Cambiamenti che la visione dell’uomo ha subito nel corso della storia.

O.O. 206 – Il divenire dell’uomo, l’anima e lo spirito del mondo – 19.08.1921


 

Sarà più facile arrivare alla comprensione delle concezioni che bisogna sviluppare nell’ambito della scienza dello spirito antroposofica per una conoscenza dell’uomo e del mondo, se si esaminano a fondo i cambiamenti che la visione dell’uomo ha subito nel corso della storia.

 

Colui che oggi si sente dire che, per sapere veramente qualcosa sull’essere dell’uomo, nell’uomo stesso deve nascere una maniera di concepire le cose del tutto diversa da quella abituale, sarà a tutta prima sorpreso e, a causa di questa sorpresa, respingerà in un primo momento ogni altra conoscenza del genere.

 

In un certo senso si ha il sentimento che si debba restare per lo meno immutabili: è questo l’atteggiamento spirituale dell’uomo nella interpretazione delle cose. Possiamo vederlo in maniera del tutto speciale nell’interpretazione del mondo da parte di certi docenti di storia attuali. Questi storici affermano con tutta sicurezza che nel corso della storia l’uomo dev’essere stato nella sua costituzione animica sostanzialmente uguale a oggi; poiché, se non fosse stato tale nella propria costituzione animica, non potrebbe esserci, dicono queste persone, nemmeno una storia. In quanto, se si vuole costruire la storia, bisogna partire dalla costituzione animica di oggi.

 

Se, quali osservatori della storia, si dovesse gettare uno sguardo retrospettivo su uomini che nella loro anima sono del tutto diversi, non li si potrebbe comprendere. Non si comprenderebbe come hanno parlato, che cosa hanno fatto, e quindi non si potrebbe risalire col pensiero storico all’epoca di questi uomini con una costituzione animica diversa. Quindi, dicono costoro: perché ci possa essere una interpretazione della storia, in sostanza gli uomini dovrebbero essere stati animicamente costituiti sempre al modo in cui lo sono ora.

 

Ora però diviene facilmente comprensibile che una tale interpretazione è solo una interpretazione ad uso e consumo di chi non vuole fastidi. Poiché, se nel corso della loro evoluzione storica gli uomini sono mutati nella propria costituzione animica, allora anche noi dobbiamo rendere mobili i nostri concetti e dobbiamo appunto prenderci il disturbo di interpretare epoche precedenti della storia diversamente da come si ha oggi l’abitudine di interpretare le cose del mondo.

 

Esiste un esempio molto importante di un uomo che, a proposito di un tale cambiamento di tutta la costituzione animica dell’uomo, si vide costretto, a causa di una certa incapacità spirituale interiore, ad uniformarsi senza riserve alla costituzione animica dei propri contemporanei. E questo esempio importante – in realtà presento oggi la cosa unicamente come un esempio – è dato da Goethe.

 

Da giovane Goethe ha dovuto crescere nella mentalità con cui nella sua epoca si consideravano le cose del mondo e le faccende del prossimo. Si può dire: in questa costituzione animica, in realtà, non si sentiva del tutto a proprio agio. Nel giovane Goethe c’è qualcosa di impetuoso. Ma questa impetuosità è di un genere speciale. Basta guardare semplicemente alla storia della sua giovinezza per trovare che in Goethe esiste una forma di opposizione interiore nei confronti di ciò che i suoi contemporanei pensano in particolare sul mondo e sulla vita.

 

Ma allo stesso tempo vi è in lui anche qualcos’altro. Qualcosa come un appello a ciò che vive nella natura, a ciò che dice di più, dice qualcosa di più eterno di quanto possano dirgli le opinioni degli uomini che si formano appunto tali opinioni nell’ambiente a lui prossimo. Goethe si appella alle rivelazioni della natura contrapposte alle manifestazioni umane. Ed è questo che ci indica lo stato d’animo goethiano, fin da quando era bambino, da quando studiava a Lipsia, a Strasburgo, si dava poi intorno a Francoforte, e anche nel primo periodo del suo soggiorno a Weimar.

 

Basta già osservare il modo in cui, quando era soltanto un bambino, si circondava delle convinzioni religiose dei suoi contemporanei. Ma è lui stesso a raccontare – ho evidenziato più di una volta questo bel quadretto tratto dalla vita di Goethe – come all’età di sette anni si allestisca un altare, utilizzando un leggìo, sul quale colloca dei minerali presi dalla collezione del padre, come in alto vi sistemi uno zampirone, come catturi i raggi solari mediante una lente convergente e con questa accenda la candela, per offrire un sacrificio, come dirà in seguito (naturalmente non si sarebbe espresso così a sette anni), al grande dio della natura.

 

Vediamo come egli venga fuori da ciò che l’ambiente del suo tempo gli può dire, e come cresca chiuso alla natura, nella quale a tutta prima cerca rifugio. In lui vive proprio – guardatevi intorno nelle opere giovanili di Goethe – questo atteggiamento animico. Poi lo afferra un desiderio struggente, il desiderio dell’Italia. E assistiamo a un fatto straordinario: tutta la costituzione animica di Goethe si converte.

 

In effetti può capire Goethe soltanto chi comprenda con l’occhio dell’anima questo capovolgimento potente, chi cerchi di penetrare a fondo in Goethe quando egli si trova in terra italiana. Basta prendere quello che dice nelle lettere agli amici di Weimar a proposito delle opere d’arte che trova in quel paese e che evocano davanti alla sua anima le creazioni artistiche dei Greci.

 

In quelle lettere dice: • “Presumo che i Greci, nell’eseguire le loro opere d’arte, agissero secondo le stesse leggi secondo cui agisce la natura stessa, delle quali io sono alla ricerca”.

 

Goethe è finalmente appagato da ciò che gli sta intorno, ed è pago perché in questo – intende nel campo dell’arte – sono confluite concezioni che sono più vicine alla natura di quelle concezioni che ha potuto percepire intorno a sé durante la propria giovinezza. E vediamo come ora, nel corso del viaggio in Italia, da questo stato d’animo nasca l’idea di metamorfosi, come Goethe inizi proprio ora a contemplare la trasformazione della foglia in petalo in maniera tale che si faccia strada in lui l’idea di metamorfosi in tutta la natura.

 

Solo ora Goethe si sente con l’anima veramente a casa propria nel mondo. E se si prende tutto ciò che Goethe, a partire da quel periodo, produce ora come poeta, come scienziato, quando si considera tutto ciò, non si può far altro che dirsi: Goethe vive ora di nuovo in idee e concetti che ancora una volta non sono immediatamente comprensibili per i suoi contemporanei, e in particolar modo non lo sono per l’uomo moderno.

 

Chi si accosti a Goethe con ciò che ha fatto suo, traendolo da tutta la cultura moderna, a partire dalla scuola elementare fino alle più alte istituzioni scolastiche, con ciò che in questo ambito è divenuto abitudine di pensiero, abitudine del sentire, non potrà capire veramente Goethe. È necessario in un certo qual modo che prima ci si converta interiormente, se si vuole tener dietro alla particolare interpretazione che Goethe ha effettivamente in mente, quando in Italia riscrive nel metro del popolo greco L’Ifigenia, che egli ha in un primo tempo composto in uno stato d’animo ispirato al nord germanico. Si comprende Goethe soltanto dopo questa vera e propria conversione animica in tutto il proprio modo di porsi di fronte al suo Faust.

 

In sostanza Goethe, dopo il suo viaggio in Italia, ha interiormente preso in odio ciò che egli ha composto del Faust fino al viaggio in Italia. Dopo il viaggio in Italia, non avrebbe mai più potuto comporre versi come quelli che abbiamo, laddove Faust volge via dalle forze celesti che salgono e scendono, che portano le secchie d’oro, dove Faust volge via dal macrocosmo e dice: tu, Spirito della Terra, sei più vicino a me. Questo è il Goethe giovane. Dopo il 1790 Goethe non l’avrebbe mai più scritto.

 

Dopo il 1790, allorché Goethe sul finire di tale secolo riprende il Faust, questo spirito della terra non gli è più così vicino come quando nel prologo descrive il macrocosmo del cielo; allora si rivolge proprio a ciò a cui il Faust del Goethe giovane ha volto le spalle. Qui viene invero descritto in un linguaggio adeguato il modo in cui le forze celesti vanno su e giù e si porgono le secchie d’oro.

 

Qui Goethe non diceva dentro di sé press’a poco: “Tu, Spirito della Terra, mi sei più vicino” ma dice: “comprendo l’uomo soltanto se non guardo semplicemente allo spirito della terra, ma quando, sollevandomi al di sopra del terrestre, penetro nel divino”.

 

E così potremmo esaminare molte altre cose. Potremmo per esempio guardare anche a questa trattazione, meravigliosamente scritta, del 1790: “Cerca di spiegare la metamorfosi delle piante”, e dovremmo ammettere: Goethe non avrebbe mai potuto, prima del suo viaggio in Italia, usare questo linguaggio dove parlano le cose stesse, ossia il linguaggio del crescere e del divenire delle piante. E ciò ci fa conoscere in maniera significativa il nesso dell’anima goethiana con tutta l’evoluzione dell’umanità.

 

Goethe si sentì estraneo a tutto ciò che la sua epoca pensava nel momento in cui fu costretto a digerire interiormente l’educazione specifica, l’educazione scientifica del proprio tempo. Egli aspirava ad un altro modo di pensare, ad un altro modo di porsi di fronte al mondo, e trovò quest’altro modo, quando credette di aver reso vivente in se stesso il modo (di pensare) dei Greci, l’atteggiamento dei Greci verso la natura e verso il mondo, verso l’uomo.

 

Il fisico moderno respinge Goethe, poiché egli vive proprio di ciò a cui Goethe fu estraneo durante la sua giovinezza. E il rifiuto è decisamente più onesto di un’adesione appiccicaticcia. Ciò che gli uomini si sono conquistati in fatto di concezione del mondo a partire dalla metà del XV secolo, era qualcosa in cui Goethe non potè mai ritrovarsi completamente. In gioventù vi si oppose, e dopo il viaggio in Italia lasciò che avesse la sua valenza, dal momento che per quel suo sentirsi vicino alla Grecia aveva conquistato ben altro a se stesso.

 

• In che consisteva dunque ciò che vive nella concezione del mondo,

nell’interpretazione della vita a partire dalla metà del XV secolo?

Che cos’è propriamente il galileismo?

 

Il galileismo, se lo si esamina, è qualcosa che vuol rendere comprensibile il mondo

applicando misura, numero e peso all’osservazione delle cose esterne.

A Goethe non fu mai congeniale costruirsi una interpretazione del mondo,

il cui fondamento sia costituito da misura, numero e peso.

 

Ma in questo modo le cose vengono viste soltanto da un lato. Esiste un qualcosa che è correlato a ciò che affiora nell’uomo quando considera il mondo secondo misura, numero e peso, ed è il concetto astratto, il mero intellettualismo.

 

Lo possiamo vedere esattamente: nella misura in cui misura, numero e peso vengono applicati all’osservazione della natura a partire dal primo terzo o dalla metà del XV secolo, nella stessa misura nell’interiorità della vita umana rivolta all’interpretazione del mondo si sviluppa l’intellettualismo, l’inclinazione al pensare astratto, a quel pensare che preferisce servirsi dell’intelletto.

 

Il nostro modo odierno di sviluppare concetti con la nostra forte predilezione per la matematica, per la geometria, per la meccanica, in sostanza quali uomini lo facciamo fin dal XV secolo. Per questo mondo, da un lato quello della misura, del numero e del peso, dall’altro quello dell’intellettualismo, Goethe non sentì mai affinità.

 

Il mondo al quale egli si rivolgeva in sostanza sapeva ancora poco di misura, numero e peso. Chi studia il pitagorismo viene in effetti facilmente indotto a credere che nel mondo tutto sia considerato così come noi lo consideriamo. Ma proprio quella differenza caratteristica – il fatto che nel pitagorismo misura, numero e peso siano usati immaginativamente, e che lo siano universalmente, il fatto che in un certo senso ciò che vive in misura, numero e peso venga sentito in maniera del tutto umana, non ancora avulsa dall’uomo – può già indicarci che il pitagorismo non utilizzava misura, numero e peso nel modo in cui lo si è fatto in seguito, a partire dalla metà del XV secolo, nel modo in cui il galileismo utilizza misura, numero e peso.

 

E chi per esempio approfondisce lo studio di uno spirito del IX secolo – l’ho caratterizzato qui in una conferenza poco tempo fa -, lo studio di Giovanni Scoto Eriugena, chi si immerge nella lettura di Scoto, scoprirà questo: questa nostra abitudine odierna di formarci un edificio del mondo su basi chimiche, fisiche e a costruire l’inizio e la fine del mondo partendo da ciò che abbiamo appreso misurando, contando e pesando, in Scoto Eriugena non la troviamo.

 

Per lui l’uomo non è così separato dal mondo esterno, e il mondo esterno da lui. Egli vive di più col mondo esterno, non aspira tanto all’obiettività, quanto vi aspira l’uomo di oggi.

 

E così si può vedere come ciò che in tutti i secoli successivi al periodo pitagorico si sviluppò nella grecità (e questo lo si può vedere proprio in uno spirito come quello di Scoto Eriugena), si sia andato gradatamente spegnendo nei secoli seguenti. In quell’epoca l’anima umana viveva sostanzialmente in tutt’altre rappresentazioni. A queste rappresentazioni Goethe anelò nuovamente dai sostrati più profondi della vita dell’anima.

 

Tuttavia otteniamo una rappresentazione plausibile di come stiano realmente le cose soltanto se osserviamo un altro fatto storico, oggi poco considerato. Da un certo punto di vista questo fatto storico l’ho già rappresentato nel mio libro Gli Enigmi della Filosofia; oggi vorrei rappresentarlo da un altro punto di vista.

 

Noi uomini moderni dobbiamo fare una distinzione esatta fra concetto e parola.

Ciò che avremmo, sarebbe soltanto una condizione non sana del senno umano,

se non distinguessimo con precisione fra ciò che vive interiormente nell’intelletto astratto e ciò che vive nella parola.

• È vero che il pensiero astratto è anche universale, comune a tutta l’umanità.

La parola vive nelle singole lingue dei popoli.

Possiamo già fare una distinzione fra ciò che vive nel concetto, nell’idea e nella parola.

 

Se si vuole comprendere nel modo giusto la realtà puramente storica dei Greci, non se ne viene a capo se si ascrive ai Greci questa stessa differenza che noi elaboriamo nel distinguere fra concetto e parola.

 

I Greci non distinguono con la stessa forza concetto, idea e parola.

• Quando parlavano, per loro viveva ciò che vive nell’idea, fluente sulle ali della parola;

essi credevano di mettere il concetto dentro la parola.

• Quando pensavanonon pensavano in modo intellettualistico astratto, come noi.

 

La loro anima veniva attraversata da qualcosa di simile al suono inudibile, ma articolato della parola.

In essi risuonava benché non udibile. Viveva la parola, non il concetto astratto.

 

Nell’epoca in cui si sarebbe trovato innaturale formare l’animo di una certa parte della gioventù, nel modo in cui lo facciamo noi, le cose potevano essere ben diverse.

È straordinariamente caratteristico della nostra cultura e civiltà, anche se abitualmente non vi facciamo caso, che una grossa parte della nostra gioventù, dal 10° al 18° anno, sia impegnata nello studio del latino, del greco, delle lingue morte. Ci si immagini che un greco avesse dovuto in gioventù educarsi in modo da doversi in tal modo erudire nella lingua egizia e caldaica. Impensabile, non è vero, del tutto impensabile!

 

Il greco viveva nella sua lingua non soltanto con il pensare, ma la lingua era per lui pensiero.

Nella lingua stessa era incarnato il pensare.

 

Si potrebbe parlare di limitatezza dell’entità greca, ma è un fatto. Ed una giusta comprensione di ciò che la grecità presenta ai nostri occhi può essere solo quella che ci rende coscienti di questo stretto legame del concetto, dell’idea con la parola, e che ci mostra come la parola vivesse nell’animo del greco come un suono interiore, impercepibile all’udito.

 

Già, con una costituzione animica siffatta non si può studiare il mondo esterno in modo galileico, così come lo consideriamo noi conformandoci a misura, numero e peso. Misura, numero e peso in un certo qual modo ne restano fuori. Vorrei dire, che solo esteriormente è sintomaticamente importante, che ciò che noi oggi accostiamo ad ogni bambino come fisico, al tempo dei Greci veniva propriamente sentito come un fatto che destava meraviglia.

 

Esperienze di vario tipo che noi facciamo oggi, che noi spieghiamo in base a misura, numero e peso, si percepivano come qualcosa di magico. Ne troverete conferma andando a rileggervi una qualsiasi storia della fisica. Con ciò che noi chiamiamo oggi natura inorganica, il greco non ha assolutamente avuto lo stesso rapporto che abbiamo noi oggi. Egli non aveva affatto la possibilità, data la sua costituzione animica, di rapportarsi ad essa in questo modo, e ciò per la ragione che egli non procede per concetti astratti nel modo in cui lo facciamo noi nell’epoca di Galileo.

 

Se si vive nella parola così come faceva l’uomo greco, non si possono calcolare i risultati degli esperimenti nel modo in cui facciamo oggi, ma si osservano i cambiamenti cui la natura va soggetta. Si osserva di preferenza non ciò che si compie nel mondo minerale, ma nel mondo vegetale.

 

• Proprio come esiste un tipo di affinità

fra il concetto astratto e la comprensione del mondo minerale,

• così esiste un’affinità fra la (dis)posizione del greco nei confronti della parola

e la comprensione del crescere, del vivere, del metamorfosarsi di ciò che è vivente.

 

Se noi oggi, partendo dalla nostra concezione minerale, riflettiamo sull’inizio e sulla fine della terra e costruiamo delle ipotesi, queste ipotesi saranno un’immagine riflessa di ciò che abbiamo misurato, contato, pesato. E costruiamo una teoria di Kant-Laplace, oppure ci facciamo una rappresentazione della morte del calore della terra, dell’entropia e del suo massimo. Sono tutte astrazioni che ricaviamo riducendo all’osso ciò che abbiamo misurato, contato, pesato.

 

Guardate invece le cosmogonie dei Greci. In queste cosmogonie essi sentono che le proprie rappresentazioni traggono nutrimento dallo stesso processo per cui in primavera spunta la vegetazione, in autunno muore, si sviluppa, appassisce. Proprio come noi, partendo dai nostri concetti materiali e osservazioni materiali, ci costruiamo un sistema del mondo, così i Greci si costruivano un sistema del mondo partendo dall’osservazione di ciò che si manifesta nella vegetazione. Il vivente era per loro ciò da cui traevano origine i loro miti e le loro cosmogonie.

 

L’uomo di oggi, educato alla scienza, nella sua presunzione dirà: “Che cose infantili, per fortuna le abbiamo superate! Abbiamo raggiunto mete tanto lontane! ” E attribuirà un valore assoluto a ciò che si può conquistare attraverso il misurare, contare e pesare. Chi invece non è così limitato, dirà: “Dalla concezione greca del mondo, che attingeva la propria immagine del mondo dal vivente, si è sviluppato il nostro modo di pensare che è una conseguenza dell’intellettualismo, a sua volta poi strumento educativo dell’umanità. Ma da questo nostro punto di vista, che vive del misurare, pesare e contare, dovrà nascerne un altro ancora”.

 

È strano: quando Schiller ebbe superato la sua precedente avversione per Goethe e si fu avvicinato a lui, gli scrisse una lettera molto indicativa. Gli scrisse: “Se lei fosse nato greco o solamente italiano, proprio quel mondo di cui lei è alla ricerca, si sarebbe squadernato intorno a lei fin dalla prima giovinezza”. Non sto citando le parole esatte, ma il contenuto. Schiller sentiva che l’anima di Goethe tendeva alla grecità. Ora, proprio in Goethe si può osservare come uno spirito sia divenuto tutt’altra cosa per il fatto di essersi immerso nella grecità. Oggi ci interessa molto di più questo modo di porsi di fronte al mondo della grecità del tutto diverso da quello che si ha a partire dal XV secolo.

 

Perciò possiamo dire: la nostra epoca, che vive nell’intelletto, e che conosce il mondo massimamente attraverso l’intelletto, in quanto questo mondo può essere misurato, contato e pesato, fu preceduta da un’altra che viveva molto meno nell’intelletto che non in quella vivente vita dell’anima, che possedeva ancora la parola interiore, che udiva interiormente il suono come suono privo di sonorità, che, così come noi oggi afferriamo un concetto, viveva interiormente il suono, viveva interiormente il suono articolato. E attraverso questo vivente contenuto dell’anima quell’epoca aveva una maggiore propensione a riconoscere il vivente nel mondo esterno.

 

Ma si può andare ancora più indietro; allora sì che bisogna farsi aiutare dalla scienza dello spirito, allora non si può andare indietro facendosi prendere per mano dalla storia di uso comune.

Se si vuole capire la differenza radicale fra la costituzione dell’anima greca e la nostra, si può rimanere interamente nell’ambito di una storia intesa in senso spirituale-psicologico; ma se si vuole andare ancora più indietro, all’incirca prima dell’VIII secolo avanti Cristo, e si vuole aver presente quella che era la costituzione animica dell’uomo di quel tempo, allora la storia esteriore non può dirci più nulla.

 

È vero che abbiamo soltanto scarsi documenti esteriori, e quelli che abbiamo non vengono apprezzati nel modo giusto. Per essere esatti, noi già abbiamo certi documenti anche esteriormente e, guardando le cose nel modo giusto, perfino l’Iliade e l’Odissea sono documenti siffatti, ma abitualmente non li si considera da questo punto di vista. Se si va ancora più indietro, si arriva all’idea che un punto di vista acquista per qualcuno un significato che varie persone hanno avuto in forma di importante presentimento, che Herder ha espresso con una forza del tutto speciale, ma che da un punto di vista scientifico non ha portato da nessuna parte.

 

È la concezione secondo cui l’epoca in cui l’umanità culturale viveva nella parola,

fu preceduta da un’altra in cui essa viveva nell’immagine.

Ma in che modo si vive nell’immagine, ad esempio

con il linguaggio e con la vita interiore dell’anima che si manifesta nel linguaggio?

 

Si vive nell’immagine, quando per uno non conta più tanto il contenuto del suono,

ma quello di cui in una certa misura il suono si colora, quando per uno conta il ritmo del suono,

conta ciò che potrei definire la conformazione del suono,

ciò che oggi avvertiamo propriamente come elemento autonomo rispetto al linguaggio,

conta la poesia del linguaggio.

 

Oggi il poeta deve prima configurare artisticamente la lingua, se deve esserci arte, deve esserci poesia. Ma noi guardiamo indietro ad un’epoca in cui per l’uomo era elementarmente la natura a conformare la lingua poeticamente, in cui in un certo qual modo lo svilupparsi del linguaggio e della teoria del linguaggio non erano così nettamente separati come lo furono in seguito, in cui gli uomini vedevano ancora qualcosa nel fatto di mettere una sillaba breve dopo una lunga, due brevi dopo una lunga, in cui essi vedevano ancora qualcosa nel fatto di pronunciare serie di sillabe brevi una dietro l’altra.

 

In questa configurazione del linguaggio si manifestava loro qualcosa dei segreti dei mondi, qualcosa che non si manifesta quando noi prendiamo nel suono ciò che ha colore, contenuto.

Alcuni uomini isolati sentono oggi che il linguaggio è uscito da tale condizione, e bisognerebbe porre attenzione al fatto che tali uomini, dalla massa di ciò che oggi a causa della nostra scientificità si accosta confusamente all’uomo, hanno individuato qualcosa di simile a ciò che io ora sto tentando di rendere evidente con i mezzi della scienza dello spirito.

 

Benedetto Croce ha indicato in modo straordinariamente significativo questo elemento poetico, artistico della lingua del passato, che si era formato nell’uomo in un’epoca preistorica, o perlomeno in un’epoca vicina alla preistoria, prima che la lingua acquisisse il suo carattere prosaico.

 

In modo che davanti all’anima avremmo grossomodo tre epoche:

• l’epoca che ha inizio all’incirca nel XV secolo, che potrei denominare quella del Galileismo,

• che interiormente vive nell’intelletto,

• ed esteriormente considera il mondo secondo misura, numero e peso.

 

• Ed un’epoca precedente, per la quale Goethe ha avuto nostalgia,

alla quale ha conformato interiormente, animicamente tutta la vita successiva al soggiorno in Italia,

in cui l’uomo viveva nell’indiviso essere uno di parola e concetto,

in cui sviluppò non l’intellettualismo, ma una vita interiore ricca di anima,

e in cui scorgeva nell’esterno ciò che è vivente, che si trasforma, che vive nella metamorfosi.

 

• Ed ora guardiamo indietro ad una terza epoca,

in cui la costituzione animica dell’uomo viveva in qualcosa di sovralinguistico,

in qualcosa che formava i suoni immaginativamente.

Ma ciò che dietro al suono ancora vive per mezzo dell’anima,

come per un istinto pervaso di anima, anche nell’esterno percepisce qualcos’altro.

 

Come già detto, la storia non ci dice molto al riguardo; lo storico può soltanto presumerlo. Si tratta di ciò che costituisce l’elemento immaginativo della lingua, l’istintivamente immaginativo, che precede l’esperienza della parola. E attraverso questo sperimentare immaginativo viene ora sperimentato effettivamente nella natura esterna qualcosa di ancora più elevato di quanto può essere sperimentato attraverso la parola o il concetto.

 

Infatti sappiamo che ancora oggi la civiltà orientale, che è in piena decadenza, attraverso le sue manifestazioni decadenti ci riporta a condizioni precedenti, condizioni che erano di vita ancora piena, se per esempio si studia la filosofia dei Veda o dei Vedanta, che a loro volta fanno continuo riferimento ad epoche preistoriche ancora più antiche. Vi è rimasto qualcosa, che pervade come un che di eterico tutta questa costituzione animica orientale, qualcosa che rimane piuttosto estraneo alla costituzione animica occidentale, qualcosa che, quando la esprimiamo in parole, non è più la stessa.

 

È rimasto qualcosa che solo in maniera estremamente povera si può rendere con la nostra parola ‘compassione’, non importa la profondità con cui anche Schopenhauer possa averla provata. Questa compassione, questo amore per tutti gli esseri, così come ancora oggi esiste in Oriente, si ricollega ad epoche ancora più antiche in cui era ancora più intensa, in cui esprimeva nell’anima un immedesimarsi dell’anima in ciò che essa provava.

 

È del tutto giustificato il dire a se stessi: la compassione orientale esprime un fenomeno primordiale della vita dell’anima ormai trascorso, che si manifesta in un partecipare interiore a ciò che essa sente, che essa stessa vive interiormente, che non vive soltanto nella metamorfosi, come la pianta, che non soltanto viene ad esistere e poi muore, ma che partecipa al nascere e al morire nel sentire interiore.

 

• Questo condividere il sentire oggettivamente vivente dell’altro è in realtà possibile

solo quando al di là del concetto e al di là del suono o della parola materiale

ci si solleva a ciò che vive nella configurazione immaginativa della lingua.

 

• Viviamo in conformità alla vita esteriore della pianta,

se la parola è per noi altrettanto vivente quanto lo era per il greco.

• Viviamo in conformità al sentire dell’altro, viviamo in conformità

a ciò che si trova non soltanto nel vivente, ma anche nel senziente,

se abbiamo una ricettività interiore non solo per la lingua, ma per la configurazione artistica della lingua.

 

Da qui è nato qualcosa di così grandioso, allorché nei poemi mitologici si accenna a questo fenomeno primordiale della vita dell’anima: quando per esempio ci viene raccontato di Sigfrido, che per lui c’è stato un momento in cui egli capiva la voce degli uccelli, che non arrivano alla parola umana, ma che arrivano solo alla configurazione della concatenazione dei suoni.

 

• Ma ciò che però ora affiora alla superficie nel canto degli uccelli, nella voce degli uccelli,

vive in realtà in tutto il vivente.

• È contenuto proprio in tutto il vivente, ciò a cui non siamo capaci di uniformare la nostra vita,

ciò che il vivente racchiude nella cameretta interiore dell’anima, se soltanto ascoltiamo la parola.

• Poiché, quando ascoltiamo la parola, allora udiamo ciò che la testa dell’altro vive.

 

• Se invece comprendiamo interiormente

ciò che sillaba accanto a sillaba, parola accanto a parola, frase accanto a frase

vive nella configurazione immaginativa della lingua,

allora non comprendiamo solamente ciò che vive nella testa, ma soprattutto ciò che vive nel cuore dell’altro uomo.

 

• Quando ascoltiamo ciò che l’uomo profferisce nelle parole, percepiamo la sua capacità;

ma se siamo capaci di udire il risuonare delle sue parole, il ritmo delle sue parole, allora udiamo tutto l’uomo.

• E se udiamo tutto l’uomo, allora arriviamo

– quando ci libriamo alla comprensione della configurazione sonora priva di concetto, priva di parola,

che in questo momento non viene neppure udita, che viene vissuta interiormente –

alla comprensione di ciò che il sentire sperimenta obiettivamente nell’interiorità.

 

• E nell’immedesimarci a tal punto con una disposizione animica del tutto diversa,

quella in cui il parlare sonoro correva parallelamente (a quello privo di sonorità),

in cui però l’anima viveva nel ritmo, nel tempo (metrico), nel tema melodioso,

in cui ciò costituiva qualcosa di vivente nello sperimentare dell’anima,

torniamo indietro ad un’epoca situata prima della grecità, a sua volta evolvente in direzione del medioevo;

allora ritorniamo a quell’epoca in cui gli uomini si elevavano

dalla comprensione della semplice metamorfosi del vivente

alla comprensione di ciò che vive nell’animalità, nel mondo senziente,

alla visione immediata di ciò che vive nel mondo senziente.

 

• Se prendiamo in considerazione l’umanità civilizzata,

ossia quella umanità che diviene oggetto di attenzione per quell’epoca

nello stesso modo in cui i popoli civilizzati

divengono oggetto di attenzione per il presente,

se guardiamo a questa umanità risalendo dall’VIII secolo avanti Cristo

fino all’inizio circa del terzo millennio avanti Cristo,

troviamo già nel fondo dell’anima di questi popoli

una disposizione animica consistente nell’immaginatività dell’anima,

una simile tendenza a recepire tutto come qualcosa di senziente.

 

La nostra scienza, nei suoi limiti, va dicendo che l’uomo proprio nei tempi più antichi personificava le cose.

Si rivendica per l’anima qualcosa di mostruosamente intellettuale proprio laddove essa ha manifestato qualcosa,

e lo si mette poi sullo stesso piano di qualcosa come:

“su, andiamo, il bambino, quando urta contro uno spigolo, gli dà le botte,

perché personifica il tavolo come qualcosa di vivente”.

 

Non ha mai guardato nell’animo infantile colui che crede che il bambino personifichi il tavolo cui dà le botte, che se lo rappresenti più o meno come qualcosa di vivente.

Il bambino guarda al tavolo non diversamente da noi, solo che egli ancora non separa ciò che è il tavolo dal vivente.

 

• E quei popoli antichi non personificavano, ma sperimentavano realmente,

in quanto sperimentavano la configurazione del linguaggio, non soltanto il vivente, ma il senziente.

 

• Soltanto se ci si chiarisce in questo modo come le anime degli uomini si siano evolute, diciamo

– per cominciare vogliamo porci davanti soltanto questa cosa –

dal III secolo avanti Cristo fino ai nostri tempi,

• dall’epoca dello sviluppo sovralinguistico attraverso quello linguistico fin dentro all’epoca dell’intelletto,

• dal tempo dello sperimentare il sentire obiettivo,

passando per lo sperimentare del crescere e del divenire obiettivo

al sentire ciò che vive nella misura, nel peso e nel numero,

• solo allora, quando ci richiamiamo ciò alla memoria,

potremo dirci più facilmente che – oggi, nell’epoca in cui la coscienza afferra tutto –

è necessario, per penetrare nell’essenza delle cose,

anche abituarci coscientemente a guardare in modo nuovo le cose che ci sono intorno.

 

•Allora colui che crede che la costituzione animica dell’uomo non si sia mai modificata,

ma che sia rimasta sempre uguale nelle epoche che vengono più considerate,

pensa che questa costituzione animica dell’uomo sia qualcosa di assoluto,

e soprattutto che l’uomo perda completamente se stesso,

quando trasforma questa sua costituzione animica in un’altra.

 

Chi invece vede come sia nell’andamento naturale dell’evoluzione dell’umanità

che la costituzione animica subisca dei mutamenti,

quegli potrà più facilmente elevarsi alla comprensione della necessità

di dover prima cambiare disposizione animica  per poter penetrare, in modo conforme ai tempi odierni,

nell’essenza delle cose, nell’essenza dell’uomo, nell’essenza del rapporto fra uomo e mondo.