Diverso rapporto del Budda, Socrate e Cristo con i loro discepoli

O.O. 139 – Il Vangelo di Marco – 18.09.1912


 

Le due figure del Buddha e di Socrate

ci si mostrano come due aspetti diversi, quasi polarmente contrapposti, dell’evoluzione dell’umanità.

 

Se poi congiungiamo, come abbiamo cercato di fare, in un’unità superiore quelle due figure, possiamo accostare ad esse una terza grande figura intorno alla quale si raccolgono dei discepoli: quella del Cristo Gesù. Volendo prendere in considerazione anzitutto i dodici discepoli più vicini a lui, vediamo anche e particolarmente nel vangelo di Marco indicato con la massima chiarezza un aspetto del rapporto fra il maestro e i discepoli, analogo a quello che abbiamo caratterizzato nei casi di Buddha e di Socrate.

 

Qual è l’espressione più chiara, più pregnante, più sintetica di quel rapporto? È quella che ci mostra quanto segue: il Cristo si presenta alla moltitudine che vuole udirlo (questo è ripetuto più volte nel vangelo); egli parla alla folla in parabole, cioè in immagini. Anche nel vangelo di Marco viene espresso in modo semplice e grandioso che il Cristo allude a certi fatti importanti del divenire del mondo e dell’evoluzione umana, parlando alla folla sotto forma di parabole, di immagini. Poi però, quando si ritrova solo coi suoi discepoli più vicini, il Cristo spiega loro quelle immagini.

 

Nel vangelo di Marco troviamo anche un esempio particolare di questo modo di esprimersi in immagini alla folla e di spiegarle poi ai discepoli intimi: «E insegnava loro molte cose per mezzo di parabole, e ammaestrandoli diceva: Udite: ecco, un seminatore uscì a seminare. E nel gettar la semente, parte cadde lungo la strada, e vennero gli uccelli e la beccarono. Un’altra cadde in suolo sassoso, ove non era molta terra, e se subito spuntò, per essere il terreno poco profondo, levatosi il sole riarse la terra, e il seme, siccome non aveva radici, seccò. Un’altra parte cadde fra le spine, le quali crebbero e soffocarono il seme, così che non fruttificò. Altra parte cadde in buon terreno e diede frutto che crebbe rigoglioso, e rese dove il trenta, dove il sessanta, e dove il cento per uno. E diceva: Chi ha orecchi per udire, oda. E quando rimase solo con i suoi discepoli, essi gli chiesero il significato della parabola» (4,210).

 

E ai suoi discepoli intimi il Cristo parla così: «Chi semina, semina la parola. Quelli che sono lungo la strada, ove è seminata la parola, son coloro che l’ascoltano, ma tosto vien Satana e porta via la parola seminata nei loro cuori. Così pure quelli che ricevono la semente in luogo sassoso, son coloro che, all’udire la parola, l’accolgono subito con gioia, ma non hanno in sé radice, e sono incostanti, e quando, a causa della parola, viene la tribolazione e la persecuzione, subito si scandalizzano. I seminati tra le spine sono coloro che ascoltano la parola, ma poi le sollecitudini del mondo, gli inganni delle ricchezze e le cupidigie per le altre cose sottentrano a soffocar la parola che resta senza frutto. Infine, quelli seminati in buon terreno sono coloro che ascoltano la parola e la ricevono e producono frutto, chi del trenta, chi del sessanta, e chi del cento per uno» (4,14-20).

 

Abbiamo qui un esempio tipico del modo come insegnava il Cristo Gesù.

Sappiamo come insegnava il Buddha, e sappiamo come insegnava Socrate.

 

Nel nostro linguaggio occidentale possiamo dire del Buddha che egli sollevava al cielo quel che gli uomini sperimentano sulla Terra. Di Socrate si è detto spesso, per caratterizzare il suo modo di procedere, che egli portò la filosofia dal cielo in Terra, in quanto faceva appello direttamente alla ragione terrena. Ci si può fare veramente un’idea chiara del rapporto in cui quelle due individualità stavano coi loro discepoli.

 

Qual era invece il rapporto del Cristo Gesù coi suoi discepoli? Diverso era il suo modo di affrontare la folla alla quale parlava in parabole; e diverso il suo rapporto con i discepoli più vicini: a questi egli interpretava le parabole, dicendo loro quel che erano in grado di comprendere, quel che si offriva direttamente alla comprensione da parte della ragione umana. Bisogna quindi parlare in modo più complicato, per caratterizzare il modo in cui insegnava il Cristo Gesù.

 

Un unico tratto caratteristico è comune a tutti gli insegnamenti del Buddha; perciò anche tutti i suoi discepoli diretti sono di un unico tipo. Di un unico tipo sono anche gli scolari di Socrate, poiché tutto il mondo può far parte della schiera dei suoi discepoli: Socrate infatti non vuole altro che estrarre dall’anima umana ciò che vi si trova. A sua volta è di un unico tipo il rapporto di Socrate coi suoi allievi. Il Cristo Gesù invece si presenta in due modi diversi: quello che assume verso i suoi discepoli intimi, e quello che tiene verso la folla. Che cosa significa ciò?

 

Per conoscerne il significato occorre comprendere ben chiaramente tutta l’importanza che assume

la grande svolta dei tempi rappresentata dal mistero del Golgota.

 

• Stava per chiudersi l’epoca in cui l’antica chiaroveggenza era stata una facoltà comune a tutti gli uomini.

• Quanto più si risale indietro nell’evoluzione dell’umanità,

tanto più diffusa era comunemente la chiaroveggenza, e gli uomini potevano vedere i mondi spirituali.

• Essi vi scorgevano i segreti dell’universo sotto forma di immagini,

cioè di immaginazioni più o meno coscienti;

era una chiaroveggenza sognante, non formulabile in concetti razionali

come quelli che applica l’uomo d’oggi nei suoi processi di conoscenza.

 

• Non esistevano in quei tempi antichi la scienza odierna,

e neppure il pensiero comune, il sobrio raziocinio o la forza del giudizio logico.

L’uomo stava di fronte al mondo esterno, lo percepiva, ma non l’analizzava in concetti,

non conosceva la logica, né rifletteva sulle cose combinandole fra loro.

• Per l’uomo d’oggi è perfino difficile raffigurarsi tale condizione, perché oggi si riflette, si pensa su ogni cosa.

 

L’uomo antico invece non pensava in questo modo.

• Egli passava vicino alle cose, le vedeva e se ne imprimeva le immagini;

ne trovava poi la spiegazione quando guardava il suo mondo immaginativo sognante,

negli stati intermedi fra veglia e sonno. Vedeva allora delle immagini.

 

Proviamo a rappresentarci la cosa in modo più concreto: ammettiamo che l’uomo di molti, molti millenni or sono, osservando il mondo circostante, avesse notato un maestro che istruiva i suoi discepoli. L’uomo di quei tempi antichissimi si sarebbe fermato ad ascoltare le parole che il maestro diceva al suo discepolo. Se poi vi fossero stati molti discepoli, egli avrebbe notato che uno di loro accoglieva con intensità le parole del maestro; un altro le accoglieva lui pure, ma poi ben presto se ne disinteressava; un terzo poi era talmente preso dal suo egoismo da non ascoltare neppure.

 

L’uomo antico non sarebbe stato capace di confrontare intellettualmente il comportamento di quei tre discepoli; ma negli stati intermedi fra la veglia e il sonno, tutto si sarebbe ripresentato alla sua anima in forma di immagini. Allora avrebbe potuto forse vedere un’immagine come di un seminatore che gettava la sua semente: avrebbe veramente scorto una immagine chiaroveggente: una semente cade su terreno buono e dà buon frutto; un’altra cade in un terreno peggiore e la terza su terreno pietroso. Poco frutto proviene dalla seconda parte, e nessuno dalla terza. L’uomo antico non avrebbe detto (come l’uomo d’oggi): uno dei discepoli accoglie le parole del maestro, l’altro non le accoglie affatto, e così via. Invece avrebbe veduto quella immagine, avrebbe scorto la spiegazione negli stati intermedi fra la veglia e il sonno. Mai avrebbe parlato di quelle cose in modo diverso; se fosse stato richiesto di descrivere il rapporto fra il maestro e i discepoli, egli avrebbe narrato le sue immagini chiaroveggenti di sogno. Questa era per lui realtà, ma era anche la spiegazione del fatto, e così l’avrebbe narrata.

 

Ora la folla che ascoltava il Cristo Gesù possedeva certo solamente pochi residui dell’antica chiaroveggenza; tuttavia le anime erano ancora inclini ad ascoltare quando si parlava in immagini del divenire dell’esistenza e dell’umanità. E il Cristo Gesù parlava alla folla come a gente che aveva ancora conservato l’ultima eredità dell’antica chiaroveggenza e che portava questa eredità nella vita normale dell’anima.

 

Quali erano invece i discepoli intimi? Abbiamo appreso che i dodici erano formati dai sette fratelli detti Maccabei e dai cinque figli di Mattatia, e che attraverso la consanguineità del popolo ebraico antico si erano elevati fino all’affermazione energica dell’io immortale. Essi erano veramente i primi che il Cristo Gesù poté scegliersi per fare appello a ciò che vive in ogni anima, in modo tale da poter diventare un nuovo punto di partenza per il divenire dell’umanità.

 

Alla folla egli parlava presupponendo che essa lo avrebbe compreso mediante i residui dell’antica chiaroveggenza; ai suoi discepoli, presupponendo che essi fossero i primi a poter già comprendere, in parte, al modo in cui oggi si parla agli uomini sui mondi superiori. Era dunque condizionato da quell’epoca di grande svolta dei tempi, il fatto che il Cristo Gesù parlasse alla folla in modo diverso da come parlava ai suoi discepoli intimi.

 

Egli pone i suoi dodici in mezzo alla gente comune;

il compito di quella cerchia più ristretta di discepoli era di comprendere razionalmente

ciò che in seguito doveva diventare patrimonio comune dell’umanità,

cioè quanto riguarda i mondi superiori e i misteri dell’evoluzione umana.

 

Basta osservare nel suo insieme l’interpretazione della parabola del seminatore che Gesù dà ai suoi discepoli, per vedere che anch’egli parlava per così dire in parole socratiche.

Lui pure infatti estrae dall’anima di ciascuno quanto viene spiegando: Socrate però si limitava piuttosto alle condizioni terrene, alla logica ordinaria, mentre il Cristo Gesù parlava delle cose spirituali. Ne parlava però ai suoi discepoli più vicini quasi in modo socratico.

Quando il Buddha parlava ai suoi discepoli, egli spiegava loro le cose spirituali come risultano dalla illuminazione, cioè come consente di conoscerle solo il soggiorno nei mondi superiori.

 

Quando il Cristo parlava alla folla, si esprimeva in modo conforme alle esperienze

che in tempi passati l’anima umana comune aveva fatto nei mondi superiori.

Alla folla egli parlava vorrei dire, come un Buddha popolare;

ai suoi discepoli intimi come un Socrate superiore, come un Socrate spiritualizzato.

 

Socrate estraeva dalle anime dei suoi discepoli la ragione individuale, terrena;

il Cristo estraeva dalle anime dei suoi discepoli la ragione celeste.

Il Buddha offriva ai discepoli l’illuminazione celeste;

il Cristo offriva alla folla, con le sue parabole, l’illuminazione terrena.

 

Prendiamo queste tre immagini: laggiù, sulle rive del Gange, il Buddha con i suoi discepoli, controimmagine di Socrate; in Grecia Socrate coi suoi scolari, controimmagine del Buddha. Poi, quattro o cinque secoli più tardi, questa sintesi singolare, questa strana congiunzione. Ci troviamo di fronte a uno dei più alti esempi delle leggi che dominano il divenire dell’evoluzione umana.

 

L’evoluzione dell’umanità procede passo per passo.