Esercizi di conoscenza e della volontà

O.O. 215 – Filosofia, Cosmologia e Religione – 09.09.1922


 

Gli esercizi da me descritti per pervenire alla ispirazione, sono in realtà soltanto esercizi preparatori per una conoscenza soprasensibile più avanzata. Essi certo consentono di poter conoscere il corso della propria vita, nel modo che ho caratterizzato, e permettono anche di conoscere il mondo dei dati di fatto eterici che si esplica dietro al pensare, al sentire e al volere dell’uomo, nelle vastità dell’esistenza terrestre.

Mediante l’eliminazione dei contenuti immaginativi acquistati dalla coscienza con la meditazione, o dopo la meditazione, mediante cioè la creazione della «coscienza vuota», si perviene certo anche a conoscere la natura eterica del cosmo e le entità spirituali operanti in essa, nelle loro manifestazioni.

 

Tuttavia, se si impara a conoscere in questo modo solo la vita animica, vale a dire l’organizzazione astrale dell’uomo, si riconosce anzitutto ciò che si presenta per l’organizzazione fisica dell’uomo nell’evoluzione ereditaria: in altre parole, ciò che si eredita per il corpo fisico dagli antenati, mediante i fatti connessi con l’ereditarietà.

Si apprende anche ciò che dal cosmo agisce entro l’organismo eterico, e che quindi non soggiace all’ereditarietà, ma al contrario le si sottrae ed ha importanza per l’individualità umana: cioè quello che libera l’uomo già nel suo corpo eterico e nella sua organizzazione astrale dai fattori ereditari che condizionano il suo corpo fisico.

 

É straordinariamente importante imparare in tal modo a distinguere

• fra ciò che si trasmette per via ereditaria fisica dagli antenati ai discendenti,

• e ciò che invece viene dato all’individuo umano dal mondo cosmico-eterico,

e mediante cui solamente l’individuo umano è realmente personale, individuale,

sottratto ai caratteri ereditari.

 

Il riconoscere chiaramente questa condizione è particolarmente importante per la scienza dell’educazione, per la pedagogia: le conoscenze alle quali sto ora accennando possono offrire solide basi per il pedagogista.

A tale riguardo mi sia concesso di accennare all’opuscolo di Albert Steffen dedicato al Corso Pedagogico, da me tenuto qui a Dornach l’anno scorso, e anche a quanto è pubblicato nell’ultimo numero (luglio/agosto 1922) della rivista in lingua inglese Anthroposophy, e che pure riguarda i problemi dell’educazione.

 

Gli esercizi finora descritti conducono a sviluppare quel tanto di conoscenza ispirata che è necessario per far conoscere all’uomo l’organizzazione astrale della vita terrena. Si impara a conoscere ciò che si è, in quanto essere animico-spirituale, nello sviluppo fra la nascita e il momento in cui ci si trova; ma tali conoscenze non sono ancora sufficienti per dire che quell’essere ha inizio con la vita terrena e che con essa finisce. Si perviene cioè fino a ciò che è animico-spirituale entro la propria vita terrena, ma non a riconoscere quell’elemento animico-spirituale come qualcosa di eterno, come il nucleo eterno dell’uomo. A questo fine, occorre che l’anima si rafforzi ancor più, mediante gli esercizi indirizzati ad allontanare le immagini prodotte con la meditazione: esercizi che vanno continuati e intensificati.

Tale continuazione non può consistere a tutta prima in niente altro che in un esercitarsi energico e ininterrotto. Si deve sforzarsi sempre di nuovo di allontanare dalla coscienza con energia le immagini che sono state o provocate o create dalla coscienza immaginativa, in modo che la propria coscienza risulti vuota. A poco a poco la capacità di questa eliminazione si rafforza talmente nell’anima, da poter allontanare perfino il grande quadro del corso della propria vita, a partire della nascita, che grazie alla immaginazione l’anima ha davanti a sé.

 

Si badi dunque bene: è possibile condurre tanto avanti gli esercizi rivolti alla eliminazione del contenuto animico e alla creazione di una coscienza vuota da conferire all’anima il potere di prescindere anche dal corso della propria vita.

Nel momento in cui si consegue tale forza, si comincia a vivere in una coscienza che non ha più dinanzi a sé né l’organismo fisico, né quello eterico, e con ciò neppure tutto ciò che l’organismo fisico e l’eterico accolgono dal mondo.

Per tale coscienza non è più presente nulla del mondo dei sensi, con tutte le sue impressioni sensoriali, ma neanche è presente la somma degli eventi eterici del cosmo, sui quali ci si era affacciati, grazie alla conoscenza immaginativa.

Tutto questo è stato dunque eliminato, e in tal modo nell’anima umana è sorto un grado più alto della ispirazione.

 

Ciò che si presenta grazie a questo stato di ispirazione più elevato, è la condizione in cui l’anima si trovava, entro un mondo animico-spirituale, prima di essere discesa in un organismo umano fisico attraverso la concezione, la vita embrionale e la nascita.

Si perviene dunque in tal modo a una conoscenza dell’esistenza preterrena dell’anima umana. Si guarda dentro ai mondi in cui l’anima si trovava, prima di ricevere qui sulla Terra anche solo un atomo (per così dire) di sostanza fisica. Si guarda indietro, all’evoluzione dell’anima umana nel mondo animico-spirituale, si impara a conoscere la preesistenza dell’anima umana.

Solo così si ha afferrato una delle facce dell’eternità del nucleo animico umano. E in fondo solo quando si è compreso questo, si può dire di conoscere la vera natura dell’entità dell’io umano, dell’uomo spirituale. Esso è dunque accessibile solo a quel grado della ispirazione che sia capace di prescindere non solo dal proprio corpo fisico e dalle sue impressioni, ma anche’ dal proprio corpo eterico, inteso come corso della vita, e dalle impressioni da esso ricevute.

 

Una volta progrediti fino alla conoscenza dell’anima umana pre-esistente, nella sua esistenza puramente animico-spirituale, si può conseguire anche la conoscenza di ciò che è realmente il pensare, quale noi uomini lo abbiamo nell’anima per la coscienza normale, durante l’esistenza terrena. Anche osservando la propria anima con la massima accuratezza, non è possibile riconoscere l’essenza del pensare mediante le facoltà e le forze della coscienza ordinaria.

 

Se ora debbo chiarire come si riveli alla ispirazione l’essenza del pensare umano terreno, sono costretto a servirmi di un’immagine, la quale però esprime pienamente la realtà. Rappresentatevi un cadavere umano che conservi ancora le forme avute durante la vita. I suoi organi sono ancora conformati come lo erano in vita. Eppure, guardando il cadavere, dobbiamo affermare che si tratta solo del residuo di ciò che era l’uomo vivo. Se poi studiamo il cadavere secondo la sua essenza, dobbiamo riconoscere che così come esso ci si presenta, non può possedere una realtà originaria. Esso non è concepibile come qualcosa che sia nato nella forma in cui ci si presenta come cadavere; non può esistere se non come residuo di un organismo vivente. Le forme del cadavere, le sue membra, ogni cosa ci indica non solo il cadavere stesso, ma ciò da cui esso è derivato. Se si osserva correttamente il cadavere nell’insieme della vita, si viene rinviati dal cadavere stesso a ciò da cui esso è provenuto, vale a dire all’uomo vivo. La natura alla quale noi affidiamo il cadavere non può che distruggerlo; non può edificarlo come tale. Se vogliamo ricercare nel cadavere le forze costruttive, dobbiamo guardare all’uomo vivo.

 

A un differente livello, si svela, in modo simile alla conoscenza ispirata l’essenza di quel pensare che noi esplichiamo nella coscienza ordinaria.

Quest’ultima infatti è in realtà un cadavere, o almeno qualcosa che durante la vita terrena trapassa continuamente in uno stato simile al cadavere, per quanto riguarda la sfera animica.

 

Il pensare vivo esisteva quando l’uomo non si trovava ancora nella sua esistenza terrena, ma era un essere animico-spirituale nel mondo animico-spirituale. Allora il pensare, il rappresentare, era qualcosa di completamente diverso: era una cosa viva inserita nel divenire spirituale.

La forza di pensiero che è presente oggi nella nostra coscienza ordinaria è un residuo di quell’essere spirituale vivente che noi eravamo prima di discendere sulla Terra: è un residuo avanzato, come lo è il cadavere nei confronti dell’uomo fisico vivo.

 

L’osservazione del cadavere mostra che esso riconduce all’uomo vivo; analogamente, chi osserva oggi mediante la conoscenza ispirata il nostro pensare agonizzante, se non già morto, scopre di dover considerare tale pensare come il cadavere del vero e proprio «ente pensante»; scopre cioè di dover ricondurre questo pensare terreno a un pensare soprasensibile e vivente.

È questo a rivelarci anche qualitativamente il rapporto fra una parte della nostra vita animica e la nostra esistenza pre-natale, puramente spirituale.

In questo modo impariamo realmente che cosa significhi il rappresentare e il pensare consueti, se li rapportiamo alla loro natura vivente, che non si trova entro l’esistenza terrena nella quale ne sussiste solo un riflesso: questo riflesso è appunto il pensare consueto.

 

Il nostro pensare abituale, nella sua astrattezza, è in fondo ben lontano dalla realtà vera, come il cadavere umano è lontano dalla realtà vera dell’uomo. Se parliamo dell’astrattezza, della mera intellettualità del pensare, è perché noi sentiamo oscuramente che, così come lo si trova nella coscienza ordinaria, il pensare non è quale dovrebbe essere: esso è derivato da qualcosa d’altro, in cui è presente la sua natura straordinariamente importante:

• che una vera conoscenza è in grado di riferire (non in luoghi comuni generici, ma in immagini concrete) ciò che l’uomo sperimenta qui nel corpo fisico, al suo nucleo essenziale eterno come si è fatto or ora a proposito del pensare ordinario.

Solo allora la comprensione del significato della immaginazione e della ispirazione vien messa nella giusta luce, perché allora si avrà compreso che, mediante gli esercizi necessari per conseguire l’immaginazione e l’ispirazione, il pensare agonizzante o già morto viene fatto rivivere entro l’esistenza terrena fisica.

 

L’acquistare la conoscenza ispirata significa dunque in fondo il ravvivamento del pensiero morente. Non è che in tal modo si venga ricondotti effettivamente all’esistenza prenatale, ma si acquista mediante la conoscenza animica un quadro reale di tale esistenza: un’immagine della quale si sa che non è nata qui sulla Terra, ma che risplende dall’esistenza umana preterrena entro l’esistenza presente. Nell’immagine si riconosce una testimonianza conoscitiva della condizione dell’anima umana nell’esistenza preterrena.

Come in tal modo si riesce a indagare la vera essenza del pensare qual’è nella coscienza ordinaria, così la conoscenza soprasensibile di cui stiamo parlando è in grado di spiegare anche l’essenza di ciò che sta a fondamento del volere.

A tal fine però non basta la conoscenza superiore chiamata ispirazione, ma è necessario conseguire il grado che abbiamo chiamato intuizione: ne ho parlato nella conferenza precedente, dicendo che per svilupparla sono necessari certi esercizi della volontà.

 

Se si mettono in pratica questi esercizi della volontà, si perviene ad estrarre la propria entità animico-spirituale sia dall’organismo fisico, sia da quello eterico. La si porta fuori, nel mondo spirituale stesso: si porta fuori nel mondo spirituale la propria natura in quanto è organizzazione astrale e dell’io.

Si apprende così a conoscere che cosa significhi vivere al di fuori del proprio organismo fisico ed eterico. Si impara a conoscere la condizione in cui viene a trovarsi l’anima umana, quando ha deposto l’organismo fisico e quello eterico. Ciò significa niente di meno che conseguire una previsione di quanto avviene dell’uomo quando passa per l’evento della morte.

 

Con l’evento della morte vengono appunto deposti l’organismo fisico e quello eterico. Essi vengono deposti in maniera tale che essi non possono più formare l’involucro dell’uomo, nella forma che avevano assunta durante l’esistenza terrena.

Che cosa poi avvenga del vero nucleo essenziale dell’uomo, questo si manifesta già come previsione alla conoscenza intuitiva, quando ci si trova col proprio io, invece che entro il corpo fisico, fuori nel mondo delle entità spirituali. Lo si è infatti.

 

Mediante la conoscenza intuitiva si riesce a trovarsi (fuori della propria organizzazione fisica ed eterica) entro altre entità spirituali, come di solito qui nella vita terrena si sta dentro il proprio corpo fisico e il proprio corpo eterico. Grazie alla intuizione si consegue dunque un quadro di esperienze che raffigura ciò che si dovrà sperimentare quando si passa per l’evento della morte.

Solo in questo modo è possibile ottenere una vera conoscenza di ciò che sta a fondamento dell’idea dell’anima umana immortale.

 

L’anima umana

• è, da un lato, non-nata: questo ci viene mostrato già dalla conoscenza ispirata;

• dall’altro lato, essa è immortale, e questo si rivela alla intuizione.

 

Imparando per mezzo dell’intuizione a conoscere la vera essenza del nucleo essenziale eterno dell’uomo, in quanto deve condurre una vita dopo la nostra morte fisica, si apprende d’altra parte anche a conoscere ciò che sta dietro al volere umano.

Abbiamo appena descritto, come l’ispirazione mostri ciò che sta dietro all’umano pensare.

 

Ciò che sta dietro al volere umano si apre alla conoscenza, se si consegue l’intuizione mediante esercizi della volontà; dietro al volere si rivela qualcosa di completamente diverso, di cui il volere della coscienza ordinaria è solo un riflesso.

Si scopre infatti che il volere nasconde qualcosa che in certo senso è un elemento più giovane della vita animica umana.

 

Se del pensare abbiamo parlato come di qualcosa in procinto di morire, anzi di già morto, e possiamo considerarlo la parte più vecchia dell’anima umana, il volere va invece considerato come la parte più giovane dell’anima umana.

Possiamo dire che il volere (o meglio, ciò che come realtà animica sta dietro al volere) sta al pensare, come un piccolo bambino sta a un vecchio.

Solo che, considerando il bambino e il vecchio, troviamo che nell’organizzazione umana quella del vecchio è presente dopo quella del bambino; nella sfera animica invece l’elemento infantile e quello senile coesistono l’uno a fianco dell’altro.

 

L’anima contiene in sé continuamente la propria vecchiaia e la propria giovinezza,

anzi la sua morte e la sua nascita.

 

In confronto a una tale conoscenza dell’anima, appoggiata sull’ispirazione e sull’intuizione, ciò che oggi vien chiamato psicologia é qualcosa di straordinariamente astratto: essa si limita infatti a descrivere il pensare e il volere.

La conoscenza reale dell’anima è invece in grado di indicare

• che quando il volere è vecchio diventa un pensare,

• e che il pensare invecchiato, anzi morto, deriva da un volere.

Così si impara a conoscere realmente la vita animica e si apprende a considerare il fatto che ciò che in questa vita terrena ci si manifesta come un pensare, in una vita terrena precedente era stato un volere, e che quanto in questa vita terrena è un volere (cioè qualcosa di ancora giovane nella vita dell’anima), in una vita terrena successiva diventa un pensare.

In questo modo si impara a guardare dentro l’anima e s’impara a conoscerla veramente. Allora la parte dell’anima umana che esercita il volere si rivela come qualcosa che conduce una vita embrionale.

 

Quando usciamo fuori nel mondo spirituale con un impulso del nostro volere, abbiamo un’anima giovane, che col suo carattere ci ammaestra sul fatto che essa in fondo è bambina. E come di un bambino non possiamo pensare che non diventi un vecchio (salvo il caso che sia ammalato), altrettanto poco possiamo ammettere di un’anima riconosciuta come giovane (e ce lo mostra la intuizione), che essa venga annientata dalla morte, poiché ha appena raggiunto la propria vita embrionale.

Mediante l’intuizione impariamo come l’anima umana entri nel mondo spirituale nel momento della morte.

Ciò significa riconoscere veramente il nucleo essenziale dell’uomo, secondo i suoi caratteri fondamentali: quelli di non essere nato e non essere mortale. Di fronte a questo, la filosofia moderna lavora solo con idee che sono tratte dalla coscienza ordinaria ma che cosa significa ciò? Da quanto è stato esposto risulta che si tratta di entità animiche morte.

 

Se la filosofia che usa le idee della coscienza ordinaria vuole esaminare correttamente la parte pensante dell’anima, per giungere a risultati attendibili sulla natura del pensare, dovrebbe riconoscere (purché sia abbastanza spregiudicata) che il pensiero proprio della coscienza ordinaria non spiega da se stesso la sua esistenza, proprio come di fronte a un cadavere si deve riconoscere che esso non può essere derivato da un altro cadavere, ma da qualcosa di diverso.

La fisiologia ci mostra l’esattezza di questa deduzione.

 

Davanti ai risultati ora esposti dell’indagine fatta con l’intuizione, la filosofia dovrebbe trarne la conclusione seguente: proprio perché il pensare, il rappresentare ordinario hanno il carattere di qualcosa che sta morendo, ho il diritto di dedurre l’esistenza di qualcosa che li ha preceduti.

La filosofia può scoprire mediante giudizi logici, mediante la dialettica, cioè in modo indiretto, dimostrativo, ciò che la ispirazione scopre per conoscenza diretta.

 

Che cosa dovrebbe dunque fare una filosofia che voglia rimanere ferma entro la coscienza ordinaria? Dovrebbe ragionare così: se non voglio innalzarmi a una qualsiasi conoscenza soprasensibile, dovrei per lo meno analizzare ciò che è presente nella coscienza ordinaria.

Se essa procede senza preconcetti a una tale analisi, troverà che il pensare, il rappresentare della coscienza ordinaria ha le caratteristiche di una cosa morta.

Se ne dovrebbe dedurre che, così com’è, esso non può spiegare da sé la propria natura, e che quindi qualcosa di diverso e di più reale deve averlo preceduto.

Certo, per giungere a riconoscere ciò, occorre quella mancanza di preconcetti che è capace appunto di scorgere il carattere per così dire cadaverico del pensare ordinario.

Una tale mancanza di preconcetti è peraltro possibile; solo il preconcetto infatti può vedere nel pensiero ordinario qualcosa di vivente.

L’assenza di preconcetti lo svela come qualcosa di morto; perciò dissi nella conferenza precedente che è senz’altro possibile accogliere il contenuto della scienza naturale nel pensare morto.

La filosofia intellettualistica può dunque pervenire solo in modo indiretto a conoscere il nucleo essenziale eterno dell’uomo: e precisamente solo mediante la conoscenza di qualcosa che va considerato come un quid di precedente la vita terrena.

 

Se una tale filosofia vuole poi esaminare non soltanto il pensare, ma anche l’esperienza interiore del volere, e in genere delle altre forze dell’anima (che nel contesto universale sono più giovani del pensare), essa può farsi un’idea del reciproco giuoco fra il pensare e il volere. In tal caso essa perviene alla conclusione logica del rapporto fra il pensare che va morendo e l’esistenza preterrena che essa non è in grado di percepire, né di riconoscerne l’essenza, ma di cui può dedurre l’esistenza in una sfera sconosciuta.

Se poi approfondisce l’indagine del volere o delle forze del sentimento, e se sperimenta il cangiante rapporto fra il pensare e le forze del sentimento, potrà riconoscere non solo un elemento che va morendo, ma anche un elemento embrionale rappresentato dal volere. Purché lo si formuli senza preconcetti nei termini adeguati, si potrà trovare questo risultato anche nella filosofia del Bergson.

 

Dal modo come egli si esprime filosoficamente, si rileva in lui un impulso la cui sensazione gli consente di penetrare nella conoscenza di un nucleo essenziale eterno dell’anima umana.

Poiché però il Bergson rifiuta di accedere a una conoscenza soprasensibile, egli perviene solo alla conoscenza di un nucleo essenziale umano in quanto si manifesta entro l’esistenza terrena; dalla sua filosofia egli non può quindi ricavare prove valide della preesistenza e dell’immortalità.

Tuttavia egli caratterizza da un lato il pensare come qualcosa di invecchiato (anche se lo esprime con altre parole), come qualcosa con caratteri di morte che ricopre le impressioni sensoriali.

D’altro canto, egli sente (e lo descrive in modo vivo) qualcosa di embrionale nel volere: in questo egli è capace di immergersi vivamente, sì da far sentire che vi è presente un elemento immortale. In questo modo però egli perviene solo a caratterizzare il nucleo animico-spirituale dell’uomo entro l’esistenza terrena, e non oltre.

 

Ogni filosofia intellettuale, fondata solo sulla coscienza ordinaria, può dunque, se è sincera, giungere indirettamente, mediante una analisi del pensare e del volere, fino a concludere che l’anima è un ente non nato e immortale, ma non può arrivare a riconoscerlo direttamente.

Un tale riconoscimento diretto, cioè il compimento della filosofia intellettuale, la visione diretta dell’entità reale e eterna dell’anima, può dunque acquistarsi solo mediante l’immaginazione, l’ispirazione e l’intuizione, come le ho descritte in precedenza.

Perciò un contenuto reale che riguardi l’eterno dell’anima umana, se anche emerge nella filosofia d’oggi, non può essere che tratto da conoscenze più antiche, semi-coscienti, anche se spesso i filosofi ignorano questo fatto e credono di averlo scoperto essi stessi. Tale contenuto può essere enunciato con dialettica e con logica.

Tuttavia, un vero rinnovamento della vita filosofica nascerà solo se la vita spirituale contemporanea riconoscerà l’immaginazione, l’ispirazione e l’intuizione pienamente coscienti: se non solo riconoscerà la validità di questi metodi di conoscenza, ma se ne applicherà effettivamente i risultati all’indagine filosofica.

 

Cercherò ora di spiegare come stanno le cose per quanto concerne la cosmologia e la religione.

Abbiamo esposto come alla conoscenza del nucleo essenziale eterno dell’uomo, quale è presente nell’esistenza extra-terrena, si può pervenire soltanto mediante un grado elevato della ispirazione.

Si potrà quindi affermare: solo con questa ispirazione di grado più elevato e (dato ciò che ho spiegato sulla intuizione) solo con la intuizione l’uomo può veramente conoscere se stesso.

 

Dunque l’uomo può conoscere ciò che dal cosmo interferisce nel proprio essere solamente grazie alla ispirazione più alta e alla intuizione. Se solo con questi mezzi di conoscenza l’uomo può conoscere se stesso, una vera cosmologia, cioè un’immagine del cosmo che comprenda anche l’uomo nella sua entità totale, può scaturire soltanto entro la conoscenza ispirata e intuitiva.

Solo così l’uomo può conseguire una conoscenza di ciò che, anche durante la sua esistenza terrena, lavora sul suo corpo fisico e sul suo organismo eterico.

Infatti nell’organismo fisico e in quello eterico la parte animico-spirituale dell’uomo non solo è nascosta, ma durante l’esistenza terrena essa è addirittura trasformata, per ciò che riguarda la vita diurna di veglia.

Come la radice non può esprimere la vera figura di una pianta, così l’osservazione dell’organismo fisico ed eterico non può trasmettere una visione del nucleo essenziale eterno dell’uomo.

 

Si può acquistare una tale visione solo se si osserva ciò che dell’uomo si trova prima della nascita e dopo la morte. Solo allora però è possibile riferire a un cosmo la vera entità dell’uomo che si deve constatare al di fuori dell’esistenza terrena. Ecco perché la vita culturale moderna, nell’epoca in cui ha respinto qualsiasi chiaroveggenza, non ha avuto alcuna possibilità di pervenire a una cosmologia che comprenda anche l’uomo, come ho già avuto modo di accennare nei giorni scorsi, ma soprattutto in questa stessa conferenza. Eppure in tempi passati, e soprattutto alla fine del Settecento, ma ancora all’inizio del secolo XIX, da parte filosofica si è andata elaborando una parte della filosofia che veniva chiamata «cosmologia razionale».

Questa cosmologia razionale, che doveva costituire una parte della filosofia, veniva elaborata dai filosofi solo mediante la coscienza ordinaria.

Ma se già con la filosofia ordinaria si incontravano le difficoltà menzionate per penetrare fino alla vera essenza dell’anima, si capirà che è del tutto impossibile trovare un contenuto reale per una cosmologia che comprenda anche l’uomo, se ci si vuole muovere soltanto nelle idee nate dalla coscienza ordinaria.

 

La cosmologia razionale elaborata fino a poco tempo fa dai filosofi, per quanto riguarda il suo contenuto, viveva quindi in realtà di idee cosmologiche ricavate dalla tradizione: di idee acquisite dall’umanità quando esisteva ancora una chiaroveggenza sognante, di idee che possono venir rinnovate solo mediante la chiaroveggenza esatta di cui stiamo parlando noi.

Anche in questo dominio i filosofi non sapevano che in fondo stavano attingendo alla cosmologia antica. Certe idee venivano loro in mente: in realtà erano attinte dalla storia della cosmologia, ma essi credevano che fossero loro idee originali. Ciò che essi producevano non erano altro che connessioni logiche, mediante le quali collegavano tra loro le vecchie idee e tutt’al più formulavano una nuova sistematica. Così nacquero nel passato certe cosmologie, come parti della filosofia, ma poiché non si aveva più un rapporto vivo con le idee concepite (che derivavano dall’antica chiaroveggenza), le idee dei cosmologi divennero sempre più astratte.

 

Si provi a consultare i libri filosofici del passato, nei capitoli relativi alla cosmologia, e si vedrà quanto siano astratte e in fondo vuote le idee che vi vengono svolte sull’origine del mondo, sulla sua fine, e così via.

In tempi antichissimi queste idee erano vive, perché l’uomo aveva un rapporto vivo con ciò che quelle idee esprimevano. A poco a poco quelle idee erano diventate vuote e astratte: si parlava solo in modo esteriore di quanto dovrebbe contenere una cosmologia che non si fermi all’ordine naturale esterno, ma che possa contenere anche l’uomo in tutta la sua essenza e che tenda alla conoscenza del fondamento animico-spirituale del cosmo.

A tale riguardo il brillante filosofo Emile Boutroux ha dato qualche indicazione interessante sul modo in cui si dovrebbe giungere a una cosmologia. Poiché anche lui però voleva fondarsi solo su quanto viene afferrato dalla coscienza ordinaria, lui pure giunse solo a una cosmologia astratta.

 

Così le cosmologie divennero sempre più vuote e più astratte, più prive di un contenuto reale, divennero una somma di idee e considerazioni astratte. Non può quindi far meraviglia, se una tale cosmologia razionale è caduta gradualmente in gran discredito.

Aumentò invece l’autorità degli scienziati, per i loro brillanti risultati nello studio materiale della natura, come si è verificato negli ultimi tempi. Essi sono in grado di formulare leggi della natura, constatando con l’osservazione e l’esperimento certi comportamenti regolari dei fenomeni, e ricavandone una cosmologia naturalistica.

 

Così la cosmologia naturalistica fondata sulle leggi naturali ha messo insieme un certo contenuto, appunto quello materiale esteriore.

Contro tale contenuto non era certo in grado di affermarsi la vuota cosmologia razionale costruita da certi filosofi. Perciò essa cadde in discredito; la si lasciò cadere e quindi non si parla nemmeno più di una cosmologia razionale (cioè solo costruita logicamente), ma ci si accontenta di una cosmologia naturalistica: questa però non comprende l’uomo.

Si può dunque dire che proprio la cosmologia, ancora più della filosofia, insegna la necessità di dover ricorrere alla immaginazione, alla ispirazione e alla intuizione.

 

La filosofia può almeno osservare le anime degli uomini: se osserva con obiettività il pensare, essa scopre che è soggetto a un processo di morte e come tale accenna all’esistenza di qualcosa di vivo da cui deve essere derivato; può scoprire inoltre che al di fuori dell’intera esistenza umana esiste qualcosa che nell’intimo comprende l’uomo; infine può indicare una via di indagine che va al di là della morte.

La filosofia può dunque almeno arricchire le sue astrazioni, mediante le deduzioni logiche tratte dalla intensa vita del pensiero, del sentimento e della volontà. Questo dunque è ancora possibile.

La cosmologia può invece sostenersi, in quanto scienza spirituale, solo se le si offre un contenuto, preso anche dalla conoscenza spirituale; in questo campo non si può più neppure dedurre l’esistenza di un contenuto.

 

Se si vuole avere un contenuto, occorre trarlo dalle antiche conoscenze chiaroveggenti, quale esso viveva nelle antiche idee tradizionali; oppure bisogna riscoprire il contenuto in un modo nuovo, come ho spiegato nei giorni scorsi.

Se dunque la filosofia è ancora in grado di percorrere la via della logica, questo non è più possibile a una cosmologia. Perciò la cosmologia razionale, capace di fondarsi solo sulla coscienza ordinaria, ha perduto il suo contenuto e il suo prestigio.

Se poi vogliamo pervenire a una nuova cosmologia, superando i limiti della cosmologia naturalistica, a una cosmologia che comprenda l’uomo nella sua totalità, dobbiamo accettare di studiare nell’uomo (mediante immaginazione, ispirazione e intuizione) quella sua parte in cui si rispecchia il cosmo spirituale.

In altre parole: ancor più della filosofia, la cosmologia ha bisogno che la nuova vita spirituale dell’umanità adotti i metodi della immaginazione, della ispirazione e della intuizione pienamente coscienti, e ne applichi i risultati appunto a un rinnovamento della cosmologia.

Vediamo ora come stanno le cose, da tale punto di vista, per quanto riguarda la religione.

Ai fini di un fondamento conoscitivo della vita religiosa è necessario che le esperienze, che l’uomo spirituale può fare in mezzo alle entità spirituali, vengano portate e descritte entro la sfera della vita terrena. Quelle esperienze sono totalmente diverse dalla vita terrena. Si tratta di esperienze nelle quali l’uomo si trova proprio soltanto al di fuori della vita terrena; esse possono venire comprese da quelle forze umane che sono del tutto indipendenti dall’organismo fisico ed eterico dell’uomo e che quindi non possono certamente trovarsi entro la coscienza ordinaria.

Solo quando la coscienza ordinaria è ascesa a facoltà chiaroveggenti può dare delle descrizioni di esperienze che l’uomo fa nel mondo puramente spirituale. Perciò una «teologia razionale», una teologia che vuole fondarsi soltanto sulla coscienza ordinaria, si trova in una condizione ancora peggiore di quella di una «cosmologia razionale».

 

La cosmologia razionale ha pur sempre qualche vaga possibilità di illuminare l’esistenza terrena dell’uomo, poiché (sia pure in modo indiretto) anche l’uomo fisico e quello eterico sono in parte condizionati nella loro vita da entità spirituali.

Le esperienze che l’uomo fa in mondi puramente spirituali, e che sono fatte mediante la intuizione esatta, non possono in alcun modo venire dedotte dalla coscienza ordinaria, come avviene nella filosofìa, e non possono venire neppur presagite.

 

Oggi, con la conoscenza totalmente fondata sulla coscienza ordinaria, quelle esperienze non possono che essere derivate dalle tradizioni di tempi antichi in modo ancora più evidente di quanto già si è detto per le idee cosmologiche: dalle tradizioni dei tempi in cui gli uomini erano in grado di penetrare con una chiaroveggenza sognante entro i mondi spirituali e trasferirne le esperienze in questo mondo terreno.

Sbaglia grandemente chi s’immagina di poter comunicare l’essenza di ciò che l’uomo sperimenta nel mondo divino mediante idee fondate esclusivamente sulla coscienza ordinaria. Perciò la teologia è sempre più diventata una specie di teologia storica, nella quale essa accoglie (ancor più della cosmologia) solo le antiche idee sul regno divino, ricavate con la chiaroveggenza d’un tempo passato.

 

Queste idee vengono poi combinate in un sistema, mediante la logica e la dialettica; si crede di trovarvi qualcosa di originario, ma non è altro che la sistematizzazione del patrimonio di chi elabora una tale teologia.

È un prodotto storico, talvolta rimpastato in forme nuove; ma quel che vi è presente come vero contenuto è appunto preso di peso dalla tradizione, dalla storia, da parte di chi vuole attingere solo alla coscienza ordinaria.

Così è caduto in un discredito ancora maggiore ciò che singoli filosofi hanno elaborato in passato come una cosmologia razionale o addirittura hanno tentato di elaborare come una teologia razionale.

Nel primo campo, la cosmologia razionale è caduta in discredito nei confronti della cosmologia naturalistica; qui, nella sfera religiosa, la teologia razionale è caduta in discredito nei confronti della teologia puramente storica, di quella teologia che rinuncia alla realtà pura, alla creazione diretta di idee sul mondo spirituale, a un’esperienza diretta del mondo spirituale.

Questo rapporto diretto con l’esperienza del mondo spirituale era in realtà già andato perduto per l’umanità, quando nel medioevo ci si mise a cercare le prove della esistenza di Dio.

Fintanto che esisteva un rapporto diretto con l’esperienza del mondo divino, non si parlava di dimostrazioni logiche o dialettiche dell’esistenza di Dio. Tali «dimostrazioni» sono esse stesse la prova che, quando si cominciò a parlarne, era cessato il rapporto vivente col regno di Dio.

 

In fondo aveva ragione la teologia scolastica, dicendo che la ragione ordinaria non è in grado di conoscere il regno di Dio: essa può solamente chiarire ed erigere a sistema le idee che sono già presenti. Essa può solo contribuire a formulare la dottrina in una forma accettabile.

Possiamo constatare che in tempi recenti da questa impotenza della coscienza ordinaria a conoscere qualcosa del regno di Dio, sono derivate due aberrazioni.

 

• Vi sono da un lato gli scienziati che vogliono parlare di Dio e della religione, ma sentono l’impotenza della coscienza ordinaria nei confronti del regno di Dio, e quindi sviluppano semplicemente una storia delle religioni. In questo modo, ai nostri giorni non è possibile produrre un contenuto veramente religioso; perciò si studiano le religioni attuali e quelle passate con criteri storici. E che cosa si prende in considerazione? In fondo, si studia il contenuto religioso esistito nel passato grazie all’antica chiaroveggenza intuitiva e sognante. Oppure si studia quel che nella vita religiosa contemporanea sussiste come residuo dell’antico stato chiaroveggente sognante. Si definiscono tali studi come storia delle religioni, rinunciando completamente alla esplicazione di una propria vita religiosa.

• Altri invece notano che la coscienza ordinaria, la chiara coscienza quotidiana dell’uomo d’oggi è effettivamente incapace di esprimersi sulle esperienze che si possano fare nel regno puramente spirituale, divino. Allora ci si rivolge piuttosto alle regioni subcoscienti dell’anima umana, alla sfera dei sentimenti, a certe facoltà mistiche, e si parla di un’esperienza diretta, elementare di Dio.

 

Se ne parla molto volentieri, oggi; anzi, gli assertori di una tale esperienza elementare del divino sono proprio caratteristici della condizione spirituale del nostro tempo.

Essi rifuggono con ogni mezzo dal formulare la loro coscienza di Dio in idee chiare, logicamente elaborate. Cercano prolissamente di mostrare che quella esperienza diretta del divino, che secondo loro costituisce la religione vera, non può essere dimostrata logicamente e che occorre rinunciare ad esprimere in forme intellettualistiche i contenuti religiosi.

Questi rappresentanti di una coscienza elementare del divino si fanno però delle illusioni, perché qualunque cosa venga sperimentata in una regione dell’anima può anche essere espressa in idee chiare.

Se si formula la teoria (secondo il modello di queste affermazioni) che il contenuto religioso non sopporta di essere messo in idee chiare, si mostra di non possedere un reale patrimonio di idee, ma solo qualcosa di sognato.

È particolarmente caratteristico del nostro tempo, per quanto concerne la vita religiosa, che si faccia appello a qualcosa che, se si vuole illuminarlo con chiarezza, in realtà cade in errore.

Ne deriva in particolare che potremo giungere al rinnovamento della base conoscitiva della vita religiosa solo se non rifiuteremo un metodo di conoscenza capace di condurre alla percezione viva dell’esperienza dell’uomo spirituale e delle entità spirituali. Un tale metodo di conoscenza è particolarmente indispensabile per il fondamento conoscitivo della religione.

 

Per la religione infatti la coscienza ordinaria può tutt’al più sistematizzare certe conoscenze, o esporle con chiarezza, o formularle in dottrina: mai invece è in grado di trovarle essa stessa.

Altrimenti la religione deve limitarsi ad accogliere ciò che è scaturito in tempi passati da atteggiamenti delle anime del tutto diversi da quelli attuali. In questo modo essa non potrebbe mai dar soddisfazione alla coscienza educata dalla scienza moderna.

 

Riguardo al fondamento conoscitivo della religione va quindi espresso un pensiero che oggi ho già espresso per le altre due sfere, ma che deve essere enunciato in modo diverso per ciascuna delle tre. Debbo quindi esprimerlo ancora una volta per il fondamento conoscitivo della religione.

 

Se si vuole rinnovare la vita religiosa partendo dalle esigenze spirituali del nostro tempo, e rinfocolarne la vitalità, la vita spirituale del presente deve ricorrere alla conoscenza immaginativa, ispirativa e intuitiva pienamente cosciente; in particolare per la sfera religiosa non deve solo riconoscerla, ma deve applicare questi risultati scientifico-spirituali in modo adeguato al contenuto vivente della religione.