità di grado immediatamente superiore a quello delle Archai e facenti già parte, perciò, della seconda Gerarchia), il corpo astrale è legato (politeisticamente) agli Spiriti della personalità.

Notiamo incidentalmente che, alla luce di queste ultime considerazioni, potrebbe trovare spiegazione anche il fenomeno delle cosiddette “personalità multiple” o – per dirla come si diceva all’epoca di Théodore Flournoy (1854-1920) e di Pierre Janet (1859-1947) – del “polipsichismo”.

 

Ma proseguiamo con Steiner:

 

 

“Da una persona, di cui l’autore di questo libro ha grande stima come pensatore,

gli è stato obiettato che non è possibile parlare del pensare come qui si è fatto,

perché ciò che si crede di osservare come pensare attivo non sarebbe che una parvenza.

In realtà si osserverebbero soltanto i risultati di un’attività non cosciente che sta alla base del pensare” (p.46).

 

 

Sappiamo ormai che questa persona era Eduard von Hartmann (1842-1906), autore della Filosofia dell’inconscio (1896) e non a torto considerato, insieme a Schopenhauer, uno dei precursori della psicoanalisi. La sua obiezione ci riporta a una questione che abbiamo già affrontato: vale a dire, alla distinzione tra un pensare “cosciente” e uno “incosciente”.

Qui possiamo però fare un’ulteriore considerazione. Osservando quello che abbiamo chiamato il “pensare attivo” – sostiene infatti von Hartmann – noi non osserveremmo, in realtà, che “i risultati di un’attività non cosciente che sta a base del pensare”.

Sta bene, ma il problema è proprio quello di stabilire se siffatta “attività non cosciente che sta a base del pensare” sia altra dal pensare o sia invece altro pensare. Questo è il punto!

 

Il flusso del pensare

sgorga infatti dalla sorgente “incosciente” dello spirito (dell’Io),

attraversa la regione “subcosciente” dell’anima (del corpo astrale),

quellaprecosciente” del corpo vivente (eterico)

• e sfocia infine in quella “cosciente” del corpo morto (fisico).

 

La nostra consueta coscienza del pensiero non è dunque che una coscienza “postuma”:

• cioè una coscienza che permane nell’oscurità o in penombra

per tutto il tempo in cui il pensiero sorge e risplende (come il sole) di luce propria,

• e che si illumina invece (come la luna) nel momento in cui esso tramonta e muore

(nel momento, ossia, in cui si dà, riflessa dall’organo cerebrale, la sua spenta immagine).

La rappresentazione è infatti il “cadavere” del pensiero;

e – diciamolo pure – il suo culto universale ed esclusivo non è pertanto che “necrofilia”.

 

Ancora una volta, dobbiamo quindi stare attenti a non confondere il pensare con la coscienza del pensare.

Quale atto dell’Io, il pensare

vive infatti laddove la coscienza è ancora assente,    • e muore laddove la coscienza è invece presente.

Ciò significa che ognuno di noi è chiamato a operare, grazie alla forza del Logos che inabita il cuore dell’Io,

una resurrezione del pensiero: ovvero, una resurrezione che dia modo allo spirito ordinario (o “profano”)

di mutarsi nello “Spirito Santo”.

 

• Mentre von Hartmann è convinto che il pensiero cosciente derivi da un’attività d’altra natura,

Steiner ci fa dunque osservare che tale attività è proprio quella del pensare, e ch’è l’ordinario pensiero cosciente, semmai, a essere, in quanto riflesso, d’altra natura (solo però nella misura in cui un essere vivente è altro dal proprio ritratto, dalla propria fotografia o dalla propria salma).

 

In tutti i casi, lo sviluppo superiore del pensiero o della coscienza non può prescindere da una sana base intellettuale. Dico questo perché, da alcuni anni a questa parte, si è diffusa la tendenza a svalorizzare l’intelletto in nome dell’immediatezza, dell’emotività o – come spesso si dice – del “vissuto” (già Platone ed Hegel, comunque, accanto alla “misandrìa”, alla “misoginìa” e alla “misantropìa”, ponevano la “misologìa”: ovvero, l’avversione morbosa per il logos).

Occorre attentamente distinguere, tuttavia, il “bene” dell’intelletto dal “male” dell’intellettualismo: vale a dire, da quella “ipertrofia” o “elefantiasi” dell’intelletto che si realizza a scapito della vita dell’anima. Ricordo, a questo proposito, un sogno raccontatomi, anni fa, da una giovane donna.

La sognatrice si trovava al centro di una stanza perfettamente cubica le cui pareti si restringevano progressivamente fino quasi a soffocarla. Si trattava – come vedete – di un vero e proprio “in-cubo”! Un incubo che ben illustra come la progressiva e orgogliosa espansione della vita intellettuale, o – per dirla con Pascal – dell’esprit de géométrie, produca una progressiva e angosciosa contrazione di quella dell’anima, o – per dirla ancora con Pascal – dell’esprit de finesse.

“Riprendiamoci la vita”, “l’immaginazione al potere”: ricordate questi due celebri slogan dei cosiddetti “sessantottini”? Non denunciavano forse un disagio collettivo non molto diverso da quello individuale denunciato dal sogno? Ebbene, un simile disagio non può essere di certo curato dallo stesso intelletto che l’ha prodotto, né dal regredire a stati di coscienza che, dal punto di vista evolutivo, ci siamo ormai lasciati alle spalle.

Solo una superiore evoluzione della coscienza può sanarlo, ma proprio per questo è importante che coloro i quali si accingono ad affrontare tale compito imparino non solo a distinguere l’intelletto dall’intellettualismo, ma anche a difendere il primo dal secondo. Per lo sviluppo della coscienza, l’intelletto rappresenta infatti una base o un punto di partenza, e non – come crede l’intellettualismo – un vertice o un punto d’arrivo oltre il quale è impossibile andare.

 

• L’intellettualismo, ad esempio, ci racconta, benché a modo suo, la storia dell’uomo “cerebrale”,

• ma non sa figurarsi correttamente l’antica storia dell’uomo “pre-cerebrale”

• né tantomeno prefigurarsi (o immaginarsi) quella futura dell’uomo “post-cerebrale” o spirituale.

In effetti, è come se si fosse determinata, sul piano evolutivo, una sorta di “fissazione” alla fase cerebrale.

 

Non ho usato questo termine a caso. Si sa infatti che, per Freud, all’origine delle nevrosi (ma, in qualche caso, anche delle psicosi) vi sarebbe una stasi evolutiva della libido e una sua conseguente “fissazione” a una delle fasi (“orale”, “anale” e “uretrale”) che precedono quella della normale “genitalità”.

Chiunque abbia in vista una superiore evoluzione della coscienza, è chiamato dunque a difendere il sano intelletto tanto dalla minaccia della sclerosi intellettualistica (prodotta dalla fissazione) quanto da quella del rammollimento emozionale (prodotto dalla regressione).

 

Quarto capitolo

 

Abbiamo ancora un po’ di tempo e direi perciò di cominciare il quarto capitolo.

 

Dice Steiner:

 

“Attraverso il pensare sorgono concetti e idee” (p.48).

 

 

In effetti, il pensare rappresenta, per i concetti e le idee, quello che i genitori rappresentano per i figli. Un padre e una madre, infatti, non “fanno” o “creano” l’individualità del figlio, bensì gli offrono la preziosa opportunità di disporre di un corpo in cui incarnarsi e con cui vivere sulla Terra. Una cosa è quindi il pensare, altra sono i concetti e le idee. Se non esistesse il pensare, i concetti e le idee rimarrebbero nel loro mondo senza mai giungere alla coscienza dell’uomo: ovvero, senza mai passare – per dirla in termini hegeliani – dalla logica “oggettiva” (che si manifesta nel mondo) a quella “soggettiva” (che si manifesta nell’uomo).

 

 

Dice ancora Steiner: “Che cosa sia un concetto non può essere detto con parole.

Le parole possono soltanto rendere attento l’uomo al fatto che egli ha dei concetti”.

E poco dopo aggiunge: “Qualitativamente, le idee non sono diverse dai concetti;

sono concetti più ricchi di contenuto, più saturi, che abbracciano di più” (p.48).

 

 

Orbene, per cominciare a capire la differenza tra il concetto e l’idea potremmo paragonare il primo a una “stella” e la seconda a una “costellazione”. Un’idea non è infatti che un insieme (o un organismo) di concetti e, appunto per questo, è “qualitativamente” uguale al concetto, ma più vasta, più complessa o – come dice Steiner – più “satura” o “ricca di contenuto”. In quanto tale, la si può anche considerare un concetto sovraordinato.

Si prendano, ad esempio, i tre concetti di “universale”, “particolare” e “individuale”. A prima vista, appaiono come tre elementi diversi e separati. Eppure, nonostante siano diversi e separati nella forma, sono uguali nella sostanza, in quanto sono tutti e tre dei concetti. Non solo, ma dei concetti che presentano un reciproco e indissolubile legame (simile a quello che presentano tre circonferenze concentriche). Infatti, l’”universale” comprende (o sussume) sempre il “particolare” e l’”individuale”; il “particolare” comprende (o sussume) sempre l’”individuale” ed è compreso (o sussunto) sempre dall’”universale”; l’”individuale” è compreso (o sussunto) sempre dal “particolare” e dall’”universale”. Si tratta dunque di tre concetti che stanno, non solo gli uni accanto agli altri (come li vede la logica analitica), ma anche gli uni dentro gli altri (come li vede la logica dialettica o speculativa).

 

Dal momento, comunque, che i concetti e le idee sono qualitativamente uguali, chiunque riesca a sperimentare la natura del concetto, avrà allora sperimentato anche quella dell’idea. “Che cosa sia un concetto – dice Steiner – non può essere detto con parole”.

Non si tratta, infatti, di “definire” il concetto, bensì appunto di sperimentarlo.

Permettetemi di leggervi, al riguardo, quanto dice questo Dizionario di grammatica e di linguistica alla voce “definizione”: “Operazione linguistica, propria della lessicografia, che consiste nello spiegare il significato di una parola o di una locuzione”. Come vedete, qualunque “definizione” non si solleva, nemmeno di una spanna, dal mero piano linguistico. Lo stesso Dizionario spiega inoltre che, dicendo: “Ti dono questa rosa”, si ha a che fare con un nome “concreto” (cioè, con un nome che si riferisce a un contenuto che cade sotto i sensi), mentre, dicendo: “La rosa è un fiore”, si ha a che fare con un nome “astratto” (cioè, con un nome che si riferisce a un contenuto che non cade sotto i sensi).

Già, ma se un nome è “astratto”, in quanto si riferisce a un contenuto che non cade sotto i sensi, allora, delle due, l’una: o questo contenuto, pur essendo impercepibile sensibilmente, è, ed è corretto dire allora che il nome vi si riferisce; o questo contenuto, in quanto impercepibile sensibilmente, non è, ed è scorretto dire allora che il nome vi si riferisce. In questo secondo caso, più che di un nome “astratto”, si tratterebbe quindi di un nome “puro”: ovvero, di ciò che i “nominalisti” indicavano, non a caso, come flatus vocis o sententia vocum.

È singolare, peraltro, che in questo stesso Dizionario siano reperibili le voci “rappresentazione” e “percètto” (solamente, però, quale desueto participio passato del verbo “percepire”) e sia al contrario irreperibile la voce “concetto”. Basta consultare, tuttavia, un qualsiasi Vocabolario della lingua italiana per sapere che l’italiano “concetto” deriva dal latino conceptu(m): dal participio passato, cioè, del verbo concipere.

 

Pertanto, allorché abbiamo distinto il pensare dal pensato,

avremmo potuto anche distinguere il concepire dal concepito o dal concetto.

Fatto sta che il concetto è, a un tempo,

• un essere “concepente” o “determinante” rispetto all’oggetto (al percetto)

• e un essere “concepito” o “determinato” rispetto al soggetto (all’Io).

Va rilevato, tuttavia, che il concetto, quando è “concepito” o “determinato” rispetto all’oggetto,

si dà alla coscienza ordinaria quale rappresentazione.

 

È dunque comprensibile che sia difficile – come dice Steiner – spiegare “con le parole” cosa sia un concetto.

In ogni caso, è importante notare come egli c’inviti, ancora una volta, a renderci anzitutto attenti:

attenti, nel caso specifico, al fatto che i concetti sorgono “attraverso il pensare”.

Sapete cosa dice Hegel in proposito? Ve lo leggo: • “Certamente, in tempi moderni,

a nessun concetto è andata così male come al concetto stesso, al concetto in sé e per sé”.

 

Da buoni materialisti, noi tutti siamo infatti portati a reificare i concetti o a identificarli con le cose. Dicendo, ad esempio: “Questo è un tavolo”, siamo per lo più convinti di essere alle prese con una cosa, e non con un concetto. Volendo essere pignoli (ma in questo caso è bene esserlo) dovremmo infatti dire, non: “Questo è un tavolo”, ma: “Percepisco un insieme di stimoli che penso quale “tavolo”“. In effetti, ove si consideri che un oggetto per la vista è una cosa, per l’udito un’altra, per l’olfatto un’altra ancora e così via, ci si dovrebbe pur chiedere: “Ma qual è allora l’oggetto”? Qual è, ossia, il vero contenuto della nostra percezione?

È davvero difficile rispondere a questi interrogativi, se non si tiene conto del fatto che la nostra organizzazione sensoriale suddivide sempre l’unità dell’oggetto in un numero di stimoli pari a quello dei sensi impegnati nella sua percezione. Nell’istante stesso in cui lo si percepisce, l’oggetto si frantuma infatti in una serie di stimoli sensoriali.

Sempre un tavolo, ad esempio, nell’incontro con i cosiddetti “cinque” sensi, si suddivide e traduce in cinque diversi stimoli sensoriali. Questi si trasformano in impulsi nervosi che, giunti per vie diverse al cervello, si mutano poi (nell’anima) in sensazioni.

 

Ma chi è che muta gli impulsi nervosi in sensazioni, le sensazioni in concetti

e attua infine quella sintesi che ci si dà quale concetto di “tavolo”?

A questa domanda, la neurofisiologia è tuttora incapace di dare una soddisfacente risposta. Chi desideri saperne di più, legga Come l’io controlla il suo cervello. Si tratta di una delle opere più interessanti di John Eccles, premio Nobel (1963) per la neurofisiologia. In questo libro, Eccles si domanda appunto chi sia a unificare rappresentativamente quegli impulsi che, nel cervello, si mantengono ancora divisi; e mentre gli riesce di riconoscere in tale soggetto l’Io, è di particolare interesse che non gli riesca invece di riconoscere ch’è proprio per mezzo del concetto che l’Io ha modo di sintetizzare o coagulare quanto la percezione analizza o solve. Egli arriva a ipotizzare – è vero – che esista, tra il cervello e l’Io, un mondo di “psiconi”, ma non sa riconoscere in questo (com’è accaduto a Jung con quello degli “archetipi in sé”), il mondo dei concetti e delle idee.

 

Possiamo comunque capirlo perché il concetto, ove non lo si sperimenti realisticamente, e lo si concepisca perciò nominalisticamente, ci si deve limitare allora a “definirlo”. Ma – come abbiamo detto – una cosa è il concetto, altra la sua definizione. L’affermare, ad esempio, che la circonferenza è il luogo dei punti equidistanti da un ulteriore punto detto “centro”, ha ben poco a che fare con la viva esperienza del suo concetto (così come, ad esempio, l’affermare che il sol è la quinta nota della scala musicale di do, ha ben poco a che fare con l’esperienza sonora dello stesso).

Non a caso, Scaligero, nel suo Tecniche della concentrazione interiore, utilizza proprio la circonferenza per proporci il seguente esercizio. Immaginate di tracciare, col compasso, una circonferenza e di fare poi, osservandola, queste considerazioni: 1) tutte le circonferenze hanno un centro e non possono non averlo; 2) il centro di quella che sto osservando non è però che un forellino; 3) si tratta dunque di un’altra circonferenza che deve avere a sua volta un centro. A questo punto, continuate l’esercizio cercando di individuare tale centro. Qui, però, delle due l’una: o lo individuate con gli occhi del corpo, ma questo non è allora il “centro”, bensì un’ulteriore circonferenza; o è il centro, ma questo non lo individuate allora con gli occhi del corpo. Difatti, quale essenza o noumeno di quella manifestazione o di quel fenomeno che è la circonferenza, il centro è visibile solamente con gli occhi dello spirito, così come solamente con gli occhi dello spirito sono visibili i concetti e le idee. In effetti, tanto il centro di una circonferenza quanto il concetto di una cosa, pur costituendo la ragion d’essere della circonferenza e della cosa percepite, appartengono al regno degli intelligibili. E laddove si danno come “percepibili” esistono, mentre laddove si danno come “intelligibili” sono.

 

I concetti appartengono dunque alle cose, alla realtà, al mondo

e, come tali, avrebbero solo bisogno di essere portati alla coscienza o “scoperti” (e non pertanto “inventati”).

Sapendo però – stando almeno a quanto dice la psicoanalisi – che i contenuti inconsci tendono ad affiorare alla coscienza mediante proiezione, potremmo domandarci se anche l’essere inconscio del concetto non affiori mediante una proiezione, e chi o che cosa possa eventualmente riceverla.

La ricevono – possiamo subito rispondere – gli oggetti o le cose. È così che nasce infatti quel realismo detto appunto “ingenuo” o “primitivo” giacché sa dell’immagine percettiva, ma non sa ancora della rappresentazione né del concetto (esso proietta infatti il concetto sulla cosa direttamente percepibile nell’al di qua, mentre l’idealismo critico – come vedremo in seguito – lo proietta sulla cosa direttamente impercepibile nell’al di là, o “cosa in sé”).