Come si forma la coscienza dell’io nel dopo-morte. La vita del kamaloka.

O.O. 157a – Formazione del destino e vita dopo la morte – 18.11.1915


 

Sommario: Come si forma la coscienza dell’io nel dopo-morte. La vita del kamaloka. Come si riconoscono le altre anime. L’esperienza delle azioni passate e il loro pareggio. L’attività verso l’esterno. La differenza fra il morire prima o dopo i trentacinque anni di età. Il fiorire di nuovi impulsi spirituali nella vita sulla terra.

 

L‘altro ieri avevamo fatto notare

che si ravviva la giusta conservazione della coscienza dell’io fra la morte e una nuova nascita

grazie allo sguardo panoramico che abbiamo dopo la morte sull’ultima vita terrena.

In un quadro panoramico vediamo tutta l’ultima vita terrena.

 

Cerchiamo di chiarire bene che cosa in effetti si veda.

 

Sul piano fisico siamo abituati a considerarci come in una specie di punto centrale del nostro orizzonte e di vedere attorno a noi il mondo che fa un’impressione sui nostri sensi. Vediamo tutto l’orizzonte che fa un’impressione su di noi. Nella vita normale sul piano fisico non guardiamo in noi, ma guardiamo movendo da noi.

Per acquisire un giusto concetto della vita che segue immediatamente la morte è importante far notare subito che lo sguardo sul panorama della vita è del tutto diverso da quello al quale siamo abituati per la percezione del piano fisico.

• Qui vediamo partendo da noi; scorgiamo il mondo che ci è attorno.

Siamo al centro e guardiamo fuori di noi, non in noi.

 

• Per un paio di giorni subito dopo la morte il nostro campo visivo è riempito da quel che abbiamo sperimentato fra nascita e morte, e guardiamo dalla periferia verso il centro. Guardiamo la nostra vita, il corso temporale della nostra vita.

Mentre di solito diciamo: qui siamo noi e là vi è tutto il resto del mondo, subito dopo la morte siamo consapevoli che non esiste più la differenza fra noi e il mondo; guardiamo cioè la nostra vita dalla periferia, e per un paio di giorni questo è il nostro mondo.

 

Come con le percezioni abituali sul piano fisico si vedono montagne, case, fiumi, alberi e altro, così vediamo quale nostro diretto mondo ciò che abbiamo sperimentato nella vita da una determinata prospettiva personale. Che lo si veda così costituisce il punto di partenza per la conservazione dell’io per tutta la vita fra la morte e una nuova nascita. Si rafforza così l’anima in modo che fra morte e rinascita essa sappia sempre: io sono un io.

Ripeto spesso che qui nella vita fisica sentiamo il nostro io perché siamo in un determinato rapporto con la nostra corporeità. Se osserviamo con precisione il sogno, possiamo dire che in esso non si ha un preciso sentimento dell’io, ma spesso quello di esserne staccati. È così perché qui sul piano fisico sentiamo in effetti l’io solo venendo in contatto col corpo. Detto all’ingrosso possiamo pensare questa esperienza: se moviamo nell’aria un dito, non avvertiamo niente, e sempre niente fino a quando, toccando qualcosa, non sappiamo di noi. Ci rendiamo conto di noi urtando qualcosa, e così si arriva anche a rendersi conto dell’io. Non dell’io stesso, che è un’entità, ma della coscienza dell’io. L’urtare ci fa render conto di noi stessi.

 

• Nella vita fisica siamo cioè coscienti dell’io perché viviamo in un corpo fisico.

Per questa ragione abbiamo ricevuto un corpo fisico.

• Nella vita fra morte e rinascita abbiamo una coscienza dell’io

perché abbiamo ricevuto le forze che provengono dalla visione dell’ultima vita.

 

In un certo senso battiamo contro ciò che ci dà il mondo spaziale, e acquistiamo così la coscienza dell’io per la vita fra nascita e morte. Battiamo contro ciò che avevamo sperimentato fra nascita e morte nell’ultima vita, e abbiamo così la coscienza dell’io per la vita fra morte e rinascita.

Segue poi una vita del tutto diversa che corrisponde a un terzo della vita fra nascita e morte e che viene spesso denominata vita del kamaloka. Interviene un allargamento della nostra visione.

 

Mentre nei primi giorni la nostra visione è indirizzata in effetti solo a noi stessi, alla vita appena trascorsa e non alla personalità, per il periodo successivo le condizioni sono molto diverse. Certo rimane la forza di sapersi un io. Quel che ora riassumo si può vedere più nei particolari in miei libri e in cicli di conferenze; interviene comunque ora qualcosa di particolare al quale occorre abituarsi, perché tutto il modo di vedere è ora del tutto diverso da quello del piano fisico.

Quello che si deve sperimentare dopo la morte

consiste in gran parte nell’abituarsi al diverso modo di vedere.

 

• Qui noi scorgiamo la natura che ci circonda. La natura che vediamo nel mondo fisico proprio non esiste nel nostro mondo fifa morte e rinascita. Per osservare qui la natura abbiamo occhi e orecchi fisici, tutti gli apparati di percezione fisica. Con altri organi di percezione non si percepirebbe la natura quale ci si presenta con tutti i suoi colori e le sue altre caratteristiche. Siamo forniti di un corpo fisico proprio per poter percepire la natura.

Dopo la morte, al posto della natura che ci circonda vi è il mondo spirituale che abbiamo descritto come il mondo delle gerarchie, un mondo costituito tutto da entità, da anime: non materia o sostanza o oggetti che hanno un colore, ma tanti esseri. Questa ne è la caratteristica essenziale. Come conseguenza naturale la sorpresa è massima per le anime che qui nella vita fisica negavano lo spirito. Infatti coloro che negano lo spirito e non credono che esista si ritrovano in un mondo che avevano negato e che è per loro del tutto sconosciuto. Di necessità devono vivere in un mondo del quale avevano in fondo desiderato che non esistesse.

 

Siamo dunque circondati da una realtà spirituale, da tanti esseri, da molte anime. Sono anime che all’inizio non conosciamo; sappiamo che sono tutte anime, ma non le riconosciamo singolarmente.

Poi, a poco a poco, da quell’indistinto mondo di anime si manifestano, si fanno avanti singole anime in modo distinto e concreto, in particolare si presentano le anime di persone con le quali si era vissuti qui sul piano fisico. Di fronte alla moltitudine di anime in mezzo alle quali ci troviamo, impariamo a riconoscere le singole anime: questa è il tale, quest’altra il tal altro. Ne facciamo la conoscenza.

Anzitutto dobbiamo tener presente che il modo in cui si stabilisce un rapporto col mondo fra morte e rinascita è in sostanza diverso dal modo in cui si è nel mondo fisico, anche per cose diverse da quanto indicato.

Qui il mondo è fuori di noi;

dopo la morte abbiamo realmente la coscienza che il mondo è in noi.

Sembra un paradosso, ma è così.

 

Immaginiamo per un momento qui sulla terra di essere dissolti, di scioglierci in una nebbia, e che la nebbia, che siamo noi stessi, si allarghi sempre più e si fermi soltanto alla volta celeste (immaginando per un momento che la volta celeste sia un’entità) “dove finisce il mondo”, come si dice. Ci si sente allora come la volta celeste e si vede tutto all’interno, in modo che la coscienza è fuori e il mondo all’interno. Si sente come se tutto quanto si presenta fosse all’interno. Come qui avvertiamo un dolore in noi, così dopo la morte gli esseri ci si presentano quale esperienza interiore. Ciò determina anzitutto fra morte e rinascita l’intima esperienza dell’unione con tutti gli esseri.

 

Vi è però una certa differenza: di un’anima che si comincia a riconoscere nel modo che ho detto, all’inizio si può sapere che è presente, ma non ha una figura, non è ancora percepibile.

 

Per renderla percepibile occorre svolgere una certa attività interiore: trasposti nel mondo spirituale immaginiamo di sentire qualcosa dietro di noi che però non vediamo, ci facciamo cioè l’idea che sia presente, ma dobbiamo svolgere un’attività per averne appunto l’idea.

È un’attività paragonabile a quella di fare un disegno dopo aver sentito un oggetto al tatto. È cioè necessaria un’attività interiore perché sorga l’immagine. So che l’essere è presente, ma devo prima creare l’immagine collegandomi interiormente con lui. Questo è uno dei modi per riuscire a percepire le anime. L’altro è quello di non svolgere questa interiore attività in modo altrettanto forte, ma di attendere che si svolga da sola: si presenta senza che occorra fare molto. È come quando qui si guarda qualcosa e naturalmente lo si traspone nello spirito.

 

La differenza può presentarsi per due diverse anime: una la si vede perché si fa molto; l’altra perché l’immagine si presenta da sola, basta fare attenzione. Questa è la differenza.

• Quando si entra in contatto con un’anima per la quale occorre una maggiore attività, si tratta dell’anima di un defunto.

• Un’anima invece che si presenta da sola è incarnata qui sulla terra in un corpo fisico.

Sono differenze davvero esistenti. Con le eccezioni di cui una volta parleremo, dopo la morte si è in relazione con anime di defunti e anche con anime che sono ancora sulla terra. La differenza dipende dal nostro modo di essere attivi o passivi, da come si presenta l’immagine dell’anima che ci sta di fronte.

Vi è comunque una caratteristica della quale abbiamo parlato in diverse occasioni e che tuttavia è bene ricordare ora, per la vita che corrisponde al terzo della vita terrena trascorsa e che siamo usi chiamare la vita del kamaloka. Quando viviamo qui sulla terra e qualcuno ci dà uno spintone, sappiamo, percepiamo di essere stati spinti. Di norma l’esperienza è diversa se qualcuno ci spinge o se noi diamo uno spintone. Allo stesso modo è diversa l’esperienza se qualcuno ci dice qualcosa per offenderci, oppure se siamo noi a offendere.

 

Nel kamaloka la cosa è rovesciata, quando si rivive a ritroso la vita fra nascita e morte. Per fare un esempio grossolano, avviene ora che, avendo dato nella vita uno spintone a qualcuno, si sperimenta ciò che l’altro aveva sentito a seguito dello spintone. Avendo offeso qualcuno con una parola, si sperimenta quel che egli aveva sperimentato. Si sperimenta cioè l’anima dell’altro. In altre parole si sperimentano gli effetti che sono derivati dalle nostre azioni; in questa vita a ritroso si sperimenta tutto quanto gli altri sperimentarono qui a causa nostra durante la nostra vita fra nascita e morte.

Se fra nascita e morte si visse assieme a diverse centinaia di persone, esse sperimentarono qualcosa a causa nostra. Però nella vita fìsica noi non possiamo sentire quello che gli altri sentono e vivono a causa nostra, ma sentiamo soltanto ciò che noi sperimentiamo a causa degli altri. Dopo la morte è al rovescio. Essenziale è che nella vita a ritroso si sperimenti quel che gli altri sperimentarono a causa nostra. Viviamo cioè gli effetti dell’ultima esistenza terrena. Lo scopo di quegli anni è veramente sperimentare quegli effetti.

 

Rivivendoli, l’esperienza relativa diventa forza in noi, in questo modo: immaginiamo di aver offeso qualcuno che di conseguenza ne sente amarezza. Nel kamaloka io sento quell’amarezza come un’esperienza mia. Sperimentandola sorge in me la forza da contrapporre; sperimentando cioè l’amarezza, sorge in me la forza per togliere dal mondo quell’amarezza. Percepisco così tutti gli effetti delle mie azioni e accolgo di conseguenza la forza per eliminarli. Nel periodo che dura un terzo della trascorsa vita terrena accolgo tutte le forze che si possono caratterizzare come intensi impulsi grazie ai quali l’anima ora disincarnata eliminerà ciò che disturba il suo perfezionamento e ne impedisce l’evoluzione.

 

Riflettendo su tutto ciò, si vede che siamo noi stessi a formare il karma, vale a dire che desideriamo diventare tali da poter eliminare ciò che dobbiamo. Il karma viene dunque preparato durante quel periodo. Immettiamo nella nostra anima la forza che dobbiamo accogliere tra morte e nuova nascita per dare alla nostra vita nella successiva incarnazione la configurazione che possiamo stimare giusta. Vorrei dire che questa è la tecnica per la formazione del karma.

Per comprendere rettamente queste cose, non in teoria ma in modo che esse penetrino a fondo nel nostro sentimento e nella nostra volontà, ci deve essere chiaro che l’atteggiamento dei sentimenti del morto diviene del tutto diverso rispetto a chi è in vita.

 

Questi potrà dire con molta facilità: sono spiacente per questo o quel defunto perché dovrà sperimentare cose per le quali forse non ha colpa! Si può pensare che qualcuno abbia offeso pesantemente qualcun altro senza averne colpa. E magari si compiange il defunto. È però un atteggiamento inadeguato, perché il morto desidera ardentemente che si sviluppi in lui la forza per poter pareggiare le sue azioni: questo considera il suo bene. Non gli va augurato che non riesca a raggiungere quel che desidera ardentemente, e per questo deve sperimentare tutto ciò. Da quanto è negativo si sviluppa qualcosa di positivo. Riconoscendo quel che si è fatto si sviluppa la forza per pareggiarlo.

Si può quindi dire che alla fine del periodo del kamaloka, dopo aver rivissuto l’ultima vita, si è già stabilito come si vuole entrare di nuovo nella successiva incarnazione, come ci si intende incontrare con le varie persone per pareggiare le diverse azioni. In sostanza si determina ora il karma per la vita nella quale si entrerà.

 

Nel tempo che segue avviene che dal mondo spirituale prendiamo le forze grazie alle quali poter assumere in generale forma umana, grazie alle quali poter creare il corpo adatto alla nostra individualità.

 

Abbiamo anzitutto il piano del nostro karma e dobbiamo per prima cosa plasmare l’adeguata forma umana. Ciò richiede però in seguito un tempo ancora più lungo. Si può comunque dedurre che l’essenziale del periodo del kamaloka è che ci sia offerta la possibilità di preparare nel modo giusto e morale la nostra prossima incarnazione. Ci deve essere chiaro che sempre ogni incarnazione seguente dipende dalla precedente. Abbiamo appunto visto come la successiva venga preparata e che tutto il modo di vivere di ognuno dipende dal modo in cui si è trascorsa la vita precedente. Che questo sia in contrasto con la libertà (ritorneremo sull’argomento) è un’obiezione che viene fatta da persone che non hanno approfondito il problema; comunque tutto ciò non contraddice la libertà.

 

Osservando nella vita i singoli individui troviamo che tutti sono tra loro diversissimi; le differenze sono tante quanti sono gli uomini sulla terra. E però possibile distinguere delle categorie. Vi sono persone che agiscono in modo da mostrare sin dalla prima gioventù di essere molto adatte per una cosa o per un’altra. Vi sono certo persone del genere. Già da bambini si può dire che faranno una cosa o l’altra. Entrano già così nell’esistenza e sono attivi in questo senso. Hanno un determinato compito e sviluppano la forza necessaria. Troviamo altre persone che hanno molti interessi, ma non mostrano una precisa direzione per qualcosa di specifico. Accolgono molto e arrivano magari tardi nella vita a svolgere un determinato compito che però non corrisponde al loro essere; avrebbero potuto svolgerne un altro in modo simile.

 

In breve le persone sono ben diverse fra loro per il modo in cui operano nella vita, e ciò rende in effetti la vita stessa possibile. Vi sono ad esempio uomini che si presentano nella vita e non sono inclini a compiere azioni; basta però che dicano una parola perché agisca sugli altri: operano cioè con la loro interiorità. Altri invece agiscono in modo più esteriore. Ciò dipende intimamente da come si è attraversata la vita nell’incarnazione precedente. Vi sono persone che muoiono giovani, diciamo prima dei trentacinque anni. A seguito della loro morte sono in condizione del tutto diversa da altre che muoiono dopo i trentacinque anni. Se si muore prima di quell’età avviene che si è ancora vicini al mondo dal quale si è venuti con la nascita. I trentacinque anni sono un limite importante: si supera come un ponte. Arretra il mondo dal quale si è discesi, e si dà alla luce dall’interiorità un nuovo mondo spirituale. È importante fare questa distinzione.

 

Se dunque muore qualcuno prima dei trentacinque anni, quando si reincarna in certo modo gli si aggiunge la forza che non aveva usato nel tempo che sarebbe seguito ai trentacinque anni. Gli uomini dunque che in un’incarnazione muoiono prima di quel termine, e quindi per questa incarnazione risparmiano le forze che avrebbero impiegato se avessero raggiunto i cinquanta, i sessanta o i settant’anni, assommano le forze che hanno risparmiato a quelle con le quali si incarnano nella successiva incarnazione; tali anime nascono così in corpi grazie ai quali sono in grado, soprattutto in gioventù, di affrontare la vita con forti impressioni.

 

In altre parole, quando si reincarnano anime che erano morte prima dei trentacinque anni, tutto fa su di loro una forte impressione. Si irritano molto, si rallegrano molto, hanno forti sensazioni e giungono subito a impulsi di volontà. Sono le persone che si inseriscono con forza nella vita, che hanno una missione. Non è a caso che si muore prima dei trentacinque anni, ma si viene inseriti poi nella vita in un modo del tutto particolare.

 

Le cose comunque si incrociano, e una morte prima del termine indicato può avere altre conseguenze: sono esempi, ma non è sempre così. Se invece si muore dopo i trentacinque anni, il fatto può avere come conseguenza che nella vita successiva non si abbiano impressioni altrettanto forti dalle cose del mondo: non ci si entusiasma alla svelta, non ci si arrabbia alla svelta, si conoscono le cose più lentamente e più a fondo, e ci si inserisce di conseguenza per l’incarnazione successiva in una vita nella quale si agisce di più con l’interiorità, senza essere direttamente condotti a un determinato compito. Si è nella vita in modo che si preferirebbe svolgere un altro compito, ma si viene portati a fare qualcosa di speciale, forse contro la propria volontà. Poiché nella precedente incarnazione ci si è disposti ad agire con più finezza, si è disponibili per molte cose.

 

Se ad esempio qualcuno è morto molto giovane, già in passato feci questo esempio, diciamo a undici, dodici o tredici anni, ha un kamaloka breve ed è ancora molto vicino al mondo che aveva abbandonato con la nascita fisica. Tutto è allora diverso. Se questo è il karma, a una vita che termina già a dodici anni segue il quadro a ritroso nei primi giorni dopo la morte, e lo si ha in modo che si presenta più da fuori, mentre morendo a cinquanta, sessanta o settant’anni occorre fare di più per vedere il quadro a ritroso: lo si ha a seguito della propria attività.

 

Dato che la vita dopo la morte è vissuta in modi diversi, si viene preparati diversamente per una vita successiva. Può succedere che in una vita si sia molto attivi e che si sia strappati presto dalla vita: avverrà allora nella vita successiva di essere destinati dal proprio karma a un ben determinato compito che poi viene anche svolto in ogni caso; vi si è come predestinati.

Se invece in una vita si è molto attivi e si vive fino a tarda età, le proprie forze si interiorizzano, e nella vita successiva si avrà un compito più complicato. L’attività esteriore allora si ritira e si presenta all’anima appunto la necessità di sviluppare un’attività interiore.

 

La vita umana che si sviluppa da incarnazione a incarnazione è certo molto complicata. Dopodomani continueremo le nostre considerazioni, ma ora vorrei chiudere dicendo che, osservando un tempo come il nostro, nel quale in un periodo relativamente breve e in modo eccezionale e abnorme, molti sono portati alla morte, si prepara di conseguenza anche qualcosa del tutto abnorme, qualcosa che va appunto preparato. Si vede ogni anno come irrompa nel mondo il tempo della fioritura. Risalendo nella storia, si può dire: anche in essa irrompe una fioritura.

 

Un grande periodo di fioritura fu quello di Lessing, Herder, Schiller, Fichte, Goethe. Fu come se tutti i geni si fossero riuniti. Il fenomeno poi cessa e così il mondo procede a scatti. Si parla cioè del presentarsi di periodi di uomini geniali, alternati con altri periodi diversi. Nella sfera spirituale si ha un periodico fiorire, una speciale fioritura. Ai nostri giorni vediamo sul piano fisico un continuo morire. Abbiamo cioè due aspetti che si possono porre l’uno accanto all’altro e che sono immagini molto eloquenti.

Molte morti fisiche sono il seme per un successivo e significativo fiorire spirituale.

 

Tutte le cose hanno due aspetti.

In questa prospettiva, sempre cercando forza e consolazione, e anche con speranza e fiducia,

diciamo appunto in accordo col nostro tempo e sulla base della nostra scienza dello spirito:

 

Dal coraggio dei combattenti,

dal sangue dei campi di battaglia,

dal dolore dei rimasti,

dai sacrifici del popolo

nasceranno frutti dello spirito.

Anime guidino coscienti la loro mente

nel regno dello spirito.