Creatore non è Dio Padre, ma il Logos

O.O. 204 – Prospettive dell’evoluzione dell’umanità – 03.06.1921


 

Sommario: Giovanni Scoto Eriugena. Creatore non è Dio Padre, ma il Logos. Il contenuto della Eucaristia. Fine del mondo e resurrezione

 

In Giovanni Scoto Eriugena troviamo una concezione che dai primi secoli cristiani getta luce fin nel secolo nono. In questi primi secoli dopo Cristo, la facoltà di rappresentazione, tutto il modo di pensare sono ancora diversi da come saranno più tardi.

 

Un grande rivolgimento avviene a partire dalla metà del quarto secolo dopo Cristo:

gli uomini cominciano a pensare, senz’altro, molto più razionalmente di prima.

Si potrebbe dire che, prima d’allora, tutta la conoscenza, tutta la formazione delle rappresentazioni,

scaturisse da una specie di suggerimento interiore, in modo dunque assai diverso

da quando gli uomini cominciarono ad essere coscienti di lavorare essi stessi col pensiero.

 

La coscienza propria agli uomini prima del 4° secolo d.C., è rispecchiata in una sentenza di Scoto Eriugena: l’uomo giudica e conclude, in quanto uomo, ma conosce in quanto angelo. Ciò che, per antico retaggio, germogliava in Scoto Eriugena come reminiscenza di una conoscenza anteriore, era stato riconosciuto da chiunque coltivasse in sè pensieri, prima del 4° secolo. A nessuno, allora, sarebbe passato per la mente di attribuire all’uomo stesso, in quanto tale, i pensieri che trasmettono la conoscenza; ognuno li attribuiva al suo angelo.

 

Un angelo abitava il corpo dell’uomo e conosceva e a questa conoscenza l’uomo partecipava.

Una tale diretta conoscenza si era completamente estinta dal 4° secolo d. C. in poi.

 

In spiriti come Giovanni Scoto Eriugena essa riaffiorava, e a fatica si risollevava dal profondo dell’anima. Il che prova, che tutta la concezione del mondo, nel corso di questi secoli si era trasformata: perciò riesce così difficile agli uomini d’oggi di riaccostarsi al modo di pensare e di sentire dei primi secoli cristiani. Soltanto con l’aiuto della scienza dello spirito possiamo tentare di riaccostarci a quegli antichi tempi ricorrendo a rappresentazioni che corrispondano realmente alla concezione dei primi secoli del cristianesimo.

 

Già ai tempi di Scoto Eriugena cominciarono le dispute intorno all’Eucaristia, alla predestinazione dell’uomo, ecc., dispute le quali mostravano che nella sfera della discussione umana, erano stati introdotti fatti sui quali prima non si era mai dissentito perché rispondevano ad una ispirazione e ad un interiore suggerimento. Ma, appunto, molte cose, col tempo, non si comprendevano più affatto. Fra le altre v’era, p. es., il principio del vangelo di Giovanni nella sua versione popolare.

 

Se esaminiamo seriamente il principio del Vangelo di Giovanni, vedremo che esso enuncia qualcosa che non trova più alcuna rispondenza col progredire del tempo, nella coscienza generale dei cristiani. Esso comincia con le parole: « Nel principio era il Logos » e seguita poi coll’affermare che dal Logos ebbero origine tutte le cose, tutto ciò che appartiene al creato, e .che senza il Logos « niuna cosa fatta è stata fatta ».

 

Se queste parole si accolgono con serietà, esse significano che per opera del Logos ebbero origine le cose visibili,

che dunque il Logos è il vero e proprio creatore dell’universo.

 

Nella coscienza cristiana posteriore al 4° secolo, il Logos,

che secondo il vangelo di Giovanni viene giustamente identificato col Cristo,

non viene considerato assolutamente quale creatore delle cose visibili,

ma gli viene contrapposto, quale creatore divino, il Dio Padre.

 

Il Logos è indicato come il figlio: ma non è più il Figlio che si considera come il Creatore, bensì il Padre.

Questa è una dottrina che si è conservata attraverso i secoli, e che contraddice assolutamente al vangelo di Giovanni.

 

Non si può prendere sul serio il vangelo di Giovanni senza vedere nel Cristo, e non nel Padre, il creatore di tutte le cose visibili. Risaliamo, dunque, alla concezione dei primi secoli cristiani la quale si era formata, in sostanza, dalle antiche tradizioni pagane intorno al mondo spirituale, e nel quarto secolo aveva subìto un rivolgimento.

Soprattutto dobbiamo chiarirci cosa si pensava allora intorno al contenuto che dette poi origine al sacrificio della Messa, all’Eucaristia: questo contenuto essenziale sta nelle parole con cui viene additato il pane: « Questo è il mio corpo »; e nelle parole con cui viene additato il vino: « Questo è il mio sangue ».

 

Il contenuto della Eucaristia era stato compreso davvero nei primi secoli cristiani, perfino da uomini che non erano affatto eruditi ma che semplicemente si radunavano nel suo segno, in memoria del Cristo. Ma, veramente, che cosa s’intendeva con ciò? S’intendeva questo: In tutta l’antichità è sempre esistita una sapienza religiosa; e, quanto più risaliamo ad epoche primordiali, tanto più questa sapienza religiosa si edifica sull’essere del Dio Padre.

Se guardiamo alle religioni antiche, conservate poi in forma decadente, esse ci mostrano tutte una certa devozione per la memoria del capostipite di una tribù, o di un popolo.

 

Dalla Germania di Tacito sappiamo che le popolazioni che calarono poi nell’impero romano, e resero possibile la nuova civiltà, conservavano ancora la memoria di tali divinità locali di stirpe, sebbene fossero per lo più già passate ad altre forme di culto. Si pensava allora: Generazioni su generazioni sono trascorse dacché un antico antenato visse e fondò la stirpe, fondò il popolo; l’anima di quell’antenato continua a perpetuarsi fin nelle più tarde generazioni. Questo perpetuarsi, questo influsso si immaginava legato ai discendenti della stirpe, tutti affini tra loro, poiché tutti generati da un ceppo comune e col medesimo sangue nelle vene.

 

Corpo e sangue sono una cosa sola. E mentre si elevava Io sguardo con devozione religiosa all’anima, allo spirito dell’antenato, si perveniva, attraverso lui, alla divinità, in seno alla quale l’antenato riposava, e che per suo tramite agiva su tutta la stirpe, sul popolo intero. Si sentiva questa divinità dominare nei corpi, nel sangue che scorreva attraverso alle generazioni; e nelle forze del corpo, nelle forze del sangue, si sentiva la sostanza di un profondo mistero.

Quindi si può ben dire che la vista, sia, pure del sangue animale (e a maggior ragione del sangue umano) suscitava, nei seguaci di questa concezione, la possibilità di contemplare, nel sangue, il corpo medesimo della divinità e di vedere nei prodotti del sangue, cioè nei discendenti di una stirpe o di un popolo la figura della divinità e la sua immagine.

 

Oggi gli uomini difficilmente possono rappresentarsi

come in quegli antichi tempi si adorasse nella materialità anche il divino.

Attraverso il sangue delle generazioni scorreva la forza della divinità;

attraverso i corpi delle generazioni la divinità si formava la sua contro-immagine;

a questa divinità giungevano l’anima e lo spirito dell’antenato operando con forza divina sui discendenti,

i quali a loro volta adoravano l’antenato in quanto divinità atavica.

 

Non è soltanto un’opinione delle religioni antiche, ma è verità vera che il divino,

attivo nel corpo umano, sia connesso col fisico.

I germi del fisico provengono da un’antichità assai lontana;

nel corpo umano e nel sangue quali sono oggi, intessuti di materia minerale, operano le forze della terra.

 

Nel sangue umano, p. es., non operano soltanto forze attraverso gli alimenti, ma forze che sono attive in tutto il pianeta terrestre. Se, p. es., un uomo abita in una regione ricca di terra rossa, ricca, per la sua struttura geologica, di certi metalli, ciò influisce sul suo sangue. Inoltre, la struttura, il corpo dell’uomo hanno stretta relazione con la terra e subiscono l’influsso delle regioni calde o fredde. La forma corporea e l’elemento attivo del sangue dipendono dalle forze che dominano nella terra. Questa verità, a cui oggi perveniamo soltanto con l’investigazione scientifico-spirituale era ancora evidente, per conoscenza istintiva, ai nostri lontani antenati. Essi sapevano che nel sangue pulsano le forze terrestri.

 

Oggi, noi possiamo collegare con un fil di ferro l’apparecchio telegrafico di una stazione con quello di un’altra, facendovi passare la corrente elettrica; ma per chiudere il circuito dobbiamo stabilire un contatto con la terra. Perché la corrente formi circuito dobbiamo collegare le due estremità del filo con due placche che conficcheremo nella terra, dalle due parti opposte: altro non occorre fare.

Oggi questo è un risultato della nostra scienza esteriore.

 

Dobbiamo presupporre che la corrente elettrica sia attiva in seno alla terra. I nostri antenati non sapevano nulla di elettricità, ma in compenso sapevano qualcosa del loro sangue. Stando sulla terra sapevano che in essa vi è qualcosa che vive anche nel sangue. Consideravano il processo in un altro modo; non parlavano di elettricità, bensì di un quid di terrestre, che viveva nel sangue loro. Noi non sappiamo più che l’elettricità della terra vive nel sangue; cerchiamo soltanto di comprendere il fenomeno con rappresentazioni meccanico-matematiche.

 

Ma gli uomini di allora, collegavano con il corpo terrestre, in quanto tale, la loro rappresentazione del divino. Dicevano a sé stessi: il divino domina nel sangue, domina nel corpo, attraverso alla terra. Questo è quanto si esprimeva nella rappresentazione di Dio Padre. La rappresentazione di Dio Padre era tale, perché si considerava l’antenato della stirpe, del popolo, come punto di partenza del divino; ma la terra era considerata il tramite per il divino, e l’azione della terra sul sangue, su tutto il corpo umano, rappresentava l’opera divina.

Gli uomini antichi dicevano inoltre: sarebbe bene, che sull’uomo agisse soltanto ciò che è terrestre; ma insieme alla terra agisce su lui anche la vicina luna. E con questa miscela di forze terrestri e lunari, essi ricollegavano al concetto di una divinità unitaria della terra, quello di una molteplicità di divinità inferiori, come esistevano appunto nel mondo pagano.

 

Sull’uomo, attraverso al corpo e al sangue, operava la sorgente primordiale

che in queste antiche epoche suscitava la rappresentazione della divinità.

 

Non è quindi da stupirsi se in quegli antichi tempi per scoprire gli influssi attivi sulla terra ci si rivolgeva alla luna e si esaminava la sua azione sulla terra. Si elaborava così una scienza sottile su Dio Padre, la quale pervenne fino a Giovanni Scoto Eriugena, come appare nei primi tre libri della sua opera. Vivendo nel secolo 9° d. C., egli non poteva avere conoscenza diretta di queste cose.

 

Ma allora esistevano ancora frammenti ereditari della sapienza primordiale i quali affermavano

che in tutto ciò che circonda l’uomo sulla terra, vive Dio Padre, non creato ma creatore;

e vivono le altre divinità che sono create e insieme creatrici, ossia le varie entità delle gerarchie.

• Intorno all’uomo si dispiega il mondo visibile, le cose create e non creatrici:

ma l’uomo sta in attesa di un mondo in cui domina una divinità non creatrice e non creata, in assoluto riposo,

nel cui grembo è accolto tutto il resto del mondo.

 

Tali idee sono contenute nel quarto libro di Scoto Eriugena in cui si tratta di soteriologia ed escatologia. Vi sono esposti la storia del Cristo Gesù, la resurrezione, i doni della grazia; ma anche la fine del mondo e la nostra successiva immersione nel seno della divinità in riposo. I tre primi libri di questa grande opera di Scoto Eriugena sono evidentemente un’eco di concezioni antiche; soltanto il quarto assume un carattere veramente cristiano: nei tre primi libri si trovano qua e là anche rappresentazioni cristiane, ma è veramente efficace, in fondo, soltanto quanto trae origine dall’antica epoca pagana; e pur trattando dei padri della chiesa dei primi secoli cristiani, conserva il carattere del paganesimo.

 

Possiamo dire che Scoto Eriugena

• vedeva nella natura e in ciò che circondava l’uomo, la ragione di Dio Padre;

• vedeva, dietro alla natura, in certe forze della natura, il mondo dell’ideale;

e infine, nel succedersi delle generazioni, nel divenire dell’umanità,

nelle singole stirpi e nei popoli il dominio di Dio Padre.

Ma, nei primi secoli cristiani, a questa conoscenza se ne era aggiunta un’altra,

la quale è andata poi quasi completamente smarrita.

 

I primi padri della chiesa cristiana dicevano: entro al dominio di Dio Padre, e particolarmente nel sangue che scorre attraverso alle generazioni, sta sì l’azione di Dio Padre, però in continua lotta con le sue forze avverse, gli spiriti della natura. I critici cristiani più tardi hanno radicalmente estirpata la concezione, particolarmente viva nei primi secoli cristiani, che Dio Padre non fosse mai riuscito a operare da solo, e che stesse in lotta incessante cogli spiriti della natura che dominavano nelle cose esteriori.

 

Gli antichi padri della chiesa ragionavano così:

I precristiani credevano in Dio Padre; ma non sapevano distinguerlo dagli spiriti della natura:

e reputavano che il regno di Dio Padre e il regno della natura fossero uno solo:

credevano che da questo provenisse l’intero mondo visibile.

Ma – dicevano i padri della chiesa – ciò non è vero.

 

Le varie divinità naturali operano nella natura, solamente perché si sono insinuate nelle cose terrene:

le cose terrene, quelle che vediamo coi sensi, che sono fuori di noi,

non provengono da questi spiriti della natura e neppure da Dio Padre,

il quale propriamente esplicò l’opera sua di creatore soltanto nelle metamorfosi che precedettero la terra;

la vera terra, quella che noi vediamo oggi,

non proviene né da Dio Padre né dagli spiriti della natura: proviene dal Figlio, dal Logos, 

che Dio Padre ha fatto procedere da sé stesso, affinché creasse la terra;

e il vangelo di Giovanni, grandioso e importante monumento,

attesta appunto che la cosa non sta come gli antichi ritenevano.

Dio Padre ha fatto procedere da Sé il Figlio, il quale è il creatore della terra.

 

Questo è il punto pel quale lottarono i padri della chiesa dei primi secoli cristiani. Questo punto, per l’intelletto che allora andava sviluppandosi, era difficile da comprendersi, tanto che Dionisio l’Areopagita preferì di concludere che:

• tutto quanto l’intelletto crea, è teologia positiva; questa non penetra fin nelle regioni che contengono i veri e propri misteri dell’essere: entrare in questi si può soltanto se si negano tutti i predicati, se si parla, non già dell’essere di Dio, ma del super-essere di Dio; se si parla non della personalità, ma della super-personalità. Se dunque si procede per negazioni, allora si giunge, mediante la teologia negativa, al vero e proprio mistero dell’essere. Ma Dionisio, e, più tardi, Giovanni Scoto Eriugena, suo successore, già tutto compenetrato di intellettualità, non potevano credere che l’intelletto umano fosse capace di spiegare in nessun modo simili segreti dell’universo.

 

Che cosa significa il dire che il Logos è il creatore di tutto? Pensate alla concezione che troviamo in tutti i tempi antichi precristiani, al tempo del mistero del Golgota sussisteva ancora, sebbene meno limpida: per tale concezione la divinità opera attraverso al sangue, attraverso al corpo; il sangue che scorre nelle vene degli uomini o degli animali, in origine, è stato tolto agli Dei ed è legittima loro proprietà. Dunque possiamo avvicinarci agli Dei col restituire loro il sangue. Essi lo vogliono; bisogna restituirlo agli Dei. Da ciò gli olocausti di sangue dell’antichità.

 

Ma venne il Cristo e disse: non di questo si tratta: e non così si comprendono le cose terrene le quali non appartengono affatto a divinità che esigono sacrifici di sangue. Volgiamo lo sguardo a ciò che è attivo nell’uomo prima che agisca su di lui l’elemento terrestre; prendiamo il pane di cui l’uomo si nutre; e prendiamolo così come l’uomo lo accoglie a tutta prima, col senso del gusto.

 

Il cibo nel corpo umano segue un lungo processo prima di trasformarsi in sangue.

In sangue si trasforma soltanto dopo esser passato attraverso alle pareti intestinali;

allora soltanto incomincia l’influsso della terra;

• finché il cibo non è stato ancora accolto dal sangue, l’azione terrestre nell’uomo non ha ancora avuto inizio.

 

Non nel sangue, dunque, si può vedere quello che corrisponde al divino;

ma nel pane, prima che il pane divenga carne, e nel vino, prima che il vino si converta in sangue.

Ivi è il divino, ivi è l’incarnazione del Logos.

 

Non guardate a ciò che scorre nel sangue,

poiché questo negli uomini corrisponde a una vecchia eredità dei tempi lunari, dell’epoca pre-terrestre.

Il cibo infatti prima di divenire sangue ha rapporto con l’elemento dell’uomo che è di pura origine terrestre.

Allontanandovi dunque dai concetti di sangue, di corpo, e di carne,

rivolgetevi invece verso ciò che non è ancora diventato né sangue né carne

e rappresentatevi ciò che, sulla terra, vien generato sotto l’influsso del sole,

senza che la luna vi eserciti il suo proprio influsso!

 

Noi vediamo le cose mediante la luce del sole, e mangiamo il pane e beviamo il vino, accogliendo in essi la forza solare.

• Le cose visibili perciò non sono provenute da Dio Padre ma dal Logos.

• Rappresentiamoci tutto ciò che vive per virtù del sole, prescindendo da ogni altro aspetto della natura;

rivolgiamoci a ciò che è puramente spirituale.

• Il divino non possiamo estrarlo dalle cose fisiche della terra; dobbiamo vederlo nella pura spiritualità, nel Logos.

 

In tal modo il Logos fu contrapposto alle antiche rappresentazioni di Dio Padre,

e la mente degli uomini fu guidata verso un elemento puramente spirituale.

 

Nei tempi precristiani l’uomo poteva percepire il divino soltanto per tramite del proprio organismo, che glielo presentava interiormente sotto forma di visioni o simili: vedeva il divino emergere dal sangue.

Dopo il Golgota, egli poté cercarlo, invece, nella pura comprensione spirituale; e poté considerare prodotto del Logos le cose visibili intorno a lui; poté distinguere fra quel divino che si era soltanto insinuato in esse e il divino prodotto da un Dio che aveva esplicato la sua azione creatrice in una fase preterrestre.

 

Soltanto così, si comincia ad avvicinarsi ai concetti dei primi secoli cristiani. Gli uomini allora venivano avviati a comprendere che, per arrivare al divino, dovevano trarre le loro rappresentazioni soltanto dalla loro interiore facoltà cosciente: così venivano guidati verso lo spirituale.

Allora si diceva: Un tempo, la terra era così possente da poter dare agli uomini la percezione del divino. Ciò non è più; la terra non largisce più nulla.

 

Si deve giungere per forza propria al Logos e all’elemento creativo.

Fino ad ora, si è venerato l’elemento creativo nel preterrestre;

ora si deve venerare ciò che è creativo nell’elemento terrestre.

Si può afferrarlo soltanto con la forza dell’io, dello spirito.

 

Tutto ciò, i primi cristiani lo esprimevano dicendo: la fine del mondo è vicina. Essi intendevano la fine di quel periodo che conferiva all’uomo la conoscenza della terra senza richiedere da lui per conseguirla lo sforzo della sua coscienza. La profezia sulla fine del mondo, esprimeva una profonda verità: se un tempo l’uomo era un figlio della terra, se si abbandonava alle forze terrestri, e confidava che il suo sangue gli avrebbe conferito la conoscenza delle cose, questa forma di conoscenza era ormai finita: « I regni dei cieli sono vicini, i regni della terra son terminati ».

 

L’uomo non può ormai più essere un figlio della terra,

ma deve affratellarsi a un essere spirituale che dai mondi superiori è disceso sulla terra, al Logos, al Cristo.

 

La fine del mondo era preannunciata pel quarto secolo d. C.: la fine, cioè a dire, della terra, l’avvento di un nuovo regno, l’avvento di quel regno in cui l’uomo deve sentirsi vivere, spirito tra spiriti. Difficile oltre ogni dire è per l’uomo attuale comprendere la concezione dei primi cristiani, comprendere che la nostra vita attuale non sarebbe stata intesa da loro, come un dimorare in terra, ma come un dimorare già nei mondi dello spirito; poiché già allora era tramontata e finita la terra, in quanto elargitrice di forze agli uomini.

 

Chi avesse compreso il modo di pensare dei primi cristiani,

non direbbe oggi che essi credevano alla fine del mondo per superstizione, e che questa fine non è venuta.

La fine, nel senso dei primi cristiani, è proprio avvenuta nel 4° secolo d. C.;

e la condizione in cui viviamo ora, sarebbe stata considerata da quei primi cristiani, come la nuova Gerusalemme,

in cui l’uomo vive spirito tra spiriti. Soltanto, essi avrebbero osservato:

per l’uomo è incominciato veramente il regno dei cieli, ma egli è tanto malvagio che non lo riconosce:

crede che in cielo tutto sia fatto di latte e miele, che non vi siano spiriti cattivi, contro cui occorra difendersi:

prima, questi spiriti cattivi dimoravano nelle cose della natura,

ora si sono scatenati e ci attorniano invisibili; l’uomo se ne deve difendere.

 

La fine del mondo, annunciata nei primi tempi cristiani, è dunque assolutamente avvenuta.

Soltanto non si è capito che in luogo del Dio che abita la terra, il quale si annuncia per via di eventi terreni,

deve riconoscere il Logos soprasensibile nel mondo soprasensibile

a cui, mediante forze soprasensibili, dobbiamo ancorarci.

 

Se questo si ammette, si comprenderà anche che nell’Europa civile si sia di nuovo diffuso nel IX, X, XI secolo uno stato d’animo preconizzante la fine del mondo. Non si comprendeva allora che cosa avessero inteso dire, accennando a questo fatto, i primi cristiani; si diffuse così in tutta l’Europa civile una concezione che tendeva a cercare la via al Cristo in forma ben più materiale di quanto si sarebbe dovuto. L’essenziale sarebbe stato di cercare il Logos nello spirito anziché nei fenomeni naturali; ma gli uomini, conturbati dal presagio della fine del mondo, non compresero ciò.

Da tale disposizione d’animo nacque l’impulso alle crociate, alla ricerca materiale del Cristo, a trovarlo ancora nel suo sepolcro.

 

Ma in oriente il Cristo non fu trovato. Alla gente che lo cercava visibilmente nel sepolcro fu risposto: «Colui che cercate non è più qui; Egli deve essere cercato in ispirito».

E ora, nel 20° secolo (e sempre più i sintomi di ciò alimenteranno) il presagio della fine del mondo si rinnova, sebbene gli uomini siano diventati tanto indifferenti e addormentati da non avvedersene neppure. Tuttavia, Spengler, che di questo presagio parla nel suo Tramonto dell’Occidente, ha suscitato e diffuso col suo libro una grande impressione.

 

In realtà, della fine del mondo non è più il caso di parlare.

Trovare lo spirito attenendosi alla sola natura è stata l’aspirazione di un mondo tramontato.

Oggi si tratta di accorgersi che viviamo in un mondo spirituale.

 

L’errore degli uomini, i quali non sanno di vivere in un mondo spirituale,

ha prodotto tanti guai, ha reso possibile guerre micidiali,

rivelando sempre più l’ossessione che sconvolge gli uomini.

L’umanità è ossessa e dominata da potenze maligne che la scompigliano.

 

Gli uomini sono ossessionati da una psicosi incomprensibile,

tanto che nelle loro parole non è più l’io umano a esprimere se stesso.

Ciò che i primi cristiani intendevano come fine del mondo, ha avuto luogo

e il nuovo tempo è giunto; ma occorre riconoscerlo, e comprendere

che l’uomo, quando conosce, conosce come angelo;

e quando diventa cosciente di se stesso, lo fa come arcangelo.

L’essenziale è che il mondo spirituale è ormai disceso: occorre soltanto di rendersene consapevoli.

 

Molti hanno creduto di prendere sul serio il vangelo; ma sebbene nel vangelo sia detto ben chiaramente che tutte le cose create furono fatte dal Logos, gli uomini le hanno attribuite a Dio Padre, il quale deve sì essere riconosciuto uno col Cristo, ma appunto sotto l’aspetto della trinità che ha operato fino al tempo in cui la terra è stata formata: mentre il reggente vero della terra è il Cristo, è il Logos.

 

Queste cose potevano a stento essere ancora comprese nel 9° secolo, nell’epoca in cui fu scritto il libro di Scoto Eriugena, libro importante per quanto riguarda la divisione della natura, ma per altro verso anche caotico, tanto che solo con la scienza dello spirito possiamo cercare di intenderlo.

 

• Come ho già detto, nel quarto libro Giovanni Scoto parla dell’entità non creata e non creatrice. Se penetriamo il vero significato di questa divinità in assoluto riposo nella quale tutto si riassume, dobbiamo riconoscere che questo gradino dell’evoluzione è stato raggiunto. Il mondo di cui trattano i primi tre libri è tramontato, è finito:

• il mondo della divinità in riposo, dell’entità non creata e non creatrice, è presente.

La terra in quanto natura è avviata al suo decadimento.

 

Lo stessa scienziato, lo stesso geologo ci dicono che in complesso, oggi sulla terra nulla più si produce. Quasi per un residuo del passato, si formano ancora le piante, si propagano razze animali ed umane: ma la terra, nel suo complesso, è un’altra rispetto a quella che era. Essa si spezza, si frantuma: in quanto regno minerale, essa è già in decomposizione. Il grande geologo Suess, nel suo libro Il tramonto della Terra, dice: «Noi circoliamo su zolle che si sfasciano ». E additandoci una regione ove zolle che si sfasciano possono già vedersi, dimostra che in passato le cose stavano ben altrimenti. La concezione dei primi cristiani intendeva appunto annunziare ciò, e non si fondava certo su fatti naturali, ma su fatti spirituali dell’evoluzione dell’umanità.

 

Dall’inizio del 15° secolo in poi, noi viviamo realmente nella divinità in riposo,

la quale attende che la nostra attività ci porti a conseguire immaginazione, ispirazione

e con esse la visione del mondo spirituale entro cui dimoriamo, il quale ha espulso da sé quello terreno.

Veramente la fine del mondo è già avvenuta e siamo giunti ora alla nuova Gerusalemme.

 

Strano e singolare è il destino dell’umanità!

Essa vive in un mondo spirituale, lo ignora e lo vuole ignorare.

 

Tutte le interpretazioni che tendono a inquinare il Cristianesimo con rappresentazioni incomplete, (come, p. es., quella intorno a una fine del mondo che non avvenne e che avrebbe dovuto essere intesa solo simbolicamente) non hanno valore. Quanto sta scritto nei testi cristiani, deve essere compreso nel giusto modo.

E deve risultare con evidenza che le prime concezioni cristiane alludevano ad una vera svolta dell’evoluzione avvenuta nel quarto secolo post-cristiano.

 

Le dottrine dei primi secoli cristiani riflettono l’ammirazione dei padri della chiesa per la saggezza pagana e il loro sforzo di ricollegarla al mistero del Golgota. Essi comprendevano la cosa nel modo giusto, ma non ammettevano che gli altri uomini fossero anch’essi capaci di capirle. Perciò i segreti dei tempi antichi vennero conservati sotto forma di dogmi e di oggetti di fede, e non furono formulati per la comprensione. I dogmi non sono superstizioni, né cose false: sono verità, che debbono essere comprese giustamente. E comprese possono essere soltanto per mezzo di una nuova facoltà, sorta a partire dal 15° secolo.

 

• Dalla metà del 15° secolo in poi noi sviluppiamo l’anima cosciente. Oggi, quando un uomo esplica i suoi concetti, è in verità ben lontano dal figurarsi che in lui un angelo conosce. Egli si figura semplicemente di pensare su qualche esperienza avuta. Non immagina nemmeno vagamente la presenza in lui di un essere spirituale, quando sviluppa la conoscenza, e men che mai di un essere spirituale ancor superiore quando esercita la propria auto-coscienza. La facoltà per cui l’uomo oggi tenta di conoscere le cose, è l’ombra di quell’intelletto che si era andato formando presso i greci – per esempio, in Platone e Aristotele, – che era vivo ancora presso i romani, e perfino in Scoto Eriugena nel 9° secolo postcristiano.

 

Dovrebbe essere d’aiuto agli uomini, il fatto che l’epoca del raziocinio è ormai sorpassata.

Ma essi continuano a inseguire un’ombra: il raziocinio, l’intelletto che è in loro.

Si fanno fuorviare da esso, anziché tendere verso l’immaginazione, l’ispirazione, l’intuizione,

le quali oggi ci riconducono alle regioni spirituali.

 

È un bene che l’intelligenza si sia ridotta a un’ombra.

Con questa pallida ombra abbiamo potuto fondare, per prima, la scienza naturale.

Ora, prendendo le mosse dall’intelligenza, dobbiamo portare oltre il nostro lavoro.

Dio è entrato in riposo, affinché noi lavoriamo.

Occorre soltanto che l’uomo se ne renda conto, altrimenti nulla più si potrà creare sulla terra,

perché quanto la terra ha ricevuto in eredità, è tramontato, e ora si deve fondare il nuovo.

 

Nel IX, X, XI secolo dominava lo stato d’animo presago della fine del mondo. Poi vennero le crociate. Ma con esse non si è ottenuto nulla perché si è cercato nell’ambito materiale ciò che si sarebbe dovuto cercare nello spirito. E poiché le crociate non avevano apportato nulla agli uomini, fu data loro la cultura del Rinascimento, oserei dire, come un compenso: la Grecia infatti riaperse le sue fonti, ed elargì agli uomini la sua cultura: ma la civiltà greca non apparve come cosa nuova. Il nuovo nacque soltanto all’inizio del secolo XV, con la nuova scienza meccanico-matematica.

 

La cultura classica, che viene impartita ai nostri giovani, si fonda sulle rovine del passato, che formano la base della nostra civiltà, Oswald Spengler, autore del libro già citato, si è urtato contro queste rovine del Rinascimento simili a blocchi di ghiaccio che nuotano sul mare, pronte a generare forme future. Ma chi guardi soltanto verso queste masse di ghiaccio vede unicamente il tramonto, la fine.

 

Nessuno sarà capace di galvanizzare l’essenza della nostra attuale cultura: essa sprofonda nell’abisso.

Una civiltà nuova deve sorgere per creazione spontanea, attingendo alle fonti dello spirituale,

poiché il regno dei cieli annunciato dai Vangeli è ormai presente.

 

Scoto Eriugena attinse la sua alta sapienza oltre Manica, ai misteri d’ Irlanda. Ciò risulta non soltanto dall’indagine spirituale, ma anche dai documenti posteriori, per chi voglia realmente comprenderli, per chi voglia liberarsi dell’alessandrinismo della scienza filologica moderna, dalla sedicente filologia. Questa altissima sapienza primordiale deve oggi essere riconquistata in modo adeguato. Se ciò, sarà fatto, si comprenderà nuovamente quello che sta scritto nel vangelo di Giovanni e di cui purtroppo gli uomini moderni non si curano:

creatore non è Dio Padre, ma il Logos.