Condizioni di modificabilità fra morte e rinascita con la lettura ai defunti.

O.O. 141 – Vita da morte a nuova nascita – 03.12.1912


 

Sommario: Condizioni di modificabilità fra morte e rinascita con la lettura ai defunti. Comunicazione dei defunti ai viventi. L’anima è indipendente dal corpo ed è legata alle forze cosmiche.

 

Fra le cose già accennate nella nostra esposizione sulla vita tra la morte e una nuova nascita, ricorderete forse come l’uomo, appunto fra morte e nuova nascita, continui in un primo tempo a vivere sulla base delle relazioni che si è preparato qui nell’esistenza terrena.

Abbiamo fatto presente che, quando incontriamo nel mondo spirituale dopo la morte una persona conosciuta, la relazione fra noi e quella persona in un primo tempo è quella che si è stabilita durante l’esistenza terrena, e che noi nulla possiamo immediatamente modificare in tale relazione.

 

Mettiamo dunque di incontrare nel mondo spirituale dopo la morte un amico, oppure un’altra persona che sia morta prima di noi. Immaginiamo che essa sia una di quelle persone alle quali, attraverso determinate circostanze, noi siamo per esempio debitori di amore, alle quali cioè, in un certo senso, noi abbiamo sottratto dell’amore. Dovremo ora continuare a sperimentare il rapporto esistente prima della morte, il rapporto dovuto alla mancanza di quell’amore che noi dovevamo.

Noi stiamo di fronte alla persona nel modo descritto nella conferenza precedente e, per così dire, guardiamo e sperimentiamo sempre di nuovo quello che abbiamo costruito nella vita prima della morte. Se per esempio la vita era tale che sulla terra, da un determinato momento, abbiamo fatto intervenire un cambiamento nella relazione con quella determinata persona, se per esempio, dieci anni prima della morte di quella persona o della nostra morte, abbiamo fatto intervenire il rapporto ora descritto, privo di quell’amore che avremmo dovuto dare, allora dopo la morte, per un periodo corrispondentemente lungo, dovremo vivere in quel rapporto e soltanto dopo averlo così assaporato, andremo avanti a sperimentare dopo la morte, in modo corrispondente, anche il rapporto migliore in cui eravamo prima con quella persona. Dobbiamo cioè considerare che, di fronte al cambiamento di relazioni che abbiamo fatto intervenire sulla terra, noi non siamo in grado, dopo la morte, di pareggiarle, di modificarle, dobbiamo considerare che è intervenuta una certa immodificabilità.

 

Si potrebbe facilmente credere che questa sia una situazione dolorosa, e che in realtà tutto ciò debba venir guardato soltanto con dolore da parte dell’uomo. Se giudicassimo così, noi giudicheremmo in base alle nostre limitate condizioni terrene. Le cose si mostrano però molto diverse viste dal mondo spirituale. Nella vita fra morte e nuova nascita l’uomo deve invece sperimentare tutto il dolore che gli deriva dal doversi egli dire: « Ora che sono nel mondo spirituale, riconosco l’ingiustizia, ma non posso cambiarla; devo per così dire lasciarla modificare dalla situazione ». Chi si avvede di questo, sperimenta anche il dolore relativo, ma sperimenta pure la conoscenza che così deve essere e che per la sua ulteriore evoluzione sarebbe dannoso, sarebbe male se così non fosse, se egli non potesse accogliere ciò che sperimenta mediante quel dolore. Infatti, mentre osserviamo una simile condizione e non possiamo modificarla, noi accogliamo la forza per modificarla in seguito, nel karma della vita.

 

Così lavora la tecnica del karma, in modo che noi possiamo trasformare e modificare le cose quando entriamo di nuovo in una incarnazione fisica. Soltanto in misura minima esiste propriamente la possibilità che lo stesso defunto possa modificare la situazione.

Egli vede per così dire avvicinarsi ciò che è condizionato dalla vita prima della morte, e questo si riferisce innanzi tutto al primo periodo dopo la morte, al periodo del kamaloca; ma in un primo tempo egli deve limitarsi all’osservazione, e non può far intervenire alcuna modificazione nelle sue relazioni, nelle sue esperienze.

A questo proposito possiamo dire che molta più influenza del defunto stesso su di sé, oppure degli altri defunti su di lui, hanno i viventi, quelli rimasti qui. È questo qualcosa di enormemente importante.

 

Chi è ancora rimasto sul piano fisico ed ha stabilito una certa relazione con i defunti,

chi ha legami verso le anime che si trovano fra morte e nuova nascita,

soltanto questi è in realtà in grado, per arbitrio umano,

di far intervenire una modificazione qualsiasi nei defunti dopo la morte, ancora durante questa vita.

 

Prendiamo un caso concreto che possa in pari tempo insegnarci diverse altre cose. Allo scopo dobbiamo anche tener conto della vita nel kamaloca, perché a questo proposito le condizioni non si modificano più quando si sia passati al successivo periodo del devachan.

Immaginiamo che due uomini abbiano vissuto sulla terra. Può capitare che uno, ad un certo momento della sua vita, abbia acquisito una certa relazione, diciamo verso l’antroposofia, poiché ci è vicina; è diventato antroposofo. L’altro, che gli stava accanto, per il fatto che l’amico è diventato antroposofo diviene furibondo proprio contro l’antroposofia, e comincia ora a dire malissimo della stessa. Forse avrete anche voi sperimentato qualcosa in proposito, tanto da dirvi che l’altro non sarebbe magari diventato così furibondo contro l’antroposofia, se il suo amico non fosse diventato appunto antroposofo. Se per esempio l’antroposofia fosse divenuta nota prima a lui, allora magari egli sarebbe diventato un buon antroposofo. Questo può darsi, si dànno tali situazioni nella vita. Ma dobbiamo aver ben chiaro che tali situazioni possono spesso verificarsi nella maja, in quella che denominiamo l’illusione della vita. Così può avvenire che chi comincia ora ad ingiuriare malamente l’antroposofia, perché il suo amico è diventato antroposofo, lo fa soltanto nella sua coscienza superficiale, nella sua coscienza egoica; nella sua coscienza astrale, nel suo subcosciente, non è assolutamente necessario che egli partecipi all’avversione contro l’antroposofia. Senza saperlo, può persino formarsi in lui un’aspirazione verso l’antroposofia. In molti è proprio così: l’avversione che appare nella coscienza abituale, è invece simpatia nel subcosciente.

 

Per il fatto che qualcuno manifesti nella coscienza abituale una cosa qualsiasi, non è ancora necessario che egli senta ciò che manifesta. Dopo la morte noi non sperimentiamo soltanto gli effetti di quello che vi è nella nostra coscienza superficiale, nella nostra coscienza egoica. Chi così credesse, considererebbe del tutto falsamente le condizioni del dopo morte.

Abbiamo spesso sottolineato che l’uomo, con la morte, elimina sì il corpo fisico e quello eterico, ma che rimangono desideri, aspirazioni e così via. E non rimangono soltanto i desideri e le aspirazioni dei quali si sa qualcosa, ma anche quelli che sono nel subcosciente e dei quali nulla si sa, quelli che magari si sono combattuti e contro i quali si è imprecato. Dopo la morte questi sono spesso molto più forti e intensi di quanto non fossero in vita.

 

Nella vita si manifesta una certa disarmonia fra il corpo astrale e l’io

in un sentirsi desolati, insoddisfatti e così via.

Dopo la morte proprio la coscienza astrale attribuisce all’anima umana

tutto il carattere, tutta l’impronta di come l’uomo è.

Ciò che viviamo nella coscienza superficiale

non è altrettanto importante quanto tutti i desideri nascosti,

le passioni e le brame esistenti nelle profondità dell’anima e dei quali spesso l’io nulla sa.

 

Immaginiamo dunque che passi la porta della morte l’uomo che denigrava l’antroposofia poiché il suo amico era diventato antroposofo. Quell’aspirazione che si era formata forse appunto perché egli aveva ingiuriato l’antroposofìa, si fa ora valere e diventa un intimo desiderio verso l’antroposofia stessa. Un tale desiderio dovrebbe rimanere insoddisfatto poiché non potrebbe verificarsi che quell’uomo, dopo la morte, avesse da solo la possibilità di soddisfare il suo desiderio. Ma in un caso simile, attraverso questo concatenamento di circostanze, chi è rimasto sulla terra può aiutare l’altro, e cambiare qualcosa nella sua situazione. E qui si verifica il caso che è stato osservato in numerosi esempi anche nelle nostre file.

 

Noi possiamo per esempio leggere ai morti. Ciò viene fatto in maniera da formarsi la vivente rappresentazione che il defunto sia davanti a noi: ci si rappresentano press’a poco i suoi lineamenti e col pensiero si percorre per esempio il contenuto di un libro antroposofico. Basta farlo soltanto in pensieri; questo agisce in modo immediato su chi è passato attraverso la porta della morte. E fino a che egli si trova ancora nel periodo del kamaloca, anche la lingua non è un impedimento; lo sarà soltanto quando sarà nel devachan. Di conseguenza non potrà venir posta la domanda: «Il morto comprende dunque il linguaggio?». Durante il periodo del kamaloca vi è ancora senz’altro una sensazione per il linguaggio. In tale modo attivo si può dunque dare un aiuto a chi ha passato la porta della morte. Ciò che così fluisce dal piano fisico è qualcosa che può apportare una modificazione nelle condizioni della vita fra la morte e una nuova nascita, qualcosa che può venir dato al defunto soltanto dal mondo fisico, e che non gli può invece venir dato direttamente dal mondo spirituale.

 

Da questo vediamo che l’antroposofia, quando essa si inserisca veramente nei cuori degli uomini, supererà davvero l’abisso fra il mondo fisico e quello spirituale; sarà questo l’effetto vitale, il grande valore di vita dell’antroposofia. L’antroposofia è in realtà soltanto all’inizio del suo agire, quando se ne veda l’importanza soltanto nell’appropriarsi di determinati concetti o idee antroposofici, nel vedere come per esempio sia costituito l’uomo o che cosa gli possa venire dal mondo spirituale.

 

Soltanto quando si sappia come l’antroposofia agisce nella nostra vita,

essa potrà costruire il ponte fra il mondo fisico e quello spirituale, costruirlo praticamente.

• Allora non ci comporteremo soltanto passivamente

verso quelli che sono passati attraverso la porta della morte,

ma ci comporteremo attivamente verso di loro,

saremo con loro in un vivente rapporto e potremo aiutarli.

 

Per questo l’antroposofìa deve però vivere nella coscienza

che tutto il nostro mondo è composto di esistenza fisica e soprafisica, spirituale,

e che l’uomo non è sulla terra soltanto per raccogliere per se stesso,

durante la vita fra nascita e morte, i frutti della vita fisica,

ma che egli è sulla terra per inviare nel mondo soprafisico

ciò che può venir coltivato soltanto sul piano fisico, che esiste soltanto qui, su questo piano.

Se qualcuno, per una giusta ragione oppure, diciamo anche, per comodità,

è rimasto lontano dalla concezione antroposofica,

noi possiamo portargli dopo la morte appunto tale concezione nel modo descritto.

 

A questo punto potrebbe darsi che qualcuno ponga la domanda: « Forse così facendo si disturba il defunto, forse egli non ne vuole sapere? ». La domanda non è del tutto giustificata per la ragione che gli uomini del presente, nel loro subcosciente, non sono poi così straordinariamente contrari all’antroposofìa.

Nel loro subcosciente essi non hanno propriamente nulla in contrario; se noi potessimo avvicinarci al subcosciente di quelli che, nella loro coscienza ordinaria, tuonano contro l’antroposofia, se potessimo avvicinarci in modo che dicesse la sua anche il subcosciente, non vi sarebbe alcuna avversione contro l’antroposofia.

 

L’uomo è pieno di pregiudizi ed è parziale contro il mondo spirituale

soltanto nella sua coscienza dell’io,

soltanto in quello che agisce sul piano fisico quale coscienza dell’io.

 

In questo modo abbiamo imparato a conoscere un aspetto delle relazioni esistenti fra mondo fisico e mondo spirituale. Ma possiamo anche porre la domanda: « È possibile pure dall’altro lato una comunicazione verso il mondo fisico? ». Vale a dire: « Chi è passato attraverso la porta della morte può in un certo senso, in un modo qualsiasi, manifestarsi a chi è rimasto sul piano fisico? ».

Oggi ciò avviene in misura minima, e precisamente per la ragione che gli uomini, sul piano fisico, vivono principalmente soltanto nella loro coscienza dell’io e non si immergono nella coscienza che è legata al corpo astrale. Né è facile suscitare un’immagine, una rappresentazione, di come a poco a poco, se l’antroposofia si svilupperà sempre più entro l’evoluzione dell’umanità, gli uomini conquisteranno una coscienza di ciò che vi è attorno a loro, quale mondo astrale, mondo devachanico o mondo spirituale in generale. Ma questo verrà.

 

Soltanto per il fatto che l’uomo fa attenzione

a quello che l’antroposofia può dargli mediante i suoi insegnamenti,

egli troverà i mezzi e le vie per rompere il mondo del puro piano fisico

e per indirizzare la propria attenzione al mondo che vi è attorno a lui

e che gli sfugge soltanto perché non è attento al mondo spirituale.

Come possiamo trovare i mezzi e le vie per divenire attenti al mondo spirituale?

 

Oggi desidero suscitare in voi la rappresentazione di come, in un primo tempo, l’uomo possa conoscere quanto poco in verità egli propriamente sappia e conosca delle cose del mondo che lo circonda.

L’uomo in realtà conosce stranamente poco di importante del mondo.

 

Mediante i suoi sensi e il suo intelletto egli conosce i fatti abituali nei quali è inserito. Impara a conoscere quello che avviene davanti a lui e in lui stesso, collega poi il tutto e definisce una cosa causa, e l’altra effetto; crede quindi di conoscere i fenomeni quando può collegarli secondo causa ed effetto, oppure in base ad altri concetti.

Per esempio noi usciamo dalla nostra abitazione alla mattina alle otto, camminiamo per la strada, andiamo quindi al nostro posto di lavoro, mangiamo durante il giorno, facciamo diverse altre cose per nostro divertimento; facciamo tutto questo, fino a quando rientriamo di nuovo nel sonno. Colleghiamo quindi queste cose nella nostra vita: l’una produce su di noi una impressione più forte, l’altra una più debole. In questo modo noi sperimentiamo anche delle impressioni animiche: una cosa ci è simpatica, un’altra antipatica.

 

Viviamo così, e può insegnarcelo una semplice riflessione, come se nuotassimo sulla superficie del mare,

ma senza avere nessunissima idea di quello che vi sia sul fondo del mare.

Viviamo cioè la nostra vita, ma impariamo a conoscere

soltanto quello che esteriormente passa davanti a noi come realtà.

In quello che però scorre davanti a noi è nascosto un numero enorme di cose.

 

Facciamone un esempio. Noi dovremmo uscire ogni giorno dalla nostra stanza alle otto per andare al luogo del nostro lavoro. Un giorno però usciamo tre minuti più tardi. Anche questa volta sperimentiamo qualcosa: arriviamo con tre minuti di ritardo e ci comportiamo poi come al solito, come quando usciamo da casa alle otto.

A volte però ci capita di constatare che, se fossimo stati per la strada alle otto, saremmo forse stati investiti da una automobile e saremmo stati uccisi. In questo caso ciò significa che, se fossimo usciti sulla strada alle otto, ora più non vivremmo. Oppure un’altra volta possiamo stabilire che ebbe un incidente proprio il treno che noi intendevamo prendere, tanto da poter calcolare che anche noi saremmo stati coinvolti. In questo caso risulta ancora più evidente quello che ho appena detto. Noi badiamo soltanto a quello che avviene e non a quello che continuamente potrebbe avvenire e al quale sfuggiamo. Noi sfuggiamo continuamente a cose che potrebbero capitarci; la sfera delle possibilità è infinitamente grande in confronto a ciò che realmente avviene.

 

Certo possiamo dire che per la nostra vita esteriore tutto questo non ha importanza. Non ne ha infatti per la vita esteriore, ma ne ha invece per quella interiore. Immaginate di aver fatto l’esperienza di aver già acquistato un biglietto per il transatlantico « Titanic », e che poi un amico vi abbia sconsigliato di partire; voi avete venduto il biglietto e sentite poi della catastrofe. Avreste allora la medesima esperienza animica che se foste un osservatore disinteressato? Piuttosto, non farebbe ciò un’impressione straordinaria-mente importante sulla vostra anima?

Se appunto sapessimo da quante cose noi veniamo preservati nel mondo, quante cose sono possibili in senso buono e cattivo, per le quali urgono delle forze che non si concretano soltanto grazie ad un indugio, ad uno spostamento, allora noi avremmo una sensibilità per le esperienze animiche della gioia e del dolore, per esperienze corporee che ci sarebbero possibili, ma che noi non sperimentiamo, che non sperimentiamo affatto.

 

Chi, fra tutti coloro che siedono in questa sala, può sapere che cosa avrebbe sperimentato se per esempio questa sera la conferenza fosse stata disdetta, ed egli fosse andato altrove? Ma se lo sapesse, potrebbe darsi che da tale conoscenza egli ricavasse un tutt’altro interiore atteggiamento animico di quello che ha ora; e proprio perché non conosce quello che sarebbe potuto avvenire.

Tutto ciò che così sarebbe possibile, ma che non si realizza sul piano fisico, vive come forze, come effetti, dietro il nostro mondo fisico, in quello spirituale; sono forze là esistenti che per così dire compenetrano il mondo spirituale.

 

Si avventano su di noi non soltanto le forze che in realtà qui ci determinano, ma anche le forze, incommensurabilmente numerose, che esistono soltanto come possibilità; solo raramente qualcosa di tali possibilità penetra nella nostra coscienza fisica. Di regola è però allora anche un incentivo per una significativa esperienza animica.

E non dite che quello che ora è stato esposto, e cioè che esiste un mondo infinito di possibilità, che per esempio la conferenza di questa sera poteva essere disdetta e che chi siede qui avrebbe potuto sperimentare qualcosa di diverso, non dite che tutto questo sia in contrasto con il karma. Non è in contrasto. Se lo si affermasse non si saprebbe che l’idea del karma, come noi l’abbiamo esposta, vale soltanto per il mondo delle realtà entro la vita umana fisica, che la vita dello spirito compenetra e vivifica la nostra vita fisica, e che esiste un mondo delle possibilità nel quale le leggi, che ora giocano quali leggi karmiche, sono di tutt’altra natura.

 

Se ci compenetriamo un poco del sentimento

che il mondo delle realtà fisiche è soltanto una piccola parte di quanto possiamo sperimentare,

che il nostro mondo delle esperienze è soltanto un ritaglio delle esperienze possibili,

allora ciò può avvicinarci all’enorme ricchezza,

allo sfavillio della vita spirituale che si trova dietro la nostra vita fisica.

 

Ora può avvenire che davvero una persona possa prestare attenzione a quel mondo delle possibilità, un po’ coi suoi pensieri, oppure neppure coi suoi pensieri, ma col suo sentimento. Egli può per esempio sperimentare di aver perduto un treno nel cui disastro sarebbe probabilmente morto. Questo, quando ci sta davanti agli occhi, può essere un momento che fa nell’anima una profonda impressione. Tali momenti sono adatti per aprirci, in un certo senso, verso il mondo spirituale, sono momenti in cui possiamo avere dei presentimenti. Simili momenti, in qualche modo legati a noi, possono annunciarci anche desideri o pensieri esistenti nelle anime che vivono fra la morte e la nuova nascita.

 

Quando l’antroposofia renderà vivente negli uomini il sentimento per le diverse possibilità della vita, per determinati avvenimenti o scosse che non si sono verificati soltanto perché qualcosa, per cui esistevano le forze, non è giunto a realizzarsi, quando si sentirà ciò, quando l’anima farà attenzione ad un tale sentimento, allora essa sarà veramente adatta a percepire, dal mondo spirituale, esperienze provenienti da persone con le quali essa era in relazione nel mondo fisico.

Anche se l’uomo, durante la turbolenta vita di tutti i giorni, non è in genere disposto ad abbandonarsi ai sentimenti di quello che sarebbe potuto accadere, pure nella vita umana esistono dei momenti in cui ciò che sarebbe potuto accadere agisce in modo determinante sull’anima umana.

 

Se voi osservaste con precisione la vita di sogno, oppure la caratteristica vita nel momento di passaggio dalla veglia al sonno o dal sonno alla veglia, se osservaste con maggior precisione alcuni sogni che a volte sono del tutto inspiegabili, nei quali vi appare questa o quella cosa davanti all’anima in un’immagine di sogno o in una visione, se l’anima seguisse tutto ciò, essa troverebbe che tali immagini inspiegabili sono qualcosa che sarebbe potuto accadere e che non si è verificato soltanto perché sono intervenute altre condizioni diverse da quelle che si sarebbero potute realizzare, oppure perché sono intervenuti altri impedimenti qualsiasi.

 

Chi rende mobile la sua vita di rappresentazione mediante le meditazioni o in altro modo, costui, anche se non in pensieri nettamente espressi, ma in base soltanto al sentimento, avrà nella vita di veglia dei momenti nei quali sente di vivere immerso in un mondo di possibilità. Quando si sviluppi un tale sentimento, ci si prepara a ricevere impressioni dal mondo spirituale, appunto da parte di quelle persone che erano legate a noi nel mondo fisico. Allora, anche nei momenti che sono stati caratterizzati, si verificano degli influssi, delle esperienze di sogno che hanno però un reale significato, che rinviano a qualcosa di reale nel mondo spirituale.

 

Proprio perché l’antroposofia ci insegna che qui nella vita fra nascita e morte vi è il karma, essa ci mostra che, in qualsiasi posto siamo, noi ci troviamo dinanzi ad un numero infinito di possibilità che potrebbero realizzarsi. Una viene scelta secondo la legge del karma; le altre rimangono sullo sfondo e ci circondano come una reale aura cosmica. Più noi crediamo al karma, più crediamo anche a questa reale aura cosmica; essa ci circonda con le sue forze che si radunano, ma che in un certo senso vengono poi anche spostate, in modo che sul piano fisico esse a nulla conducono.

Se, appunto mediante l’antroposofia, tali cose si infiltrano nella nostra anima, influenzandola, allora l’antroposofia sarà un mezzo educativo per l’uomo, affinché egli accolga anche impressioni e influssi dai mondi spirituali.

 

Quando cioè l’antroposofia eserciterà un influsso sulla vita culturale e spirituale, allora non soltanto andranno dalla vita fisica in quella spirituale gli influssi che prima abbiamo descritti, bensì ritorneranno a noi anche le esperienze che i trapassati hanno nel tempo che essi trascorrono fra morte e nuova nascita. Anche qui verrà così eliminato l’abisso tra il mondo fisico e quello spirituale. In tal modo si determinerà un enorme allargamento della vita umana, e lo si determinerà grazie a quello che l’antroposofia può creare, vale a dire una reale unione fra i due mondi, e non soltanto la comprensione teorica che esiste un mondo spirituale.

 

È assolutamente necessario comprendere che l’antroposofia avrà integralmente assolto il suo compito

se essa compenetrerà in modo vivo le anime umane e se noi, attraverso lei,

non soltanto capiremo qualcosa, ma diventeremo del tutto diversi in ogni nostro atteggiamento

e nelle nostre relazioni verso il mondo che ci circonda.

 

Grazie ai pregiudizi della nostra epoca, l’uomo pensa in modo troppo materialistico.

Anche se spesso crede ad un mondo spirituale, egli pensa troppo materialisticamente.

• Gli è perciò straordinariamente difficile, nell’epoca attuale, comprendere la giusta relazione

tra l’elemento animico e quello corporeo.

• Le abitudini di pensiero tendono molto a farci pensare l’elemento animico

troppo strettamente legato a quello corporeo.

 

Qui potrà forse esserci di aiuto soltanto un paragone, per comprendere quello che propriamente dobbiamo capire.

Se noi guardiamo un orologio, esso consiste di ruote, di altre parti metalliche e di cose simili. Ma nella vita di tutti i giorni, nella quale noi ci serviamo di un orologio, ne guardiamo noi mai uno, per studiarne il meccanismo o l’intersecarsi delle ruote? No, noi guardiamo l’orologio per sapere che ora è. Ma questo non ha niente a che fare con le diverse parti metalliche o con cose simili. Infatti, che rapporto esiste fra il tempo e le parti metalliche? Noi guardiamo l’orologio e non ci preoccupiamo per nulla di quello che si svolge nell’orologio stesso.

 

Oppure prendiamo un altro esempio come paragone. Se oggi si parla di telegrafare, si hanno principalmente presenti i telegrafi elettrici. Quando però non si avevano ancora i telegrafi elettrici, si telegrafava ugualmente. Se infatti si conoscessero i segni giusti e quant’altro occorre, si riuscirebbe a parlare da un luogo ad un altro, anche senza telegrafo elettrico, e magari neppure in un tempo molto più lungo. Si pongano per esempio delle colonne da Berlino a Parigi, con un uomo ad ogni colonna che ricomunichi al successivo i segni corrispondenti. Se ciò avviene con la necessaria velocità, si verifica esattamente la stessa cosa che avviene grazie ai telegrafi elettrici. Certo con i telegrafi elettrici è più semplice e più veloce; ma quello che avviene, cioè il telegrafare, non ha minimamente a che fare con i dispositivi di un telegrafo elettrico. Così poco, quanto il tempo con il meccanismo interno di un orologio.

 

Così come la comunicazione da Berlino a Parigi ha poco da fare con il dispositivo del telegrafo elettrico, altrettanto poco l’anima umana ha a che fare con l’organizzazione del corpo umano. Soltanto se pensiamo così abbiamo una giusta idea dell’indipendenza dell’elemento animico. Potrebbe infatti senz’altro essere che l’anima umana, con tutto quello che ha in sé, si servisse di un altro corpo, di un corpo altrimenti organizzato, così come si potrebbe trasmettere una comunicazione da Berlino a Parigi attraverso qualcosa d’altro che non appunto attraverso il dispositivo di un telegrafo elettrico.

E come il telegrafo elettrico è soltanto il modo più comodo, nelle nostre condizioni, per trasmettere una notizia, così anche il corpo, oscillante sulle gambe e con in cima una testa, è il mezzo più comodo per le nostre condizioni terrestri, affinché l’anima possa vivere, possa esprimersi.

 

Ma non si verifica assolutamente il caso che il corpo abbia maggiormente a che fare con la vita animica, di quanto il telegrafo elettrico, con i suoi dispositivi, abbia a che fare con la trasmissione di una notizia da Parigi a Berlino, o di quanto un orologio abbia a che fare con il tempo. Per misurare il tempo, si potrebbe infatti escogitare uno strumento del tutto diverso dai nostri orologi. Allo stesso modo è pensabile un corpo umano del tutto diverso da quello di cui usufruiamo in base alle attuali condizioni terrestri, al fine di lasciar estrinsecare le condizioni animiche umane. Infatti, da che cosa dipende l’anima umana? come dobbiamo concepire propriamente l’anima umana nella sua relazione con il corpo?

 

Proprio in questo campo si vorrebbe accennare al detto di Schiller, applicato in un’immagine anche all’uomo: « Se cerchi le cose più elevate, le migliori, la pianta può insegnartele ». Si osservi una pianta: essa di giorno distende le foglie, apre i fiori, e quando la luce scompare richiude foglie e fiori. Che cosa le è tolto? Le è tolto quello che durante il giorno le proviene dal sole, dallo spazio stellare. Quello che agisce provenendo dal sole fa sì che le foglie accartocciatesi si ridistendano, che i fiori si riaprano.

 

Fuori, nello spazio cosmico, vi sono cioè le forze che fanno afflosciare gli organi della pianta, oppure che li fanno distendere, quando sono attive. A ciò che è diffuso nello spazio cosmico e che fa afflosciare le parti della pianta, quando si ritrae dalla pianta stessa, corrispondono nell’uomo io e corpo astrale. Quando l’uomo distende le sue membra, quando lascia cadere le sue palpebre, allo stesso modo in cui la pianta ritrae foglie e fiori? Quando l’io e il corpo astrale escono dall’entità umana. Quello che il sole fa nella pianta, fanno l’io e il corpo astrale negli organi della natura umana. Possiamo quindi dire che come il corpo della pianta deve mirare al sole, così il corpo dell’uomo deve guardare al proprio io e al proprio corpo astrale, e considerarli ciò che su di esso fa la medesima impressione del sole sulla pianta.

 

Se lo pensate solo esteriormente, troverete voi ancora da meravigliarvi se ora l’osservazione occulta ci insegna che in realtà l’io e il corpo astrale provengono dallo spazio cosmico, al quale pure il sole appartiene, e non sono per nulla cose della terra? In base dunque alle osservazioni già fatte, non vi meraviglierete ora neppure che quando gli uomini, nel sonno o dopo la morte, si allontanano dalla terra, sperimentano le grandi condizioni cosmiche, sono nel cosmo. La pianta è appunto ancora legata al sole e alle forze che sono nello spazio. L’io e il corpo astrale dell’uomo si sono resi indipendenti nei confronti delle forze diffuse nello spazio, e vanno per la loro strada.

Di conseguenza la pianta può dormire soltanto quando veramente le viene tolta la luce del sole.

 

In relazione al suo io e al suo corpo astrale, l’uomo è invece indipendente dalla sua patria, dal sole e dai pianeti, e di conseguenza egli può anche dormire durante il giorno, quando risplende il sole. Nel suo io e nel suo corpo astrale egli si è reso libero da ciò con cui egli è propriamente una cosa sola, dalle forze stellari e solari. Non è quindi grottesco se diciamo che quanto dopo la morte rimane sulla terra e si scompone negli elementi di questa, appartiene alla terra e alle sue forze; l’io e il corpo astrale invece appartengono alle grandi forze cosmiche; con la morte dell’uomo ritornano a tali forze, ed entro di esse vivono e attraversano la vita fra morte e nuova nascita.

 

Durante il periodo fra nascita e morte, mentre l’anima è qui inserita in un corpo fisico, la nostra vita animica, che propriamente fa parte della vita solare e stellare, non ha a che fare col corpo fisico più di quanto il tempo, in sostanza anch’esso determinato da costellazioni solari e stellari, non abbia a che fare con l’orologio, il suo meccanismo e le sue ruotine. Sarebbe senz’altro pensabile che, se vivessimo su di un altro pianeta invece che sulla terra, noi ci adatteremmo con la nostra stessa anima a quelle tutt’altre condizioni planetarie.

Che noi abbiamo occhi, conformati in questo modo, che noi abbiamo le orecchie quali esse sono formate, non dipende dalle condizioni animiche, ma dalle condizioni della terra, dalle condizioni terrestri. Noi adoperiamo soltanto questi organi. Il farci compenetrare dalla coscienza di appartenere al mondo stellare col nostro elemento animico, ci dà appunto le prime nozioni sulla nostra vera condizione umana, sulla nostra vera entità umana.

 

Se sappiamo questo, noi sappiamo anche comportarci nel giusto modo riguardo alle nostre condizioni qui sulla terra. Se quindi si compenetra in tal modo, vorrei quasi dire, la relazione più o meno esteriore dell’uomo col suo corpo fisico e il suo corpo eterico, l’uomo acquisterà sicurezza. Egli allora non si riconoscerà soltanto come essere terreno, ma saprà di appartenere a tutto l’universo, a tutto il macrocosmo, saprà di essere un’entità inserita nel macrocosmo. L’uomo non è cosciente di essere parte delle forze del grande spazio cosmico, soltanto perché qui è legato al suo corpo.

 

Nel corso dei tempi si cercò sempre di fare questo, là dove veniva approfondita la vita spirituale; questo si cercava di far penetrare anche nelle anime. In realtà soltanto negli ultimi quattro secoli è andata perduta la coscienza del legame dell’uomo con le forze spirituali che tessono e dominano nello spazio cosmico.

 

Consideriamo di nuovo quello che abbiamo sempre sottolineato, e cioè che noi dobbiamo vedere nel Cristo il grande essere solare che, attraverso il mistero del Golgota, si è unito con la terra e le sue forze, in modo che l’uomo possa accogliere in sé la forza del Cristo sulla terra; allora, compenetrandosi con l’impulso del Cristo, si avrà in pari tempo ciò che esiste nei grandi impulsi del macrocosmo, e per ogni ciclo dell’umanità sarà giusto vedere nel Cristo l’essere che ci può dare il sentimento del nostro legame col macrocosmo.