Gli effetti dell’ultima reggenza di Michele rispetto a quella attuale.

O.O. 237 – Nessi karmici Vol. III – 01.08.1924


 

Sommario: Effetti dell’ultima reggenza di Michele. Dal secolo IX l’intelligenza è amministrata dagli uomini. La lotta fra gli scolastici e i mori postaristotelici. La dottrina del peccato originale negli antichi misteri e nella scuola soprasensibile. I nuovi misteri. Lo scoramento degli antichi misteri al tempo di Alessandro. Per Michele l’uomo deve ora comprendere il divino senza il peccato. La difesa contro Arimane. Compito dell’antroposofo nella lotta fra Michele e Arimane. Raimundus de Sabunda. L’impulso di Michele non è solo nella rivelazione, ma anche nel libro della natura.

 

Oggi vogliamo soprattutto porre in evidenza un punto:

la precedente reggenza di Michele, l’ultima cioè rispetto a quella attuale,

durò tre secoli e terminò al tempo di Alessandro Magno in epoca pre-cristiana;

altri Arcangeli assunsero la guida della Terra.

 

Quando si svolse sulla Terra il mistero del Golgota la comunità di Michele era riunita nel mondo spirituale con le entità spirituali e umane che ne facevano parte. Col mistero del Golgota esse sentirono che il Cristo in quel momento lasciava la loro sfera, la sfera solare, mentre gli uomini allora viventi sulla Terra sentirono che con il mistero del Gòlgota il Cristo si avvicinava a loro sulla Terra.

Questo è un poderoso, direi gigantesco contrasto fra questi due modi di sperimentare da parte delle due specie di anime; in questo contrasto dobbiamo immergerci con tutto il cuore.

Poi cominciò il tempo in cui l’intelligenza cosmica, ossia l’essenza intelligente effusa sull’intero mondo, la quale fino alla fine del tempo di Alessandro era in modo illimitato gestita da Michele, passò a poco a poco in potere degli uomini sulla Terra, sfuggì per così dire a Michele.

 

Riguardo a queste cose l’evoluzione dell’umanità procedette in modo che fino al termine dell’epoca di Alessandro, anzi fino a qualche tempo dopo, e per singoli gruppi umani ancora per gran tempo dopo, si era coscienti che quando una persona era intelligente, essa non sviluppava tale intelligenza in sé, ma che tale facoltà le veniva donata dai mondi spirituali.

Se si pensava qualcosa di intelligente, lo si attribuiva a ispirazione di esseri spirituali. Da non molto tempo si ascrive a se stessi l’intelligenza, e questo perché dalle mani di Michele la gestione dell’intelligenza è passata a quelle dell’uomo.

Quando, alla fine degli anni Settanta del secolo diciannovesimo, Michele riassunse la reggenza nella guida dei destini terreni, trovò nella sfera umana l’intelligenza cosmica che dai secoli ottavo o nono dell’era cristiana gli era del tutto sfuggita.

 

Questa era la condizione già nell’ultimo terzo del secolo diciannovesimo quando, dopo la reggenza di Gabriele, ritornò quella di Michele.

Avvicinandosi agli uomini intelligenti, Michele poteva in certo modo dire: qui ritrovo quel che mi è sfuggito, quel che un tempo fu gestito da me.

La grande lotta svoltasi nel medioevo fra le personalità che furono di guida all’ordine domenicano e quelle che nella prosecuzione dell’alessandrinismo asiatico si erano trasferite in Spagna, come Averroè e i suoi, era avvenuta perché questi ultimi, ossia i post-aristotelici maomettani, dicevano: l’intelligenza è qualcosa di universale. Essi parlavano di pan-intelligenza, non di singola intelligenza umana. Per Averroè la singola intelligenza umana era soltanto una specie di riflesso nella singola mente umana di qualcosa che in realtà aveva solo esistenza universale.

 

Immaginiamo uno specchio. Invece di nove parti dello specchio si potrebbero naturalmente disegnarne cento, mille o milioni. Al centro immaginiamo un oggetto che vi si rifletta. Così stavano le cose per Averroè il quale fu assai vivamente combattuto da Tommaso d’Aquino. Per Averroè, conforme alla tradizione che si ricollegava all’antico periodo micheliano, l’intelligenza era pan-intelligenza, un’intelligenza unica che le singole teste umane rispecchiavano; quando poi la testa non era più attiva, non esisteva più intelligenza individuale. Come stavano in realtà le cose?

 

Quel che Averroè pensava era stato giusto fino alla fine dell’epoca di Alessandro: fu veramente una realtà cosmico-umana fino al termine di quel periodo; Averroè rimase fermo a tale concezione. I domenicani invece procedettero con l’evoluzione dell’umanità. Essi dissero: non è così. Avrebbero naturalmente anche potuto dire: un tempo fu così, ora tutto è mutato. Non lo dissero. Si attennero allo stato di fatto esistente nel secolo tredicesimo e che nei secoli quattordicesimo e quindicesimo si accentuò sempre più. Dissero: ognuno ha il proprio intelletto. Questo è quanto avvenne.

Chiarire completamente tutto questo fu il compito della scuola soprasensibile della quale parlai la volta scorsa. In essa tutto venne ripetutamente affermato in ogni possibile metamorfosi, mentre sempre di nuovo veniva descritto il carattere fondamentale degli antichi misteri. Con grandiosa evidenza, non in immaginazioni (queste comparvero solo al principio del secolo diciannovesimo) ma in ispirazioni soprasensibili, venne descritto quello di cui ebbi spesso l’occasione di presentare come un riflesso, parlando degli antichi misteri.

 

Poi venne anche indicato l’avvenire, che cosa i nuovi misteri dovevano diventare, tutto ciò che doveva penetrare negli animi in modo diverso dagli antichi misteri, poiché allora gli uomini sulla Terra non possedevano ancora l’intelligenza e perciò sperimentavano i mondi spirituali solo in forma sognante.

Le anime vennero guidate verso i nuovi misteri che in campo antroposofico dobbiamo cominciare a comprendere, e che sono assolutamente in armonia con la piena intelligenza umana, con la chiara, luminosa intelligenza.

 

Addentriamoci un poco nell’intimo della dottrina di quella scuola soprasensibile.

Tali intime dottrine conducevano alla conoscenza di ciò di cui solo un riflesso penetrò sulla Terra nelle concezioni umane dal tempo dell’antico ebraismo e poi nell’era cristiana. Anche oggi, mentre dovrebbero già regnare vedute più profonde, la massima parte degli uomini di ciò non possiede che un riflesso tradizionale: intendo la dottrina del peccato, dell’uomo soggetto al peccato, dell’uomo che al principio dell’evoluzione umana sarebbe stato destinato a discendere nella materia meno profondamente di quanto vi discese.

 

Una versione ancora buona di quella dottrina si trova per esempio in Saint-Martin, il « filosofo sconosciuto »; egli insegnava ancora ai suoi discepoli che in origine, prima che sulla Terra avesse inizio l’evoluzione umana, l’essere umano era a una certa altezza e ne decadde in conseguenza di un peccato originario che il Saint-Martin chiamò « l’adulterio cosmico »; l’essere umano discese alla condizione in cui oggi si trova in conseguenza di un peccato originario. Con tale insegnamento Saint-Martin indicava quel che fa parte della dottrina del peccato lungo tutta l’evoluzione umana: il concetto che l’uomo non si trova all’altezza alla quale potrebbe essere. Tutta la dottrina del peccato originale venne dunque con ragione connessa con l’idea dell’uomo originariamente decaduto dalla propria altezza.

 

In conseguenza di queste idee si era arrivati a una concezione del mondo contraddistinta da una particolare intonazione; essa diceva: poiché l’essere umano è ormai peccatore, ed essere peccatore significa appunto essere disceso dalla primitiva altezza, egli non può vedere il mondo come avrebbe potuto guardarlo se fosse rimasto senza peccato, cioè prima della sua caduta.

Di conseguenza egli vede il mondo offuscato, non nella sua vera figura, ma pieno di illusioni e di fantasmi. Si limita a vedere quello che gli si presenta nella natura e non percepisce il proprio sfondo spirituale; tutto egli percepisce in una forma materiale che in realtà non esiste.

 

Secondo la concezione degli antichi tempi e per tradizione sotto vari aspetti ancor oggi, l’uomo è considerato peccatore. Così chi sulla Terra conservava la tradizione dei misteri insegnava: l’uomo non può guardare il mondo, non può sentirlo né può agire nel mondo come penserebbe, sentirebbe e agirebbe se non fosse diventato peccatore, se cioè non fosse disceso dall’altezza in origine destinatagli dagli dèi.

Se ora volgiamo lo sguardo agli spiriti-guida della gerarchia arcangelica che si alternano nella reggenza della Terra circa ogni tre secoli, tre secoli e mezzo (nei tre-quattro secoli passati la signoria di Gabriele e nei successivi quella di Michele), se consideriamo tutti questi esseri arcangelici: Gabriele, Raffaele, Zaccariele, Anaele, Orifiele, Samaele, Michele, possiamo all’incirca caratterizzare il rapporto fra questi spiriti e le gerarchie a loro superiori nel modo seguente.

Non vanno prese alla leggera le parole che dovrò adoperare e che suonano pedestri per queste cose sublimi,

ma si dispone solo di parole umane; esse non devono essere intese con leggerezza.

 

Di tutti gli Arcangeli, il cui numero è sette, sei si rassegnarono non del tutto, ma con abbastanza intensità (più degli altri Gabriele, ma anch’egli non totalmente) che gli esseri umani si trovassero dinanzi alla maya, alla grande illusione, poiché per le loro condizioni non più corrispondenti a quanto essi erano stati destinati in origine, erano decaduti dalla loro originaria figura. Solo e unico Michele (sono costretto a valermi di termini banali), e con lui tutti quelli che anche fra gli uomini sono spiriti micheliani, non volle cedere, affermando: io sono il reggente dell’intelligenza che deve essere diretta in modo che non vi penetri l’illusione, il fantasticare, cose che portano l’uomo a vedere nel mondo solo in modo oscuro e nebuloso.

 

È una vista indicibilmente esaltante, piena di grandiosità tale da sopraffarci, il vedere Michele ergersi come il massimo oppositore nella schiera degli Arcangeli. Ad ogni ripetersi di un periodo micheliano, avvenne che sulla Terra l’intelligenza come mezzo conoscitivo non solo assunse carattere cosmopolitico, come già dissi, ma divenne tale da compenetrare gli uomini di questa consapevolezza: noi possiamo anche ascendere alla divinità.

Il sentire: « Noi possiamo ascendere anche alla divinità » esercitò una parte grandissima alla fine dell’ultimo periodo micheliano.

 

A partire dalla Grecia, nelle sedi degli antichi misteri era ovunque diffusa un’atmosfera di scoramento. Scoraggiati erano nell’Italia meridionale, in Sicilia, i successori dell’antica scuola pitagorica, poiché si era spento il magico splendore che nel sesto secolo a.C. rifulgeva su di essa. Anche gli iniziati dei misteri pitagorici vedevano diffondersi nel mondo un elemento illusorio, materialistico e illusorio.

Erano scoraggiati le figlie e i figli degli antichi misteri egizi. I misteri egizi erano tanto pieni di scoramento, già ai tempi di Alessandro che, vorrei dire soltanto ormai simili a scorie di antichi meravigliosi flussi metallici tramandavano le profonde dottrine che si esprimevano nelle saghe di Osiride oppure nell’innalzarsi al culto di Serapide.

 

E in Asia, dov’erano ormai le ardimentose, possenti ascese al mondo spirituale che un tempo emanavano per esempio dai misteri di Diana a Efeso? Gli stessi misteri di Samotracia, il patrimonio di saggezza dei Cabiri, potevano venire interpretati solo da chi recava in sé l’impulso all’ascesa, alla grandezza; da tali anime soltanto potevano ancora venire decifrate le nuvole di fumo che salivano da Axieros e dagli altri Cabiri.

Sconforto si era diffuso ovunque! Ovunque la sensazione, vorrei dire, di quello che negli antichi misteri si era cercato di superare rivolgendosi al segreto del mistero solare, che è in sostanza il segreto di Michele.

Ovunque dominava il sentimento: l’uomo non può.

 

Quel periodo micheliano fu un tempo di grandi prove.

Platone era in fondo soltanto una specie di diluito estratto degli antichi misteri.

Di quell’estratto Aristotele trattenne la parte più intellettuale,e Alessandro la prese sulle proprie spalle.

 

Il motto di Michele era allora: l’uomo deve arrivare alla pan-intelligenza:

deve arrivare sulla Terra ad afferrare il divino in forma priva di peccato.

 

Dal centro di Alessandria il meglio che si fosse acquisito

doveva venir diffuso ovunque nelle scoraggiate sedi dei misteri.

• Questo fu l’impulso di Michele.

La posizione di Michele rispetto agli altri Arcangeli

è appunto che egli protesta nel modo più vigoroso contro la caduta degli uomini.

 

Il più importante insegnamento da lui impartito ai suoi seguaci nella scuola soprasensibile di cui parlai nell’ultima conferenza era che quando l’intelligenza sarà fra gli uomini, quando, sfuggita dal grembo dei micaeliti, l’intelligenza sarà discesa sulla Terra, in questo periodo micheliano, gli uomini dovranno accorgersi e sentire di doversi salvare, perché l’intelligenza non deve cadere preda del peccato, perché in tale periodo essa va adoperata per ascendere alla vita spirituale con chiaro intelletto, scevro da illusioni.

 

Questo è il sentimento che regna nel campo di Michele,

in opposizione a quello che regna nel campo di Arimane.

 

Già nell’ultima conferenza caratterizzai tale contrasto: come cioè Arimane compia fin d’ora e come in avvenire compirà i massimi, i più vigorosi sforzi per impadronirsi dell’intelligenza caduta fra gli uomini, per rendere gli esseri umani posseduti da lui al fine di far propria l’intelligenza nelle teste umane.

Occorre conoscere Arimane, conoscere le schiere di esseri arimanici.

 

Col ritenere spregevole il nome di Arimane e dare a una schiera di esseri spregevoli tale nome, non si è ancora fatto proprio nulla.

In realtà è che in Arimane sta davanti a noi un essere cosmico dotato della massima intelligenza possibile: un essere cosmico che ha già totalmente accolto l’intelligenza nell’elemento individuale.

Arimane è sotto ogni aspetto e in alto grado super-intelligente, è padrone di un’intelligenza abbagliante che scaturisce da tutto l’essere umano, fuorché da quella parte che si configura umanamente nella fronte.

Se volessimo in un’immaginazione rappresentarci Arimane in forma umana, dovremmo dargli una fronte sfuggente e un’espressione cinicamente frivola, perché tutto in lui proviene da forze inferiori, ma da quelle forze scaturisce la somma intelligenza.

 

Entrare in discussione con Arimane significherebbe venire addirittura annientati dalla coerenza logica, dalla grandiosa sicurezza con la quale tratta i suoi argomenti. È ancora da vedersi, tale è l’opinione di Arimane, se nel mondo degli uomini regnerà intelligenza o stoltezza, e stolto egli chiama tutto quanto non possiede l’intelligenza racchiusa nella piena individualità personale; ogni essere arimanico è infatti personalmente super-intelligente, critico nel respingere tutto ciò che non è logico; è beffardo, sprezzante nel suo pensare, come appunto già descrissi.

Quando si ha in questo modo davanti a sé Arimane, si sente anche il pieno contrasto fra lui e Michele: Michele infatti non mira al carattere personale dell’intelligenza, solo che sull’uomo agisce sempre la tentazione di renderla personale sul modello di Arimane. In fondo Arimane nutre un grande disprezzo per Michele, lo giudica stupido, stolto.

 

Questo naturalmente rispetto a se stesso, appunto perché Michele non vuole attirare l’intelligenza personalmente a sé, ma vuole invece (e volle per millenni, per la durata di eoni) gestire la pan-intelligenza; e ora che gli uomini dovrebbero avere l’intelligenza, vuole gestirla come qualcosa di comune a tutti gli uomini, qualcosa che come intelligenza generale va a beneficio di tutti gli uomini.

Certo noi uomini faremmo bene se dicessimo: è stolto credere di poter avere l’intelletto solo per noi, perché infatti non possiamo essere intelligenti solo per noi. Se vogliamo dimostrare logicamente qualcosa a qualcuno, è perché presupponiamo che per lui valga la stessa nostra logica, e che per una terza persona valga sempre ancora la medesima; se ognuno potesse avere una logica sua, non potremmo dimostrare nulla con la nostra. È proprio la caratteristica di questa epoca di Michele che tutto questo, in definitiva da comprendere, penetri senz’altro anche nel sentimento.

 

Dietro le quinte dell’esistenza infuria in sostanza la lotta di Arimane contro la corrente micheliana e, come già dissi, rientra nei compiti degli antroposofi il sentire che le condizioni sono queste, che il cosmo è per così dire impigliato in questa lotta.

Questa lotta ferveva nel cosmo fin da quando nei secoli ottavo e nono l’intelligenza cosmica andò sfuggendo a Michele e alle sue schiere, e discese fra gli uomini. Essa divenne importante e attuale quando, nel momento storico a cui ho spesso accennato e che cade all’inizio del secolo quindicesimo, l’anima cosciente cominciò a evolversi nell’umanità. A quel punto, in singoli spiriti viventi allora sulla Terra vediamo come un riflesso di quanto si svolgeva nella grande scuola soprasensibile della quale ho parlato; vediamo come parte del contenuto di quella scuola si riflettesse nei singoli uomini sulla Terra.

 

Negli ultimi tempi abbiamo molto parlato di riflessi celesti in istituzioni e scuole terrene; abbiamo parlato della grande scuola di Chartres e di altre scuole, ma di tali riflessi si può parlare anche per singoli uomini.

Al riguardo si verificò un fatto meraviglioso: quando l’anima cosciente cominciò a svilupparsi nell’umanità civile, e il vero rosicrucianesimo ne prese in mano l’impulso iniziale, qualcosa di quell’impulso sopraterreno cadde come un fulmine sopra uno spirito dell’epoca: Raimundus de Sabunda vissuto nel secolo quindicesimo. Ciò che egli insegnò al principio del secolo quindicesimo è quasi come un riflesso terreno del grande insegnamento soprasensibile di Michele.

Egli diceva: gli uomini sono discesi dalla condizione loro conferita in origine dalle divinità alle quali sono congiunti. Se fossero rimasti in quella condizione avrebbero veduto nella sua vera figura tutto ciò che vive nelle mirabili forme dei cristalli, del regno minerale informe, di ciò che vive nelle cento, nelle mille forme dei vegetali, nelle forme degli animali, in tutto quanto palpita e si muove nell’acqua, nell’aria, nel calore e nella sostanza terrena.

Raimundus de Sabunda ricordava ai suoi ascoltatori come un tempo, nell’albero di Sephirot, nelle categorie aristoteliche, nei concetti generali che appaiono così singolari a chi non li capisce, fosse contenuto ciò che deve elevare al mondo spirituale grazie all’intelligenza.

 

Quanto arido, quanto terribilmente arido appare agli uomini il contenuto delle categorie aristoteliche, quando dai testi di logica apprendono: essere, comportamento, agire, fino a dieci di tali categorie, di tali concetti generali. Si dice: apprendere simili concetti è cosa da far scappare! Difatti perché ci si dovrebbe scaldare per quei dieci concetti generali: essere, avere, divenire, e così via? È proprio come se qualcuno dicesse: questo è il Faust di Goethe; lo si tiene in gran conto, ma esso consiste solo di a, b, c, d, e, f, fino alla z. Nel libro vi sono soltanto lettere dell’alfabeto dalla a fino alla z, in diverse combinazioni. Chi non sapesse leggere e prendesse in mano il Faust di Goethe non si accorgerebbe della straordinaria grandezza che racchiude, ma vedrebbe solo lettere dell’alfabeto dalla a fino alla z. Chi non sa come quelle a, b, c, d vadano combinate, chi non conosce il loro rapporto reciproco, non può appunto leggere il Faust.

 

Lo stesso è per la lettura delle parole che formano le categorie aristoteliche;

ve ne sono dieci: essere, quantità, qualità, relazione, spazio, tempo, posizione,

comportamento, agire, soffrire;

non tante quante sono le lettere dell’alfabeto. Sono però lettere spirituali.

 

Chi se ne sa valere come sa valersi delle singole lettere alfabetiche affinché ne risulti il Faust, ha ancora qualche sentore di ciò che Aristotele ne disse, per esempio nell’insegnamento impartito ad Alessandro.

Raimundus de Sabunda richiamò ancora l’attenzione su tutto questo, ne sapeva ancora qualcosa e diceva: in quel che per esempio vi era nell’aristotelismo, abbiamo il retaggio dell’antica condizione dalla quale gli uomini discesero al principio della loro evoluzione sulla Terra. All’inizio essi se ne ricordarono ancora: era il « leggere nel libro della natura »; ma discesero poi tanto in basso che non seppero più leggere veramente nel « libro della natura ». Perciò Dio ne ebbe compassione e diede loro la Bibbia, il « libro della rivelazione », affinché non si allontanassero del tutto dalle cose divino-spirituali.

Ancora nel secolo quindicesimo Raimundus de Sabunda insegnava: il « libro della rivelazione » esiste per l’uomo peccatore, poiché egli non sa leggere nel « libro della natura »; tutto questo Raimundus de Sabunda insegnava, e lo insegnava pensando che gli uomini dovevano ritrovare la possibilità di leggere nel « libro della natura ».

 

Dopo che l’intelligenza, un tempo gestita da Michele, discese fra gli uomini, l’impulso di Michele consiste nel ricondurli a riaprire il grande libro della natura, a leggere nel « libro della natura ».

Ognuno che sia nell’ambito del movimento antroposofico dovrebbe sentire che può comprendere il proprio karma solo sapendo che a lui personalmente è diretta l’esortazione di tornare a leggere spiritualmente nel « libro della natura », di rintracciare i sostrati spirituali della natura, dopo che per il tempo intermedio Dio aveva dato la rivelazione.

 

Cerchiamo il senso racchiuso nel mio libro: I mistici all’alba della vita spirituale dei tempi moderni. Dall’ultima pagina, espresso però nella forma in cui lo potevo e dovevo allora scrivere, risulterà che il problema era guidare il movimento antroposofico in modo che si potesse tornare a leggere non solo nel « libro della rivelazione », del quale dissi che Jakob Boehme vi aveva ancora letto, bensì anche nel « libro della natura ».

I dilettanteschi, insufficienti e spesso orribili inizi della scienza moderna, grazie a una concezione spirituale del mondo devono venir cambiati, trasformati in vera lettura nel libro della natura. Credo anzi che l’espressione « libro della natura » si trovi alla fine del libro I mistici all’alba della vita spirituale dei tempi moderni.

 

Fin dal principio il movimento antroposofico ebbe questa particolarità. Essa fu fino dal principio un segno di riconoscimento per le persone che dovevano ora ascoltare la voce del loro karma e che in modo più o meno subcosciente e oscuro dovevano sentire: il mio karma viene afferrato e influenzato dal messaggio di Michele che echeggia nel mondo; attraverso il mio karma ho a che fare con quel messaggio.

Si tratta in realtà di esseri umani che già furono, che sempre vi sono, che sempre ridiscendono e ridiscenderanno sulla Terra, che sono pronti ad allontanarsi in certo modo dal mondo e a raccogliersi in quanto si manifesta nella Società Antroposofica. In quale senso si debba più o meno comprendere quell’allontanamento dal mondo, se sia reale o formale, è una questione a sé; ma per le singole anime è veramente una specie di allontanamento, un dirigersi verso qualcosa di diverso dalla sfera da cui sono provenute.

 

Le più svariate conseguenze del karma si fanno valere per le singole persone. Alcuni sperimentano vicende per cui devono strapparsi da determinate connessioni e congiungersi con coloro che vogliono coltivare il messaggio di Michele. Altri sentono il collegamento col messaggio di Michele come una specie di liberazione; altri ancora lo sentono come qualcosa che li pone in una condizione per cui devono dire: da una parte sono attratto verso Michele, da un’altra verso Arimane; non posso scegliere, e la vita mi mette in questo stato.

Vi sono persone che per il loro coraggio si strappano dai legami esterni, pur conservandone alcuni; altre trovano con facilità tale legame esterno. Anche questo è possibile, ed è forse la cosa migliore nell’attuale condizione della Società Antroposofica. Nel movimento antroposofico vi sono sempre persone che stanno di fronte ad altre che non ne fanno parte, ed anche a quelle cui sono unite da profondi legami karmici risalenti a precedenti vite terrene. Guardiamo così nei più singolari intrecci karmici.

 

Potremo comprendere quegli intrecci karmici, se ci ricorderemo delle premesse delle quali abbiamo parlato. Abbiamo visto come le anime che oggi dalla zona inconscia dell’essere sentono l’impulso verso il movimento antroposofico abbiano attraversato vicende comuni in precedenti vite terrene. Per la massima parte esse appartennero alle schiere che nei secoli quindicesimo, sedicesimo, diciassettesimo udirono nel mondo soprasensibile il messaggio di Michele e che poi, al principio del secolo diciannovesimo parteciparono al poderoso culto immaginativo del quale ho parlato. Vediamo un potente richiamo cosmico-terreno per i nessi karmici degli appartenenti alla Società Antroposofica.

 

Nell’ultima conferenza abbiamo appreso che tale richiamo si prolungherà per tutto il secolo ventesimo

e culminerà alla sua fine.

Ne parleremo ancora la volta prossima.