Coscienza dell’uomo e Bodhisattva

O.O. 116 – L’Impulso-Cristo e la coscienza dell’Io – 25.10.1909


 

Mi preme oggi parlare, in occasione dell’Assemblea Generale, su di un argomento particolarmente elevato ed importante per l’umanità. Se generalmente, nelle nostre conferenze, ci sforziamo di porre delle fondamenta sul piano fisico, oggi vorremmo parlare di cose che riguardano i mondi superiori. Mi si consenta ancora di premettere che noi dovremmo abituarci a parlare anche sulle questioni più elevate, poiché non pos siamo accontentarci di una unilaterale descrizione dei dati provenienti dal mondo superiore. Prendiamo, per esempio, il concetto di Bodhisattva, di cui oggi tratteremo: di solito esso viene definito dapprima per linee generali e successivamente precisato in base alla missione che caratterizza i Bodhisattva stessi; noi invece vogliamo abituarci, anche in questo caso, a passare dall’astratto al concreto, cercando di penetrare in un argomento così solenne mediante quei pensieri e quei sentimenti che ci derivano da una fondamentale e amorevole considerazione della vita, onde accogliere le cose non soltanto come una mera comunicazione ma, fin dove è possibile, con una vera comprensione. Perciò vorrei, con queste considerazioni, portarmi più in alto e pormi come obiettivo, oltre la mera rappresentazione schematica, di caratterizzare il concetto di Bodhisattva ed il suo cammino nel mondo.

 

Che cosa sia un Bodhisattva in fondo non lo possiamo comprendere se non ci immergiamo in qualche misura nel processo dell’evoluzione umana e se non lasciamo che si presenti davanti a noi ciò che abbiamo ascoltato nel corso degli anni. Si prenda ad esempio il modo in cui l’umanità progredisce. Dopo la grande catastrofe atlantidea l’umanità ha vissuto un periodo caratterizzato dalla civiltà paleoindiana, in cui i grandi Rishi erano i maestri dell’umanità. Seguirono poi l’epoca paleopersiana, quella egizio-caldaica, la greco-latina, fino alla nostra epoca, la quinta postatlantidea. Tali epoche indicano il progredire dell’umanità da una forma di vita all’altra.

 

Infatti progredisce non soltanto ciò che viene abitualmente descritto nella storia esteriore ma, ove si tengano presenti spazi temporali più lunghi, si nota che tutti i sentimenti e le sensazioni, tutti i concetti e le idee, mutano e si rinnovano nel corso dell’evoluzione umana. Che senso avrebbe rappresentare l’idea della reincarnazione se si ignorasse che la reincarnazione esiste nel mondo? Perché mai la nostra anima dovrebbe entrare continuamente in un corpo fisico senza avere ogni volta non sol – tanto qualcosa di nuovo da sperimentare, ma anche da sperimentare attraverso sensazioni e sentimenti? Sia le facoltà dell’uomo che la vita intima dell’anima si rinnovano e mutano continuamente. Per questi motivi la nostra anima ha la possibilità di non limitarsi soltanto a salire una scala gradino per gradino, ma di avere continuamente l’opportunità di assumere in sé il nuovo che proviene dall’esterno, grazie al mutarsi dei rapporti vitali della nostra Terra. La nostra anima è condotta da un’incarnazione all’altra non soltanto a causa dei suoi errori e peccati karmici, ma anche dal fatto che la Terra, mutandosi in tutti i suoi rapporti vitali, opera in modo che la nostra anima possa assumere continuamente, anche dall’esterno, il nuovo. Così l’anima progredisce da un’incarnazione all’altra, ma anche da un ciclo di cultura all’altro.

 

Ma quest’anima non potrebbe progredire e svilupparsi se quegli esseri, che hanno già raggiunto un più elevato sviluppo (e perciò superano di un certo grado lo sviluppo medio dell’umanità) non si preoccupassero di far continuamente affluire il nuovo nella nostra cultura terrena, ovvero se quei grandi maestri non operassero in modo tale da assumere ed interiorizzare le esperienze provenienti dai mondi superiori attraverso il loro più elevato grado di sviluppo, e se non fossero capaci di immettere tali esperienze nello scenario della vita culturale terrena. Questi esseri, che in un certo senso furono i maestri dell’altra umanità, sono stati sempre presenti nella storia della evoluzione del mondo. Oggi parleremo soltanto dello sviluppo postatlantideo. Solo chiarendoci il modo di procedere dell’umanità possiamo comprendere l’entità di tali maestri.

 

Ieri ed oggi avete udito il nostro caro dr. Unger parlare in maniera filosofica e gnoseologica nelle sue due eccellenti conferenze sull’« Io » e sul suo rapporto con il « Non-Io ». Credete dunque che ciò che avete udito ieri ed oggi da labbra e pensiero d’uomo l’avreste potuto udire in questa stessa forma 2500 anni fa? In nessun luogo della nostra Terra sarebbe stato allora possibile parlare per esempio dell’Io nella forma del puro pensare. Supponiamo che una individualità qualsiasi si fosse voluta incarnare nella nostra esistenza terrena e si fosse prefissa, prima di incarnarsi, di parlare dell’Io in questa particolare forma che avete inteso: non avrebbe potuto farlo! Giudica male infatti l’effettivo procedere delle civiltà e delle loro trasformazioni, chi crede che labbra d’uomo avrebbero potuto proferire tali cose in questa forma 2500 anni fa. Perché ciò sia possibile è necessaria non soltanto un’individualità che si prefigga di incarnarsi in un corpo umano ma anche che la nostra Terra, nel suo sviluppo, provveda un corpo umano di un cervello così predisposto che le verità, presenti nei mondi superiori in tutt’altro modo, possano formare al suo interno ciò che chiamiamo pensieri puri. Chiamiamo infatti forma dei puri pensieri quella in cui, ieri ed oggi, il dr. Unger ha riferito sull’Io. È del tutto da escludere che 2500 anni fa sarebbe potuto esistere un cervello tale da fungere da strumento per l’accoglimento di simili pensieri.

 

Gli esseri che intendono discendere sulla nostra Terra devono usare i corpi umani che a sua volta l’orbe terrestre stesso produce. La nostra Terra ha però prodotto, nel corso delle varie civiltà, corpi sempre diversi, con organizzazioni ugualmente diverse; solo nel nostro quinto periodo di cultura postatlantideo è diventato possibile parlare nella forma del pensiero puro, perché il genere umano stesso ha prodotto i corpi in cui possono plasmarsi i pensieri puri. Perfino nel periodo greco-latino non sarebbe stata possibile una tale attitudine gnoseologica, dal momento che allora mancava uno strumento per formare questi pensieri nel linguaggio accessibile all’intelletto umano. Questo è proprio il compito del nostro quinto periodo di cultura: plasmare come strumento, passo dopo passo, l’uomo in relazione alla sua organizzazione fisica, in modo tale che possano affluire in pensieri sempre più puri anche quelle verità che in altri periodi venivano racchiuse in forme del tutto diverse.

 

Prendiamo un altro esempio. Quando oggi l’uomo affronta la questione del bene e del male, oppure deve scegliere un determinato comportamento, egli ne parla seguendo una voce interiore che, del tutto autonoma rispetto ad una legge esteriore, gli dice: è bene che tu faccia questo, non è bene che tu faccia quello! Chi presta ascolto alla voce interiore percepisce in essa un determinato impulso, una sollecitazione a compiere in un dato caso una certa azione ed a tralasciarne un’altra. Chiamiamo « coscienza » questa voce interiore. Chi è dunque dell’avviso che i vari periodi dell’evoluzione dell’umanità molto si rassomiglino, potrebbe credere che, da quando gli uomini sono sulla Terra, sia sempre esistita una coscienza. Ma ciò non sarebbe esatto. Si può, per così dire, provare storicamente che gli uomini, ad un certo punto, hanno cominciato a parlare della coscienza. Questo momento lo si può toccare con mano: si situa tra i due tragici greci Eschilo ed Euripide, nati rispettivamente nel VI e V secolo a.C. Prima di allora non troverete menzione alcuna della coscienza. In Eschilo non v’è nemmeno ciò che noi chiamiamo « voce interiore », piuttosto una manifestazione figurata di carattere astrale riferita all’uomo: compaiono manifestazioni che si avvicinano all’uomo come esseri vendicativi, le Furie o Erinni. Solo successivamente subentrò il momento in cui la percezione astrale delle Furie venne sostituita dalla voce interiore della coscienza.

 

Ancora nel periodo greco-latino era diffusa presso gran parte degli uomini una percezione crepuscolare di carattere astrale: chi aveva commesso un’ingiustizia poteva percepire come ogni ingiustizia creasse delle figure astrali intorno a lui che lo riempivano di angoscia e terrore. Tali figure erano allora educatrici, questo era l’impulso. E quando gli uomini persero gli ultimi residui della chiaroveggenza astrale, questa visione fu sostituita dalla voce invisibile della coscienza: ciò che prima era fuori entrò quindi nell’anima per divenire una delle sue forze. Ciò è avvenuto perché nel corso del suo sviluppo l’umanità è cambiata; perché è cambiato lo strumento esterno in cui l’uomo si incarna. Mai un’anima umana avrebbe potuto percepire la voce della coscienza 5000 anni fa. Nel caso avesse commesso qualcosa di ingiusto, essa avrebbe percepito le Furie. E’ così che l’anima apprese, allora, a stabilire un rapporto col bene e col male. In seguito attraversò sempre nuove incarnazioni, finché nacque in un corpo la cui organizzazione era tale da permettere alla facoltà della coscienza di manifestarsi. In un futuro ciclo dell’umanità si presenteranno nuovamente altre forze e forme vitali dell’anima, destinate anch’esse ad esaurirsi.

 

Ho già più volte sottolineato che chi comprende veramente la scienza dello Spirito, senza assumere posizioni dogmatiche, non può credere che la forma in cui questa viene oggi espressa sia eterna e rimanga inalterata per tutta l’umanità futura. Non è così! Fra 2500 anni le stesse verità non potranno più essere annunciate in queste forme, saranno bensì coniate in altre forme a seconda dello strumento a disposizione. Considerando ciò, vi renderete conto che in ogni età si deve parlare agli uomini in maniera diversa e che anche i grandi maestri dell’umanità devono passare attraverso fasi di sviluppo: da un ciclo all’altro, da una età della vita all’altra. Così troviamo i cicli percorsi dall’umanità e contemporaneamente, ad un livello superiore, un progressivo sviluppo dei grandi maestri dell’umanità. E come l’uomo, passando attraverso determinati gradi giunge, per così dire, a punti di svolta, così anche questi grandi maestri vi pervengono attraverso determinati gradi di sviluppo.

 

Pensate soltanto a ciò che è stato detto più volte: viviamo ora nella quinta epoca postatlantidea. Questa quinta epoca è, per un certo riguardo, la ripetizione della terza, quella egizio-caldaica. Nello stesso modo, la sesta sarà una ripetizione di quella paleopersiana e la settima di quella paleoindiana. In tal modo si sovrappongono i cicli. La quarta epoca, trovandosi nella posizione mediana è, per così dire, a sé stante: non avrà una sua ripetizione. Che cosa significa ciò? Significa che gli uomini hanno vissuto quanto percorso nell’età greco-latina soltanto una volta, in un solo periodo di cultura: non nel senso che essi vi si sarebbero incarnati una sola volta, ma che lo hanno vissuto in una forma soltanto. Ciò che invece era stato vissuto nell’epoca egizio-caldaica viene ripetuto nella nostra, viene cioè vissuto in duplice forma. Ci sono quindi gradi di sviluppo che rappresentano una sorta di punto critico, mentre altre epoche sono tali da assomigliarsi per un certo aspetto: si ripetono non già nella stessa maniera, ma in altra forma. Nel suo sviluppo in epoca postatlantidea, l’uomo attraversa in certo qual modo due serie di incarnazioni che si assomigliano, una nell’epoca indiana e l’altra nella settima epoca di cultura. Lo stesso dicasi per la seconda e sesta e per la terza e quinta epoca. Nel mezzo è situata la quarta, che non ha una sua ripetizione. Che cosa significa ciò? Significa che l’uomo deve percorrere questo periodo soltanto una volta. Non che vi sia per l’uomo, in questo periodo, un’unica incarnazione, ma tutta una serie di incarnazioni che non assomigliano a nessun’altea. In tal modo l’uomo sperimenta un percorso in discesa ed in ascesa. Anche i grandi maestri dell’umanità sperimentano quindi, nel loro sviluppo, un percorso in discesa ed in ascesa, e sono, in determinate epoche, qualcosa di completamente diverso che non in altre.

 

Dato che gli uomini della prima epoca postatlantidea possedevano facoltà del tutto diverse da quelle che avrebbero avute in seguito, essi dovevano perciò essere istruiti in maniera del tutto diversa. Perché nella nostra epoca le saggezze possono, in maniera logica e concisa, rivestirsi anche della forma del pensare puro? Perché oggi, nel retroscena dell’evoluzione terrena, proprio l’anima cosciente, come qualità media dell’umanità, è in fase di evoluzione. Nell’età greco-latina lo era l’anima razionale o affettiva, nel periodo egizio-caldaico l’anima senziente, nella cultura paleopersiana il corpo senziente e nell’antica civiltà indiana il corpo eterico, inteso come fattore di sviluppo delle culture.

 

• Ciò che per noi è l’anima cosciente, per l’uomo della civiltà paleoindiana era il corpo eterico.

Perciò egli aveva un modo del tutto diverso di concepire e di comprendere.

 

Se vi foste presentati ad un indiano con il pensare puro, questi non ne avrebbe compreso assolutamente nulla. Sarebbero stati per lui suoni senza senso. I grandi maestri non potevano insegnare le cose all’indiano antico esponendole oralmente nella forma del pensare puro. Un grande maestro dell’antica India parlava straordinariamente poco; col gradino allora raggiunto dal corpo eterico, infatti, non si aveva ricettività per la parola che abbraccia il pensiero. E’ difficile per il contemporaneo immaginare come sia stato un tale insegnamento. Si parlava straordinariamente poco; era piuttosto la colorazione del suono e la maniera in cui veniva pronunciata una parola che faceva riconoscere all’altra anima ciò che propriamente scorre dal mondo spirituale verso di noi. Ma questa non era la cosa principale. La parola era, per così dire, soltanto il « rintocco », il segno che sancisce un rapporto tra il maestro e l’altro.

 

Nelle età indiane più antiche, la parola non era molto più di un primo rintocco di campana che funge da segnale di inizio. Era il punto di cristallizzazione intorno al quale si tessono indefinibili e tenui correnti spirituali che si trasmettono dal maestro al discepolo. Era determinante non quello che il maestro diceva, ma la qualità della sua anima; al discepolo veniva infatti trasmessa una sorta di ispirazione. Dato che il corpo eterico era particolarmente sviluppato, ci si doveva anche comportare in modo ad esso conforme: si comprendeva molto meglio l’ineffabile — ossia ciò che il maestro era — della parola. Per comprendere infatti la parola, gli uomini si sarebbero dovuti prima preparare attraverso le successive epoche di cultura. Perciò non era necessario che uno di questi grandi maestri dell’India antica avesse un’anima razionale o cosciente particolarmente sviluppata: sarebbe stata, infatti, uno strumento del tutto inutile per il tempo.

 

Un’altra cosa era invece necessaria a questi grandi maestri: doveva, il maestro, essere al di sopra degli altri nello sviluppo del proprio corpo eterico. Se si fosse trovato allo stesso gradino di sviluppo degli altri, non avrebbe potuto influire su di essi in maniera particolare, né avrebbe potuto portare loro notizia e annuncio di un mondo superiore o dare impulsi di progresso. Doveva essere offerto all’uomo, in qualche modo, ciò in cui egli si sarebbe immedesimato in futuro. Il maestro indiano doveva, per così dire, anticipare ciò che gli altri avrebbero potuto accogliere soltanto in epoca paleopersiana. Egli doveva immettere nel corpo eterico ciò che gli uomini comuni avrebbero accolto in epoca paleopersiana attraverso il corpo senziente. Vale a dire, il corpo eterico di un tale maestro non doveva operare come quello degli altri uomini, bensì come il corpo senziente in epoca paleopersiana. Se un chiaroveggente — in senso odierno — si fosse presentato dinanzi a un grande maestro indiano, avrebbe detto: ma che corpo eterico è mai questo? Un tale corpo eterico, infatti, avrebbe avuto l’aspetto di un corpo astrale del successivo periodo paleopersiano.

 

Ma un tale corpo eterico non avrebbe potuto, così senz’altro, operare come un successivo corpo astrale. Ciò non sarebbe potuto avvenire, in quel periodo, attraverso qualche sviluppo anticipatore. Ciò diveniva possibile soltanto per il fatto che effettivamente un essere, già superiore di un gradino agli altri, discendeva e si incarnava in un organismo umano che propriamente non gli si confaceva, a lui inadatto, ma nel quale era entrato soltanto per farsi comprendere dagli altri. Questo essere aveva certamente lo stesso aspetto esteriore degli altri, interiormente era però tutt’altra cosa. Sarebbe stata una completa allucinazione ed un’illusione giudicare una tale individualità secondo l’aspetto esteriore. Mentre nel caso di un uomo ordinario, infatti, l’esteriore corrisponde all’interiore, nel caso di un tale maestro l’esteriore contraddice l’interiore. Abbiamo quindi davanti a noi il dato di fatto di una individualità presente tra il popolo paleoindiano, di una individualità che per se stessa non avrebbe avuto bisogno di abbassarsi, e che tuttavia si è abbassata al gradino corrispondente per poter insegnare agli altri. Si è abbassata di sua volontà, si è incarnata in forma umana, pur essendo tutt’altra cosa. Si tratta dunque di una individualità alla quale non riguarda il destino che l’uomo sperimenta nell’intimo in quanto uomo ordinario.

 

Un tale maestro viveva in un corpo con un destino esteriore, ma non vi partecipava: viveva solamente dentro questo corpo come in una casa. E se il corpo moriva, ciò era per lui un evento del tutto diverso che per gli altri uomini: altrettanto avveniva per la nascita e le esperienze tra nascita e morte. Una tale individualità lavorava, quindi, anche in maniera del tutto diversa all’interno dello strumento umano.

 

Immaginiamo adesso come una tale individualità si servisse del cervello. Anche se allora la percezione avveniva attraverso il corpo astrale, il cervello, organizzato però in maniera diversa, veniva nondimeno utilizzato per osservare, come in uno strumento, le immagini attraverso le quali avveniva, appunto, la percezione. Esistevano, dunque, due tipi di uomini: un tipo che utilizzava il cervello come un comune essere umano ed il maestro che lo utilizzava in modo del tutto diverso, che, anzi, per un determinato aspetto, lo lasciava inutilizzato.

Il grande maestro non aveva bisogno di utilizzare tutte le specificità del cervello. Egli sapeva, per così dire, cose di cui un altro poteva soltanto venire a conoscenza applicando lo strumento del cervello. Ciò che un grande maestro rappresentava non era quindi una effettiva, vera incarnazione di un uomo sulla Terra; era propriamente qualcosa che rappresentava una sorta di doppia natura: una specie di essere spirituale all’interno di una compagine umana.

Tali esseri furono presenti anche nel successivo periodo paleo-persiano, in quello egizio, ecc. Essi, con la loro individualità, si ergevano sempre, in un certo qual modo, al di sopra del grado di quella compagine umana e non si annullavano in essa. In questo modo avevano la possibilità, in quei periodi più antichi, di influire sugli altri uomini. E fu così fino a quando, in epoca greco-latina, non si verificò un importante punto critico nello sviluppo dell’umanità.

 

Nel periodo greco-latino, era in particolar modo l’anima razionale o affettiva che, a poco a poco, iniziava a far germogliare le facoltà interiori. Mentre nel periodo precedente, le cose principali, per così dire, si riversavano nell’uomo soprattutto dall’esterno — come potete vedere dall’esempio delle Furie, figure vendicative che l’uomo aveva intorno a sé, non in sé — nel periodo greco-latino, invece, c’era qualcosa che scaturiva dall’interno per confluire nei grandi maestri. Con ciò erano subentrati, a questo punto, rapporti del tutto nuovi.

 

Precedentemente, quindi, gli esseri discesi dai mondi superiori avevano trovato una situazione tale da poter dire: non abbiamo bisogno di entrare completamente nell’organizzazione umana, perché possiamo operare così come dobbiamo, semplicemente calando dai mondi superiori ciò che l’uomo non è ancora in grado di fare e lasciando che ciò si riversi appunto nell’uomo. A quel tempo l’uomo non poteva offrire nulla ai maestri, se però questi avessero continuato nella loro strategia, sarebbe potuto accadere, dal quarto periodo in poi, che simili individualità, discendendo in una regione qualsiasi, avrebbero trovato sulla Terra qualcosa che lassù non c’era.

 

Finché sulla Terra si vedevano le Vendicatrici, le Erinni,

si poteva fare a meno di ciò che era sulla Terra.

Ma poi apparve in basso qualcosa di completamente nuovo: la coscienza.

In alto non la si conosceva, non vi era possibilità di osservarla.

Era qualcosa di nuovo che veniva incontro a coloro che erano lassù.

 

In altre parole: nella quarta epoca postatlantidea subentrò la necessità

che i maestri discendessero effettivamente fino al gradino dell’umanità

e imparassero a conoscere, all’interno di questo gradino,

ciò che dalla stessa anima umana pulsa verso l’alto: verso il mondo spirituale.

Iniziò quindi allora il periodo in cui non fu più possibile rifiutarsi di essere partecipi delle facoltà umane.

 

Contempliamo adesso quell’essere particolare che chiamiamo, nella sua incarnazione terrena, Gotamo Buddha.

Gotamo Buddha era stato precedentemente un essere che aveva potuto vivere in modo tale da potersi sempre incarnare nei corpi terreni dei rispettivi periodi di cultura, senza pretendere di utilizzare tutto della compagine umana. Questo essere non aveva bisogno di continuare a vivere incarnazioni umane reali.

Proprio allora subentrò per il Bodhisattva un’importante svolta: ossia la necessità di imparare a conoscere tutti i destini dell’organizzazione umana in un corpo terreno in cui avrebbe dovuto interiorizzarsi completamente.

V’era per lui qualcosa da apprendere che soltanto in un corpo umano poteva essere appreso.

 

In quanto superiore individualità, gli era sufficiente quest’unica incarnazione

per osservare veramente tutto ciò che può essere sviluppato da questo corpo umano.

Per gli altri uomini la questione era invece di sviluppare, a poco a poco, le loro facoltà interiori

attraverso il quarto, quinto, sesto e settimo periodo postatlantideo.

Il Buddha poteva sperimentare nell’intimo, in quest’unica incarnazione,

tutto ciò che vi era contenuto come possibilità di sviluppo.

 

Ciò che gli uomini faranno dischiudere come coscienza, ciò che sempre di più crescerà, egli lo poteva, per così dire, già prevedere nel suo primo germoglio, nella sua incarnazione come Gotamo Buddha. Perciò egli poteva, subito dopo questa incarnazione, ascendere di nuovo ai mondi divino-spirituali senza il bisogno di rivivere più tardi una seconda incarnazione.

Ciò che gli uomini nei cicli futuri svilupperanno, in un certo campo, dal loro interno, egli lo potè indicare come una grande forza-guida in questa sua unica incarnazione. Ciò avvenne attraverso l’evento verificatosi presso « l’albero della Bodhi ». Gli si dischiude allora, dopo la sua particolare missione, l’insegnamento della compassione e dell’amore contenuto nell’Ottuplice Sentiero.

Questa grande etica dell’umanità, che gli uomini faranno propria attraverso le successive civiltà, è stata posta nell’animo del Buddha come una forza fondamentale; egli allora discese e da Bodhisattva divenne Buddha, ossia sperimentò un gradino realmente superiore. Tutto ciò ha egli appreso nella sua discesa.

 

Tale, in altre parole, il grande evento conosciuto in Oriente come « il Bodhisattva che diventa Buddha ». Quando questo Bodhisattva, che in precedenza non si era mai incarnato, raggiunse l’età di ventinove anni, la sua individualità si inserì d’un balzo nel figlio di Suddhodana e lo afferrò completamente; questa individualità in precedenza non aveva preso completamente possesso di lui e così egli potè sperimentare il grande insegnamento dell’umanità riguardo alla compassione ed all’amore .

 

Perché questo Bodhisattva, divenuto in seguito il Buddha, si incarnò proprio presso questo popolo? Perché non, per esempio, presso il popolo greco-latino?

Se questo Bodhisattva doveva diventare realmente il Buddha del quarto periodo di cultura postatlantideo, allora egli era obbligato ad essere il portatore del futuro. A questo punto l’uomo, in virtù dello svilupparsi della sua anima cosciente, diventerà maturo per riconoscere man mano da sé ciò che il Buddha ha dato con un primo grande rintocco.

 

Il Buddha già doveva aver sviluppata l’anima cosciente

quando gli uomini erano ancora fermi all’anima razionale o affettiva.

 

Egli doveva quindi utilizzare lo strumento fisico del cervello in maniera tale da dominarlo: da dominarlo in modo del tutto diverso da come avrebbe fatto un uomo progredito fino al periodo di cultura greco-latino. Il cervello greco-latino sarebbe stato per lui troppo duro. Egli vi avrebbe potuto plasmare unicamente l’anima razionale. Dal momento che doveva però plasmare pure l’anima cosciente, aveva bisogno di un cervello rimasto più duttile. Egli utilizzava l’anima che si sarebbe sviluppata più tardi, all’interno di uno strumento che era comune all’umanità e che si era mantenuto presso il popolo indiano.

 

Ecco una ripetizione: il Buddha ricalca una precedente compagine umana con una facoltà futura dell’anima. Fino a questo grado sono necessarie le cose avvenute nello sviluppo dell’umanità. E il Buddha aveva il compito di immergere, durante il VI-V secolo a.C., l’anima cosciente nell’organizzazione umana. Come individualità egli non poteva assumersi da sola l’intero compito di operare affinché questa anima cosciente si plasmasse propriamente dal quinto periodo in poi.

Come sua particolare missione, egli aveva soltanto un compito parziale: recare all’umanità l’insegnamento della compassione e dell’amore. Altri compiti spettavano ad altri simili maestri. L’etica dell’umanità, ossia l’etica della compassione e dell’amore contemplata nel compito specifico del Buddha, ha subìto il primo rintocco da parte dello stesso Buddha e continua a vibrare.

 

Ma l’umanità deve ancora sviluppare per il futuro tutto un complesso di altre qualità: per esempio

pensare nelle pure forme del pensiero, coltivare la plasticità del pensiero nei pensieri già cristallizzati,

collegare un pensiero all’altro come pensiero puro.

Questa facoltà non era inclusa nella missione del Buddha.

Egli doveva plasmare ciò che induce l’uomo a trovare da sé l’Ottuplice Sentiero.

 

Doveva perciò esservi un altro maestro dell’umanità con tutt’altre facoltà, in grado di far fluire in questo modo, dall’alto dei mondi spirituali superiori, flussi del tutto diversi di vita spirituale. Quest’altra individualità aveva il compito di far fluire ciò che oggi si manifesta, specificamente e gradualmente, nell’umanità come facoltà del pensare logico. Si doveva pure trovare un maestro in grado di immettere ciò che appartiene al mondo dell’espressione nelle forme del pensare logico; anche il pensare logico, infatti, si è sviluppato nel corso del tempo.

 

Ciò che ha compiuto il Buddha doveva essere portato dentro l’anima razionale o affettiva. Quest’anima razionale ha la proprietà del tutto singolare (data la sua posizione a metà strada tra anima senziente ed anima cosciente) di far sì che le cose non si ripetano in modo incrociato. Come il periodo paleoindiano si ripeterà nel settimo ed il paleopersiano nel sesto ed il quarto è isolato dagli altri, così anche l’anima razionale è isolata.

 

Le forze per le nostre facoltà intellettuali, che dovevano poi nascere nell’anima cosciente,

non potevano essere sviluppate nell’anima razionale;

dovevano però, appunto perché sarebbero apparse più tardi, essere disposte e stimolate già in precedenza.

In altre parole: l’impulso per il pensare logico doveva essere dato prima che il Buddha desse l’impulso per la coscienza.

 

• Si doveva introdurre la coscienza nell’organizzazione del quarto periodo;

il pensare cosciente puro era destinato ad emergere nel quinto periodo nell’anima cosciente,

ma doveva essere disposto, come seme di ciò che oggi sta sbocciando, già nel terzo periodo di cultura.

 

Perciò quell’altro grande maestro aveva il compito di inserire nell’anima senziente quelle forze che oggi vengono alla luce come pensare logico. Perciò si può facilmente pensare che la distanza che separava questo grande maestro dall’uomo normale doveva essere ancor più grande di quella che separava il Buddha dall’uomo comune.

Doveva essere stimolato all’interno dell’anima senziente qualcosa che, in fondo, non era presente allora in nessun uomo. Dei concetti, di ciò che si sarebbe dovuto sviluppare, non si sapeva proprio che farne.

Quella individualità aveva, dunque, il compito di porre il seme per determinate forze

senza dover o poter utilizzare queste stesse forze. Ciò non era possibile. Doveva quindi utilizzarne altre.

 

• Nella seconda conferenza su « L’Antroposofia » ho infatti esposto questa mattina come, ad esempio, nell’atto del vedere operino nell’anima senziente forze che, a dire il vero, diventano coscienti soltanto ad un gradino superiore, per manifestarsi così come forze del pensare.

 

Come, quindi, tale individualità di grande maestro poteva riuscire a sollecitare l’anima senziente,

in modo tale che le forze del pensare entrassero in essa

quasi come la vita del pensare entra in maniera subcosciente nell’atto del vedere

— ossia senza che l’uomo se ne renda conto —

così pure questa individualità poteva ottenere l’utilizzazione successiva di queste forze ad un gradino superiore.

 

Ciò era reso possibile da una cosa soltanto.

Per sollecitare l’anima senziente, per inculcarle, per così dire, la capacità di pensare,

questa individualità doveva operare, in quel tempo, effettivamente in maniera del tutto particolare:

doveva insegnare non tramite concetti, ma attraverso la musica!

 

• La musica sprigiona forze che azionano nell’anima senziente ciò che diventerà pensare logico

allorché sarà asceso nella coscienza e sarà elaborato dall’anima cosciente.

Questa musica promanava da un essere, da un essere potente che attraverso di essa insegnava.

 

Lo troverete strano e forse non lo crederete possibile, nondimeno era così. Proprio nelle regioni europee, prima del periodo greco-latino, era presente un’antichissima civiltà presso popoli rimasti indietro rispetto alle facoltà sviluppate fortemente in Oriente. Nelle regioni europee gli uomini, dato che si sarebbero sviluppati in maniera del tutto diversa, erano in grado di pensare poco, in quanto poco provvisti delle forze dell’anima razionale o affettiva. La loro anima senziente era però ricettiva proprio per tutto ciò che risulta dagli impulsi di una musica particolare, non del tutto simile a quella nostra odierna. Così ritorniamo in Europa ad un « periodo », in cui era presente una cultura antichissima che possiamo chiamare « musicale »; i Bardi ne erano i maestri (come nei periodi in cui questa cultura stava già decadendo), ma tutte le regioni europee erano pervase da una musica incantevole.

Durante il terzo periodo di cultura vi era in Europa una civiltà profondamente musicale; e l’animo di quei popoli, che in silenzio aspettavano ciò a cui sarebbero stati destinati nei successivi periodi, era in particolar modo ricettivo per gli effetti musicali. Questi effetti operavano sull’anima senziente pressappoco come, riguardo all’occhio, la sostanza del pensare in questa stessa anima.

 

L’anima senziente veniva preparata: in essa sarebbe dovuta sorgere la coscienza

che, ad un gradino superiore, si sarebbe manifestata nell’anima cosciente come pensare logico.

Tutta la coscienza proviene però dalle regioni della luce, come anche la musica ed il canto.

Ecco perché l’anima senziente, attraverso la musica attiva sul piano fisico, possedeva il sentire subcosciente.

Ciò proviene dalle regioni della luce: musica, canto dai regni della luce!

 

V’era un antichissimo maestro nelle regioni europee: un antichissimo maestro che, nel senso ora caratterizzato, era un Bardo, la guida di tutti gli antichi Bardi. Egli insegnava sul piano fisico mediante la musica, sicché attraverso le sue azioni qualcosa veniva comunicata all’anima senziente come se sorgesse e splendesse un sole. Ciò che di questo grande maestro si è conservato nella tradizione esteriore, i greci (influenzati dall’Occidente per suo tramite come dall’Oriente per altre vie) lo hanno più tardi raccolto nelle loro concezioni intorno ad Apollo; il quale è allo stesso tempo dio del Sole e della musica. Questa figura di Apollo ci riconduce però a quel grande maestro della remota antichità che ha posto nell’anima umana la facoltà che oggi appare come pensare logico.

 

Un discepolo di questo grande maestro dell’umanità è altresì nominato dai greci; un discepolo che, a dire il vero, è diventato tale in un modo del tutto particolare. Come si poteva diventare discepoli di questo essere?

Questo essere, nei periodi in cui doveva operare nel modo su descritto, ovviamente non si annullava nella compagine umana, in quanto era più di ciò che è l’uomo fisico sulla Terra. Un uomo con una comune anima senziente avrebbe potuto accogliere gli effetti musicali ma non li avrebbe potuti stimolare. Era discesa un’individualità superiore. E ciò che viveva all’esterno era soltanto parvenza.

 

Nella quarta epoca postatlantidea, la greco-latina, era necessario che questa individualità ridiscendesse, per così dire, fino al gradino dell’umanità e utilizzasse tutte le facoltà dell’uomo. Ma anche utilizzandone tutte le facoltà, non poteva discendere completamente. Dunque, per ottenere ciò che ho appena descritto, per incrociare tali effetti, questa individualità aveva bisogno di facoltà che superassero la misura di ciò che era contenuto nella compagine umana della quarta epoca postatlantidea. Negli effetti musicali era infatti già contemplato tutto ciò che è nell’anima cosciente. In quel periodo, tuttavia, ciò non poteva essere ancora presente in una individualità adatta soltanto all’anima affettiva.

Perciò questa individualità, dopo essersi incarnata in quella figura, doveva, malgrado tutto, conservare ancora qualcosa. Doveva incarnarsi nella quarta epoca in modo da colmare tutto l’uomo; però l’uomo, che così viveva, possedeva in sé qualcosa che lo trascendeva. Sapeva qualcosa di un mondo spirituale che non poteva utilizzare: aveva un’anima che trascendeva questo corpo.

 

Considerato dal punto di vista umano, era tragico che l’individualità che aveva operato come un grande maestro nel terzo periodo di cultura dovesse reincarnarsi in una tale figura che, pur trascendendo nell’anima se stessa, non poteva utilizzare questa sua facoltà, che era superiore alla media. Questo genere di incarnazione viene quindi chiamata « progenie di Apollo », perché ciò che precedeva si è incarnato in maniera non immediata, ma complessa. Questa progenie, questo «figlio» serbava nella sua anima ciò che nella mistica è comunemente designato con il simbolo del « femminino ». Questo simbolo si presentava in lui in maniera tale da non poter essere posseduto del tutto, poiché era in un altro mondo. Egli serbava il proprio femminino-spirituale in un altro mondo, a cui non aveva accesso, ma al quale anelava, essendovi contenuta una parte del proprio Sé. Il mito greco ha fissato in modo meraviglioso questa meravigliosa tragicità interiore, che è la reincarnazione di una grande individualità di maestro del passato, nel nome che è stato dato all’Apollo reincarnato o al « figlio di Apollo »: Orfeo.

 

Nel mito di Orfeo ed Euridice questa tragicità dell’anima viene rappresentata in maniera meravigliosa. Euridice viene presto strappata ad Orfeo. E’ in un altro mondo. Orfeo discende nel regno delle ombre. Egli ha ancora la facoltà di commuovere gli esseri nel regno dei morti con la sua musica. Ottiene il permesso di riprendere con sé Euridice, ma non deve voltarsi, perché se guarda indietro verso ciò che egli è stato e verso ciò che non può accogliere in sé, la visione lo devasterebbe interiormente, o per lo meno gli arrecherebbe danno.

 

Apollo che diventa Orfeo rappresenta di nuovo una sorta di discesa di un Bodhisattva (se vogliamo adoperare un’espressione orientale) che diventa un Buddha. Potremmo così annoverare una serie di tali esseri, i quali, da un’epoca all’altra, rappresentano i grandi maestri dell’umanità e che, nel più profondo della loro discesa, diventando dei Buddha, sperimentano nell’intimo qualcosa di affatto speciale.

Il Buddha sperimenta la beatitudine in grado di ispirare l’intera umanità.

Il Bodhisattva, esteriormente presentato con il nome di Apollo, sperimenta qualcosa di individuale; egli doveva, infatti, preparare proprio l’individualità, la proprietà di essere un Io. Egli sperimenta la tragicità dell’Io, sperimentando che l’Io non è del tutto presente a se stesso come, appunto, lo sono gli uomini rispetto a questa facoltà umana. L’uomo tende verso l’alto, verso l’Io superiore.

Questa tendenza è prefigurata da Orfeo, che per i greci corrisponde al Buddha o al Bodhisattva.

 

Con l’aiuto di qualche particolare esempio abbiamo caratterizzato dei grandi maestri dell’umanità ed abbiamo potuto farcene una rappresentazione. Se riassumete ciò che ho appena detto, vi accorgerete che ho sempre parlato di esseri che, ad esempio, hanno plasmato in una determinata maniera l’anima senziente, l’anima razionale o affettiva e l’anima cosciente come facoltà interiori, ossia come facoltà che devono penetrare nell’uomo dall’interno di sé.

Abbracciando con lo sguardo soltanto questo periodo, possiamo inizialmente avere dinanzi a noi solamente questi due esseri tra coloro che hanno plasmato l’anima senziente. Ci sono tuttavia molti esseri simili, perché l’interiorità dell’uomo si sviluppa a poco a poco, gradino per gradino.

 

Se, infatti, da una parte erano necessari maestri che, con le forze spirituali attinte dalle regioni superiori, alimentassero le facoltà animiche, dall’altra occorrevano altre individualità che operassero in modo diverso, soprattutto alla trasformazione della Terra stessa e a ciò che si sviluppa da un’epoca all’altra.

Se nella quarta epoca, il Buddha formava l’anima razionale per mezzo di quella cosciente operando all’interno dell’uomo, era necessario che un’altra entità operasse anche all’esterno su questa stessa anima razionale.

 

Un maestro del tipo che abbiamo ora caratterizzato doveva, ponendosi dinanzi all’uomo, immettere nella sua interiorità ciò che aveva da portare dalle regioni superiori. Che cosa doveva fare l’altra individualità, il cui compito consisteva nel far evolvere la Terra di generazione in generazione? Questo essere non solo doveva afferrare un’interiorità, non solo doveva avvicinarsi all’uomo per sviluppare in lui questa o quella facoltà, ma doveva egli stesso discendere sulla Terra come un essere umano.

Dunque, non solo doveva discendere un maestro per l’anima razionale, ma anche un formatore per quest’anima: doveva comparire un essere che la plasmasse egli stesso, che fosse, per così dire, l’espressione immediata dell’anima di questa speciale epoca di mezzo. Quest’essere doveva venire da tutt’altro lato: lui stesso doveva penetrare nella natura umana, lui stesso incarnarvisi.

Come i Bodhisattva trasformavano, ricreandola, l’interiorità umana, così questi trasformava, ricreandola, l’intera natura umana. Egli operò in modo che i futuri maestri potessero trovare un terreno adatto: trasformò, rimodellandolo, tutto l’essere dell’uomo.

 

Teniamo a mente come, nell’essere umano, le varie anime si sviluppino entro i singoli corpi:

• l’anima senziente entro il corpo senziente,

• l’anima razionale o affettiva entro il corpo eterico

• e l’anima cosciente entro il corpo fisico.

 

Dove l’anima cosciente si edifica entro il corpo fisico, lì vi è l’azione dei Bodhisattva, lì essi afferravano l’uomo da un lato. Dove l’anima razionale o affettiva opera fin nel corpo eterico, lì un altro essere afferrò l’uomo nel quarto periodo, dall’altro suo lato. Quando avvenne ciò?

 

Avvenne nel momento in cui un corpo eterico umano fu immediatamente afferrabile, in cui l’essere che abbiamo indicato come Gesù di Nazareth abbandonò il corpo fisico durante il Battesimo del Giordano. Quando questo corpo fu interamente immerso – cosa che generalmente produce uno choc – discese entro il corpo eterico di questa individualità l’entità del Cristo.

Questa è l’individualità che proviene dall’altro lato e che, quindi, è di tutt’altra natura.

Mentre nel caso delle altre grandi individualità-guida abbiamo a che fare, sotto certi riguardi, con uomini dallo sviluppo più elevato, con uomini che hanno attraversato almeno una volta tutti i destini dell’umanità, altrettanto non possiamo dire del Cristo.

Qual è l’aspetto « inferiore » dell’entità del Cristo? È il corpo eterico. Che cosa significa questo? Significa che se un giorno l’uomo trasformerà l’intero suo corpo astrale per mezzo del sé spirituale ed opererà fin dentro il corpo eterico, avrà allora lavorato – all’interno di questo corpo eterico – nell’elemento in cui già il Cristo, a suo tempo e nello stesso modo, aveva lavorato.

 

Il Cristo dona un impulso potentissimo, la cui azione perdura nel futuro;

l’uomo può congiungersi a quest’impulso unicamente se si dedica alla rielaborazione cosciente del proprio corpo eterico.

 

Nel suo cammino attraverso la vita, l’uomo va dalla nascita, o anche dal concepimento, fino alla morte, poi da questa ad una nuova nascita. Nel procedere verso la nuova nascita egli attraversa, dopo la morte, dapprima il mondo astrale, poi ciò che chiamiamo la zona inferiore del mondo devachanico ed infine la sua zona superiore.

 

Se vogliamo usare espressioni occidentali, chiamiamo

• il piano fisico « piccolo mondo » o « mondo dell’intelletto »,

• l’astrale « mondo degli elementi »,

• il Devachan inferiore « mondo celeste »

• e quello superiore « mondo della ragione ».

 

• Dato che lo spirito europeo solo gradualmente progredisce nello sforzo di trovare nella lingua espressioni adeguate a determinate realtà, ciò che è al di là del mondo devachanico – con un’espressione dalla coloritura religiosa – è stato chiamato «mondo della Provvidenza» (i.e. il piano della Buddhi).

• Ciò che si trova ancora oltre, l’antica chiaroveggenza poteva abbracciarlo con lo sguardo ed antiche tradizioni potevano tramandarlo all’umanità; le lingue europee tuttavia non potevano dargli un nome, perché solo oggi il veggente può nuovamente elevarsi ad un tale piano. Al di sopra del « mondo della Provvidenza » v’è quindi un mondo per il quale nelle lingue europee, onestamente e giustamente, non vi può essere ancora il nome. Questo mondo esiste realmente, ma sta di fatto che il pensiero non è ancora sufficientemente progredito per poterlo caratterizzare: non si può, infatti, trovare un nome qualsiasi per ciò che in Oriente viene solitamente chiamato Nirvana e che si pone al di sopra del «mondo della Provvidenza ».

 

L’uomo, dicevo, tra la morte ed una nuova nascita, ascende al Devachan superiore o « mondo della ragione ». Di lì riesce ad intravedere mondi superiori nei quali egli stesso non giunge: vede che vi operano esseri più in alto di lui. Mentre l’uomo trascorre la sua vita nei mondi che vanno dal piano fisico a quello del Devachan, è normale per un Bodhisattva ascendere fino al piano della Buddhi, al piano che in Europa chiamiamo « mondo della Provvidenza ». Questa è una parola adatta, poiché suo compito è guidare il mondo, provvidenzialmente, da un’epoca all’altra. Che cosa succede quando un Bodhisattva attraversa un’incarnazione, come nel caso di Gotama Buddha?

 

Avendo raggiunto un determinato gradino, il Bodhisattva ascende al piano successivo, al plano del Nirvana. Lì è la sua sfera successiva. Con ciò abbiamo caratterizzato la natura di questi esseri, che successivamente diventano dei Buddha per accedere al piano del Nirvana.

 

• Tutto ciò che lavora nell’interiorità dell’uomo, che lo permea,

vive in una sfera che si estende verso l’alto, fino al piano del Nirvana.

• Dall’altro lato opera, fin entro la natura umana, un’entità come il Cristo.

Dall’altro lato Egli opera anche fin dentro quei mondi nei quali ascendono i Bodhisattva quando lasciano la regione dell’umanità, per apprendere essi stessi quel che devono insegnare agli uomini. E’ lì che viene loro incontro, dall’altro lato, provenendo dall’alto, l’entità del Cristo. Essi sono, così, i discepoli del Cristo.

 

Dodici Bodhisattva circondano un’entità come il Cristo; e non sono più di dodici perché, una volta completata la loro missione, abbiamo esaurito il tempo dell’essere terreno.

Il Cristo è stato fisicamente presente una sola volta ed ha così sperimentato ciò che costituisce discesa, permanenza sulla Terra ed ascesa. Egli proviene dall’altro lato ed è quell’Essere che si pone in mezzo ai dodici Bodhisattva, che lì attingono ciò che devono immettere nella Terra. Così gli esseri bodhisattvici, tra due incarnazioni, ascendono fino al piano della Buddhi, e fino a questo piano si protende Quegli che viene loro incontro in modo del tutto cosciente, come maestro: l’entità del Cristo.

Se gli uomini progrediranno e matureranno le facoltà loro instillate dai Bodhisattva potranno sempre più elevarsi a questa stessa sfera. Per il momento si tratta, per l’umanità, di imparare a riconoscere che in Gesù di Nazareth si è incarnata, ossia si è manifestata in forma umana, l’entità del Cristo; e che è necessario dapprima penetrare attraverso questa forma umana per giungere al vero essere dell’Individualità-Cristo.

 

Al Cristo quindi appartengono i dodici Bodhisattva che devono preparare e continuare ad amplificare ciò che Egli, il Cristo, ha immesso come il più grande impulso nello sviluppo della nostra civiltà. A questo punto riusciamo a vedere i dodici ed in mezzo a loro il tredicesimo. Con ciò siamo ascesi alla sfera dei Bodhisattva e penetrati in un cerchio di dodici stelle con il Sole nel mezzo: questo Sole le illumina e riscalda, è la fonte di una vita che esse, a loro volta, devono far fluire sulla Terra. Come si presenta sulla Terra l’immagine di ciò che avviene lassù?

 

Di questa immagine proiettata sulla Terra possiamo dire: il Cristo vissuto sulla Terra ha portato cotanto impulso all’evoluzione terrena; i Bodhisattva avevano il compito di preparare l’umanità a questo impulso e, inoltre, di amplificare il dono del Cristo nell’evoluzione terrena. Ciò si presenta sulla Terra come un’immagine: il Cristo al centro dello sviluppo terreno, i Bodhisattva come i suoi precursori e successori, con il compito di avvicinare l’umanità al suo operare.

 

Un certo numero di Bodhisattva doveva così svolgere tra l’umanità un’opera di preparazione, affinché essa divenisse matura per accogliere il Cristo. Ora, l’umanità, divenuta matura per accogliere il Cristo in sé, non è altrettanto matura per riconoscere, sentire e volere tutto ciò che il Cristo è. E tanti Bodhisattva sono stati necessari per preparare la venuta del Cristo, quanti ora sono indispensabili per recare all’umanità ciò che, mediante il Cristo, doveva penetrare in essa. Nel Cristo, infatti, è contenuto così tanto che forze e facoltà degli uomini devono crescere sempre di più per poterlo comprendere interamente.

Con le attuali facoltà Egli è comprensibile solo in minima parte. Facoltà superiori sorgeranno nell’umanità e con ogni nuova facoltà vedremo il Cristo in una nuova luce. E solo quando l’ultimo dei Bodhisattva appartenenti al Cristo avrà svolto la sua opera, l’umanità potrà percepire che cosa sia il Cristo; allora essa sarà animata da una volontà in cui il Cristo stesso vivrà. Il Cristo penetrerà negli esseri umani attraverso il pensare, il sentire e, infine, il volere: l’umanità sarà l’impronta esteriore del Cristo sulla Terra.