Due correnti conducono verso il mistero del Golgota

O.O. 139 – Il Vangelo di Marco – 22.09.1912


 

La figura di Mosè ci è già nota, anche sotto gli aspetti occulti che sono stati spesso da me riferiti.

Sappiamo che secondo l’ordinamento della saggezza universale,

il passaggio dall’epoca dei primordi al tempo del mistero del Golgota si è effettuato per tramite di Mosè.

 

Dalle considerazioni fatte sul vangelo di Luca è emerso che nella figura del Gesù salomonico, di cui narra il vangelo di Matteo, si deve riconoscere la reincarnazione di Zaratustra. D’altra parte sappiamo che lo stesso Zaratustra provvide a preparare quella sua successiva incarnazione.

Ho ricordato spesso che mediante particolari processi occulti il corpo eterico di Zaratustra fu da lui ceduto e trasmesso a Mosè, nel quale operarono dunque le forze del corpo eterico di Zaratustra.

 

Perciò in Mosè (che insieme ad Elia appare ai lati del Cristo Gesù, nella scena della trasfigurazione) ritroviamo le forze che guidarono il trapasso dalla civiltà dei primordi fino al tempo In cui il Cristo Gesù si apprestava a compiere il mistero dal Golgota.

Anche sotto un altro aspetto possiamo scorgere in Mosè una figura di transizione.

 

Ci è già noto che Mosè non era solo il portatore del corpo eterico di Zaratustra, e con ciò anche della saggezza di Zaratustra che in lui poté poi manifestarsi, ma che in un certo senso Mosè fu altresì iniziato noi misteri di altri popoli.

Si deve infatti riconoscere una speciale scena d’iniziazione,

nell’incontro di Mosè con Ietro, sacerdote medianita di cui narra il libro dell’Esodo (2,16-21).

 

Vi è detto chiaramente che Mosè giunge presso quel sacerdote solitario, dal quale apprende non solo i segreti dell’iniziazione ebraica, ma anche quelli di altri popoli: e immerge quel che ha appreso nel proprio essere, rafforzato anche dal fatto di portare in sé il corpo eterico di Zaratustra.

Così per tramite di Mosè erano confluiti nel popolo ebraico i segreti iniziatici di tutto il mondo circostante: in tal modo egli poté preparare, a un gradino subalterno, ciò che doveva avvenire ad opera del Cristo Gesù.

Questa è dunque una delle correnti che conducono verso il mistero del Golgota.

 

L’altra corrente, alla quale abbiamo pure già accennato, è quella che viveva in modo naturale nel popolo ebraico stesso. Per quanto era possibile ai suoi tempi, Mosè fece confluire nella corrente ereditaria di Abramo, di Isacco e di Giacobbe quanto proveniva dalle civiltà di altri popoli.

Doveva però venire sempre conservato l’elemento più strettamente legato alla natura del popolo ebraico antico. A che cosa era destinato quel popolo? A preparare l’epoca che abbiamo già cercato di caratterizzare, quando abbiamo parlato, per esempio, della civiltà greca e in particolare di Empedocle (nella precedente conferenza).

Abbiamo cioè cercato di descrivere l’epoca in cui gli uomini andarono perdendo le antiche facoltà di chiaroveggenza, cioè la visione del mondo spirituale, mentre venne formandosi la capacità del giudizio razionale, propria dell’io umano, e l’io autonomo venne affermandosi.

 

Il popolo ebraico antico aveva il compito di fornire all’io

quello che può essergli dato dalla natura umana mediante l’organizzazione del sangue.

• In quel popolo doveva semplicemente esplicarsi

tutto quanto può scaturire dall’organizzazione fisica dell’essere umano.

• All’organizzazione fisica è legato tra l’altro l’intelletto;

e dall’organizzazione fisica del popolo ebraico antico

dovevano appunto venir ricavate le facoltà umane legate alla intellettualità.

 

Gli altri popoli dovevano gettar luce sull’organizzazione terrena

mediante l’iniziazione, cioè con qualcosa che proveniva da fuori.

Dalla compagine del popolo ebraico doveva invece emergere

ciò che aveva radici nella natura umana stessa, tramite la consanguineità.

 

Ecco perché con tanto rigore si insisteva sulla necessità di conservare la purezza del sangue,

la continuità della linea ereditaria portatrice delle qualità trasmesse da Abramo, da Isacco e da Giacobbe.

L’io è legato al sangue; e solo attraverso il sangue, per via ereditaria,

al popolo ebraico antico poté essere conferita l’organizzazione ad esso adeguata. 

 

Ho già accennato in altra occasione al significato che va attribuito al racconto biblico del sacrificio di Isacco e della sua mancata attuazione (Genesi, 22,1-19). Proprio il popolo ebraico era stato eletto dalla divinità per essere offerto all’umanità quale veicolo fisico esteriore per l’io dell’umanità intera. Nel fatto che Abramo sia disposto a sacrificare suo figlio si manifesta che nei discendenti di Abramo, nel popolo ebreo, Dio offriva quell’involucro fisico all’umanità. Sennonché sacrificando Isacco, Abramo avrebbe sacrificato la peculiare organizzazione destinata a fornire all’umanità la base fisica per l’intellettualità.

 

Isacco viene perciò restituito da Dio ad Abramo, e con esso viene donata nuovamente l’intera organizzazione. Questo è il grandioso aspetto della restituzione di Isacco.

Con ciò si vuol accennare anche al fatto che, nella figura di Mosè accanto al Cristo, nella trasfigurazione, è presente da un lato la corrente spirituale rappresentata dal popolo ebraico, quale strumento che concorre all’attuazione del mistero del Golgota.

 

Che cosa rappresenta invece immaginativamente la figura di Elia, nella stessa scena della trasfigurazione? In essa ci viene fedelmente mostrato come la totalità della rivelazione divina, vivente nel popolo ebraico, si unisce con quanto avviene nel mistero del Golgota.

Nel libro dei Numeri (il quarto libro dal Pentateuco) troviamo narrato come il popolo d’Israele sia caduto nell’idolatria, ma sia poi stato salvato da un uomo. Grazie alla decisa volontà d’un uomo gli Israeliti, l’antico popolo ebraico, non caddero interamente in preda all’idolatria.

 

Chi è quell’uomo?

Ci dice di lui la Bibbia (Numeri 10,142) che egli ebbe la forza di affrontare tutto il popolo che minacciava di accogliere l’idolatria dei popoli circostanti, e di difendere il Dio che era stato rivelato da Mosè. Era un’anima forte.

Questo prendere le parti della divinità vien tradotto comunemente col termine «zelo»: non si deve però interpretarlo in senso deteriore, ma come un’energica difesa. Leggiamo ai v.v. 10-12 del capitolo 25: «E il Signore disse a Mosè: Finees, figlio di Eleazaro, figlio di Aronne sacerdote, ha allontanato il mio sdegno dai figli d’Israele; animato dal suo zelo per me, ha fatto sì che io non distrugga i figli d’Israele nella mia indignazione. Per questo digli che io gli do il mio patto di pace».

 

Così Jahvé parlò a Mosè. Anche secondo l’antica dottrina occulta ebraica, questo passo è da considerarsi straordinariamente importante; e ce lo conferma l’indagine occulta moderna. Sappiamo che da Aronne discendono i rappresentanti del sommo sacerdozio dell’antico Israele, nei quali si trasmette quindi l’essenza vivente di quanto il popolo ebraico ha dato all’umanità.

 

La dottrina occulta ebraica antica e anche l’indagine occulta moderna riconoscono dunque che in quel passo del Vecchio Testamento si allude nientemeno che a questo: Jahvé comunica a Mosè di voler dare al popolo ebraico, nella persona di Finees (Pinehas), figlio di Eleazaro, figlio di Aronne (dunque nipote di Aronne) un sacerdote speciale che prende le parti di Jahvé, che gli è particolarmente unito.

Ora la dottrina occulta e l’indagine occulta moderna dicono che nel corpo di Finees viveva la stessa anima che più tardi comparve in Elia. Si tratta dunque di una linea continua che abbiamo già prima caratterizzata in certi suoi punti.

 

Nel nipote di Aronne è presente l’anima di Elia: essa opera in Finees.

Poi la ritroviamo in Elia-Nabot, e più tardi in Giovanni Battista;

sappiamo anche come essa prosegua ulteriormente il suo cammino nella storia dell’umanità.

 

Dunque nella scena della trasfigurazione ci viene presentata immaginativamente quest’anima,

mentre dall’altro lato appare l’anima di Mosè.

 

In questa scena sul monte ci si presenta proprio il confluire di tutta la spiritualità dell’evoluzione terrestre,

ci si presenta quello che, attraverso il sangue ebraico, affluisce nella sua essenza nel sacerdozio levitico.

Infatti davanti ai nostri occhi sta l’anima di Finees, il nipote di Aronne,

sta Mosè e fra i due si presenta colui che attuò il mistero del Golgota.

 

Ai tre discepoli iniziandi, Pietro, Giacomo e Giovanni

doveva venir rivelato in forma immaginativa il confluire di queste forze, di queste correnti spirituali.

 

Se dunque nella conferenza precedente ho accennato a una specie di appello partito dalla Grecia verso la Palestina, e a un altro appello, quasi di risposta, si trattava di qualcosa di più di una semplice immagine. Si trattava di preparare il grandioso colloquio, sul piano storico universale, che ebbe effettivamente luogo.

 

I discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni dovevano venire iniziati

alla comprensione di quello su cui conferirono le tre anime che apparvero loro, nella cosiddetta trasfigurazione:

• l’anima che appartiene al popolo dell’Antico Testamento;

• l’altra, quella di Mosè che porta in sé tanta sostanza spirituale,

• e la terza che si congiunge con la Terra nella sua qualità di divinità cosmica.

Ecco quello che i tre discepoli dovevano contemplare.