I futuri involucri del Cristo: fede, meraviglia, amore, coscienza.

O.O. 155 – Cristo e l’anima umana – 30.05.1912


 

Sommario: L’origine del male. Le virtù delle anime: senziente, razionale e cosciente. L’impulso del Cristo per la futura evoluzione dell’umanità. I futuri involucri del Cristo: fede, meraviglia, amore, coscienza

 

Ieri abbiamo cercato di riconoscere l’origine degli impulsi morali nella natura umana

e di dimostrare, coi fatti che abbiamo trattati, come essenzialmente la base della moralità, la base del bene

giacciano sul terreno stesso della natura dell’anima umana

e come l’uomo, proprio soltanto nel corso dell’evoluzione, nel suo passare da un’incarnazione all’altra,

si sia traviato dalla sua originaria disposizione al bene;

e da ciò il male, l’ingiustizia, l’immoralità siano penetrati nella umanità.

 

Se questo è vero, dobbiamo stupirci veramente che il sorgere del male sia stato possibile e domandarci come mai il, male sia divenuto possibile nel corso dell’evoluzione.

Una risposta esauriente si può avere soltanto se rivolgiamo lo sguardo agli elementari insegnamenti morali che sono stati dati all’umanità dai tempi più antichi. I discepoli dei misteri che avevano come più alto ideale di approfondire sempre meglio le grandi verità e conoscenze spirituali dovettero, dove si lavorava rettamente nel senso dei misteri, agire sulla base di un fondo morale; così la proprietà della natura morale dell’uomo fu rivelata a questi discepoli dei misteri in un modo del tutto particolare.

 

Per dirla in breve,

veniva mostrato ai discepoli dei misteri che la natura umana può essere guastata in due modi,

e che l’uomo, proprio per il fatto di poter andare in due direzioni diverse,

è nella possibilità di sviluppare il libero volere;

poiché la vita umana può svolgersi in senso giusto

soltanto se queste due possibilità di errore vengono considerate come i due piatti della bilancia,

dei quali, quando uno sale, l’altro si abbassa e viceversa.

Il giusto equilibrio è solo possibile quando i due bracci della bilancia sono orizzontali.

 

Il giusto comportamento poteva soltanto esser raggiunto se l’uomo, ad ogni istante della sua vita, si trovava nella situazione di esser trascinato ora da una parte e ora da quell’altra, in modo che egli stesso potesse trovare l’equilibrio, il giusto mezzo fra le due.

 

Prendiamo ad esempio le virtù di cui abbiamo parlato: il coraggio, il valore. Un lato verso il quale l’anima umana può eccedere è la temerarietà; cioè l’operare affannoso, sfrenato nel mondo che abusa fino all’estrema tensione delle forze disponibili. Questa è una delle due parti: la temerarietà. L’altro piatto della bilancia è la viltà. L’uomo può eccedere in queste due direzioni, e al discepolo dei misteri veniva mostrato che l’uomo perde se stesso e lascia che il suo sé venga frantumato dalle ruote della vita, quando si abbandona alla temerarietà.

 

Quando invece egli erra dal lato della viltà, questo lo indurisce e lo isola dal rapporto con le cose e gli esseri. Diviene un essere chiuso in sé, caduto fuori dall’insieme, poiché le sue azioni e i suoi gesti non sono in armonia col tutto. Questo era indicato ai discepoli dei misteri in relazione a ciò che l’uomo può fare. Egli può agire così da essere demolito, lacerato dal mondo esteriore perché egli vi ha disperso il proprio sé, o può anche, non soltanto riguardo al coraggio, ma in ogni azione, comportarsi così da indurirsi, disseccarsi.

 

Perciò nel codice morale dei misteri stavano scritte le parole piene di significato:

• « Devi trovare il punto medio, così non ti perderai nel mondo, attraverso le tue azioni, né il mondo perderà te ».

Questi sono i due poli opposti nei quali l’uomo può imbattersi:

o egli può andare perduto per il mondo che lo afferra e lo dilania come nella temerarietà;

oppure il mondo può andar perduto per lui, perché egli si è indurito nel suo egoismo, come nel caso della viltà.

 

Così si diceva agli scolari dei misteri: non ci può essere un vero unico bene fisso verso il quale anelare, ma piuttosto sorge un bene soltanto per il fatto che l’uomo incessantemente, come un pendolo, può oscillare da due lati, e può, per forza interiore, trovare; la possibilità dell’equilibrio, della giusta misura.

 

Questo ci dà la possibilità di comprendere la libertà del volere e l’importanza della ragione e della saggezza nelle azioni umane. Se fosse stato conforme all’uomo di aderire ai princìpi morali eterni, sarebbe bastato per lui appropriarsi questi principi morali, ed egli avrebbe potuto tranquillamente andare con itinerario uniforme attraverso la vita. Ma la vita non è mai così.

 

La libertà della vita sta piuttosto nel fatto che l’uomo ha sempre la possibilità di errare in due direzioni.

E da ciò viene anche la possibilità del male.

Il male è ciò che nasce quando l’uomo si perde nel mondo o quando il mondo perde l’uomo.

• Nell’evitare questi due mali sta quello che noi possiamo chiamare bene.

Il male è diventato possibile nel corso dell’evoluzione

perché gli uomini, procedendo da un’incarnazione all’altra, errarono nell’uno o nell’altro senso,

e siccome non seppero sempre trovare l’equilibrio,

divenne necessario, in un tempo futuro, il pareggio karmico delle loro azioni.

 

Quello che non si raggiunge in una vita, perché non ci si è sempre mantenuti nel mezzo, viene raggiunto nel corso dell’evoluzione, nella quale l’uomo che ha errato in un senso è spesso obbligato nella vita successiva a spostarsi nell’altra direzione e così a creare un pareggio.

 

Ho esposto qui una regola aurea degli antichi misteri. Come avviene sovente, noi troviamo anche in questo caso, presso i filosofi dell’antichità, un’eco di questo principio fondamentale dei misteri. In Aristotele, dove egli parla della virtù, troviamo un detto che sarebbe incomprensibile se non si tenesse presente che ciò di cui abbiamo parlato, cioè quel fondamentale principio dei misteri, era stato tramandato ad Aristotele, ed egli l’aveva incorporato nella sua filosofia.

La meravigliosa definizione di Aristotele è questa:

• « La virtù è una capacità umana guidata da un esame ragionato

che, rispetto all’uomo, mantiene il giusto mezzo tra il troppo e il troppo poco ».

 

In questo caso Aristotele dà della virtù una definizione che da nessuna filosofia successiva è stata raggiunta. Perché Aristotele aveva la tradizione dei misteri, nella quale poteva veramente trovare il giusto. Cioè la famosa via di mezzo che deve venir mantenuta se l’uomo ha da essere veramente virtuoso, se la forza morale deve dare impulso al mondo.

Ma adesso possiamo anche rispondere alla domanda: perché deve esistere una morale? Che cosa accadrebbe se non vi fosse alcuna morale, se il male trionfasse, se il troppo o il troppo poco, il perdersi dell’uomo nel mondo, o il perder l’uomo da parte del mondo si avverassero? In ognuno di questi casi sempre qualcosa viene distrutto.

 

Ogni male, ogni immoralità è una distruzione, un processo distruttivo,

e nell’istante in cui l’uomo vede che egli non può far altro che distruggere,

che togliere al mondo qualche cosa quando fa il male, agisce nell’uomo,

in modo straordinariamente potente, inizia il momento del bene.

 

Questo è appunto il compito della concezione antroposofica

che ora ha appena cominciato il suo ingresso nel mondo: essa cioè deve chiarire agli uomini

che ogni male agisce come un processo di distruzione, toglie al mondo qualche cosa che ha la sua ragione di essere.

 

Se ora, nel senso della nostra concezione del mondo, ci atteniamo a questo principio,

quello che noi sappiamo sopra la natura dell’uomo ci porta ad una visione particolare del bene e anche del male.

 

• Noi sappiamo che l’anima senziente si è sviluppata nell’umanità durante l’antica civiltà caldaica,

cioè nel terzo periodo di civiltà postatlantica.

La vita di oggi non ha nessuna idea di questo periodo di evoluzione;

nella storia esteriore si arriva a mala pena a ritroso ai tempi dell’Egitto.

• Così sappiamo pure che l’anima razionale si è sviluppata nel quarto periodo postatlantico, nell’epoca greco-latina,

• e che oggi, nel tempo in cui viviamo, dobbiamo sviluppare l’anima cosciente.

• Il sé spirituale si affermerà nel sesto periodo dell’evoluzione postatlantica.

 

Ora cerchiamo di indagare come possa deviare nell’uno o nell’altro senso l’anima senziente.

Essa è quella parte dell’anima umana che mette l’uomo nella condizione di sperimentare,

di sentire il mondo delle cose, di accoglierle in sé, di partecipare ad esse;

non attraversare il mondo rimanendo ignorante riguardo alle cose,

ma entrare in rapporto con ognuna di esse: così opera l’anima senziente.

 

Uno dei due sensi in cui l’uomo può errare possiamo trovarlo per l’anima senziente se ci chiediamo

che cosa è, in generale, che rende possibile all’uomo di avere un rapporto con le cose.

Quello che crea un rapporto fra gli uomini e le cose è quello che noi chiamiamo l’interesse per le cose.

Con questa parola « interesse » abbiamo detto qualche cosa di infinitamente importante nel senso della morale.

 

È più importante penetrare nel significato morale della parola « interesse »

che di proporsi mille e mille, sempre belle, quand’anche soltanto ipocrite e meschine, regole morali.

I nostri impulsi morali vengono guidati all’azione nel miglior modo

quando noi portiamo un giusto interesse verso le cose e gli esseri.

 

Questo deve esser ben chiaro. Nella conferenza di ieri abbiamo parlato in un senso così profondo dell’amore come impulso, che è impossibile essere fraintesi quando noi ora diciamo che il solito declamare di amore, amore e amore non può sostituire l’impulso morale che sta in ciò che si può indicare con la parola « interesse ».

 

Poniamo per esempio di avere un bambino davanti a noi. Qual è la condizione preliminare per dedicarci a questo bambino, che cosa dobbiamo predisporre per poterlo far progredire? La premessa necessaria è di avere interesse per il suo essere. Denota già uno stato non sano dell’anima umana quando l’uomo si ritrae di fronte a qualcosa che deve interessarlo.

 

Quanto più procediamo verso ciò che sta a base della morale, invece che attenerci soltanto alle prediche,

tanto più dovremo riconoscere che l’impulso dato dall’interesse

è del tutto straordinario e prezioso nel senso della morale.

• Se noi allarghiamo il nostro interesse, se troviamo la possibilità

di trasferirci pieni di comprensione nelle cose e negli esseri,

questo richiama le nostre forze interiori anche di fronte agli uomini.

• Pure la compassione viene nel giusto modo risvegliata quando noi abbiamo interesse per una creatura.

 

E quando noi, come antroposofi, ci poniamo il compito di allargare sempre e sempre più il nostro interesse, di far diventare sempre e sempre più vasto il nostro orizzonte, in conseguenza di ciò aumenterà, l’universale fraternità umana. Non possiamo progredire con le prediche sull’amore umano universale, ma piuttosto per il fatto che noi nutriamo interessi sempre più vasti, così che l’anima si rivolga con comprensione verso i più svariati temperamenti, i più diversi tipi di caratteri o particolarità di razze e di nazionalità, o verso le diverse concezioni religiose e filosofiche.

 

Il giusto interessamento, la giusta comprensione, fa scaturire dall’anima la giusta azione morale.

 

Anche qui è necessario tenersi in equilibrio fra due estremi.

• Uno è l’apatia del sentimento che si tiene estranea a tutto e provoca nel mondo infinite catastrofi,

poiché vive solo in se stessa e sta fissa testardamente ai suoi principi, sì da dire continuamente :

« Questo è il mio punto di vista ».

L’avere un « punto di vista » nel campo della morale è già qualcosa di male.

 

L’essenziale per noi è di avere gli occhi aperti per tutto quello che ci circonda.

L’ottusità del sentire, l’apatia, ci pone fuori del mondo, mentre l’interesse ci trasporta in mezzo ad esso.

Il mondo perde noi a causa della nostra apatia, e noi diventiamo immorali.

Vediamo così che l’apatia e l’assenza di interesse per il mondo sono al massimo grado, moralmente, dei mali.

 

L’antroposofia, però, rende lo spirito sempre più sveglio, ci aiuta a pensare meglio ciò che è spirituale e a portarlo in noi. Come è vero che dal fuoco scaturisce calore quando accendiamo la stufa, così è vero che sorge interesse per ogni uomo e per ogni essere quando noi facciamo nostra la saggezza antroposofica.

 

La saggezza è il combustibile che genera interessamento,

e noi possiamo dire semplicemente, anche se a prima vista non sembra così,

che quando l’antroposofia studia le cose più remote

come l’insegnamento sull’antico Saturno, l’antico Sole, l’antica Luna, il karma, ecc.,

in noi, come conseguenza e contraccolpo, sorge interesse per tutto.

 

Accade realmente che l’interessamento è ciò che sorge come prodotto di trasformazione delle conoscenze antroposofiche, mentre dalle conoscenze materialistiche sorge quello che noi oggi, purtroppo, vediamo crescere attorno a noi e che, in modo radicale, deve venir designato come apatia. Se questa dovesse veramente dominare da sola nel mondo, produrrebbe immani disastri.

 

Si pensi a quanti girano il mondo e incontrano questa o quella persona senza in fondo conoscere mai nessuno, perché sono del tutto chiusi in sé. Così avviene spesso che due uomini, dopo un lungo periodo di amicizia, la chiudano e improvvisamente arrivino alla rottura. Questo avviene perché l’impulso della loro amicizia aveva un carattere materialistico, e, dopo un certo tempo, i due si accorgono di certi aspetti non simpatici dei rispettivi caratteri che fino allora essi non avevano osservato. Pochi uomini hanno occhi aperti per ciò che parla da uomo a uomo.

 

E in questo proprio deve agire l’antroposofia: nell’aprire i nostri sensi

in modo da avere occhi aperti e anima aperta per tutto quanto di umano è attorno a noi,

affinché noi possiamo andare per il mondo non apaticamente, ma invece col giusto interesse.

 

Si può anche evitare l’estremo opposto mantenendo il giusto mezzo, distinguendo chiaramente tra il vero e il falso interesse. Darsi all’eccesso ad ogni cosa, così come « gettarsi le braccia al collo » è un perdersi passionale negli esseri e non un reale interesse. Facendo così noi ci perdiamo nel mondo.

 

• Con l’apatia il mondo perde noi,

• con l’insensata passionalità che si annebbia nella dedizione, noi ci perdiamo nel mondo.

• Con un sano interesse ci consolidiamo moralmente nel punto di mezzo, nel punto dell’equilibrio.

 

Nel terzo periodo postatlantico, l’egizio-caldaico, viveva ancora sulla terra, nella maggioranza della popolazione, un certo impulso a mantenere l’equilibrio fra l’apatia e la stordita passionale dedizione al mondo; e questo è ciò che negli antichi tempi, e ancora presso Platone e Aristotele, troviamo indicato come « saggezza ».

 

Ma gli uomini vedevano in essa un dono di esseri sopraumani, poiché, fino a quel tempo, erano attivi gli antichi impulsi della saggezza. Da questo punto di vista, perciò, il terzo periodo di civiltà postatlantica, rispetto agli impulsi morali, ci appare come un’epoca nella quale la saggezza agisce istintivamente. E quando studiamo questo periodo si può sentire la verità dell’esposizione data l’anno scorso, sia pure con intenzioni del tutto diverse, nelle conferenze di Copenaghen, pubblicate poi sotto il titolo La direzione spirituale dell’uomo e dell’umanità, e cioè che gli uomini di una volta stavano ancora vicini alle potenze divine spirituali. E per il fatto che gli uomini stavano più vicini alle potenze divine spirituali, nella terza civiltà postatlantica vi era la saggezza istintiva.

 

La facoltà di raggiungere con le proprie azioni la giusta misura fra l’apatia e la dedizione esagerata era sentita, allora, come un dono divino. Questo compenso, questo equilibrio, veniva ottenuto, a quel tempo, anche con gli ordinamenti esteriori. Non vi era ancora quella generale mescolanza dell’umanità, che si produsse nel quarto periodo di civiltà postatlantica, il greco-latino, attraverso le migrazioni dei popoli. Gli uomini erano ancora chiusi in popoli e stirpi.

 

Gli interessi degli uomini erano regolati dalla loro stessa natura, e così saggiamente che i giusti impulsi morali potevano compenetrarli, e, d’altra parte, l’esistenza della consanguineità nelle stirpi metteva un argine alla passionalità insensata. Dall’osservazione della vita risulta che anche oggi si trova un particolare interesse reciproco dove c’è parentela di sangue e di stirpe. Ma ne è esclusa la passionalità insensata.

Siccome poi nell’epoca egizio-caldaica gli uomini erano riuniti in piccoli territori, era facile mantenere il saggio giusto equilibrio.

 

Ma il senso del progresso dell’umanità consiste nel fatto

che ciò che era, primitivamente, istintivo, ancora soltanto divino spirituale, a poco a poco scompare,

e che gli uomini diventano indipendenti dalle potenze divine spirituali.

 

Già nel quarto periodo di civiltà postatlantica, nell’epoca greco-latina,

tanto i filosofi Platone e Aristotele, come pure l’opinione pubblica, in Grecia,

consideravano la saggezza non più un dono divino, ma una cosa da conquistare.

La prima virtù, per Platone, è la saggezza,

ed è immorale, per Platone, colui che non anela alla saggezza.

 

Ci troviamo ora nel quinto periodo di civiltà postatlantica. E siamo ben lontani dal momento in cui la saggezza, che fu istillata in forma istintiva come un divino impulso nell’umanità, sarà di nuovo in essa, ma cosciente. Proprio per questo fatto esiste ai nostri tempi, in modo del tutto speciale, la, possibilità di errare nelle due direzioni di cui abbiamo parlato. E quindi è tanto più necessario che sia fatto un lavoro contro i gravi pericoli di questo momento, per mezzo di una spirituale, antroposofica concezione del mondo, che dia all’uomo la possibilità di trasformare in saggezza cosciente quello che una volta aveva avuto come saggezza istintiva.

 

L’essenza stessa del movimento antroposofico sta nel rendere possibile all’uomo

di conquistare come un tesoro di saggezza quello che prima aveva avuto in modo istintivo.

La differenza sta dunque nel fatto che

• gli dei diedero una volta all’anima umana incosciente la saggezza come qualcosa di istintivo,

• mentre ora sono gli uomini che debbono far propri i tesori di saggezza sul cosmo e sull’evoluzione dell’umanità.

Gli ordinamenti antichi sono stati fatti secondo i pensieri degli dei.

Noi vediamo l’antroposofia nel giusto senso se la consideriamo come la ricerca dei pensieri divini.

 

In quel tempo questi erano istintivamente insufflati negli uomini; oggi dobbiamo ricercarli e farli diventare nostro sapere. In questo senso l’antroposofia deve essere per noi qualcosa di divino. Noi dobbiamo però poter avere un atteggiamento pieno di devozione di fronte al fatto che i pensieri che ci sono trasmessi dall’antroposofìa sono veramente qualcosa di divino che noi uomini possiamo pensare, che noi possiamo portare oltre col nostro pensiero, poiché essi erano i pensieri divini, secondo i quali il mondo è stato organizzato. Se, per noi, l’antroposofia è veramente questo, noi staremo davanti alle cose in modo da sentire che esse ci sono date per compiere la nostra missione.

 

Quando noi studiamo quello che ci è trasmesso sopra l’evoluzione di Saturno, Sole, Luna, sopra la reincarnazione, lo sviluppo delle epoche e così via, diventiamo partecipi di potenti enigmi. E ci poniamo allora in giusto atteggiamento se diciamo a noi stessi : « I pensieri che noi cerchiamo sono i pensieri secondo i quali la divinità ha guidato l’evoluzione. Noi, quindi, pensiamo l’evoluzione degli dei ». Se si comprende ciò rettamente, allora nasce anche in noi qualcosa di profondamente morale. Ciò non può mancare.

 

E allora potremo concludere:

negli antichi tempi gli uomini avevano ricevuto dagli dei una saggezza in forma di istinto:

la stessa saggezza secondo la quale la divinità ha creato il mondo.

Perciò era loro possibile un agire morale.

Ora dobbiamo riconquistare coscientemente la saggezza, con l’antroposofia.

Quindi possiamo aver fiducia che la saggezza si trasformerà in noi in impulsi morali,

perché non assimiliamo soltanto saggezza antroposofica, ma, attraverso l’antroposofia, anche impulsi morali.

 

Ora in quali impulsi morali si trasformerà, proprio nel campo della saggezza, questo sforzo antroposofico? Qui dobbiamo toccare un punto di cui possiamo certamente prevedere lo sviluppo, e il significato, e il peso morale; un punto dell’evoluzione, ancora molto lontano da quello di oggi: e cioè richiamiamoci a quello che Platone designò come saggezza ideale. Egli poteva definirla così, con parole abituali là dove la « saggezza » viveva ancora istintivamente negli uomini, con parole che noi invece faremo bene a sostituire con altre. Faremo bene a sostituirle con la parola « veracità », perché noi siamo divenuti più individuali, perché ci siamo allontanati dalla divinità, e perciò dobbiamo di nuovo tendere verso di essa. Dobbiamo imparare a sentire il pieno peso della parola « veracità », e ciò sarà un risultato, in campo morale, della concezione antroposofica del mondo e dell’atteggiamento antroposofico. Gli uomini impareranno a percepire la veracità per mezzo dell’antroposofia.

 

Gli antroposofi di oggi dovranno perciò comprendere quanto sia necessario sentire pienamente questo elemento morale ; della « veracità » in un’epoca in cui il materialismo ha portato al fatto che si può bensì parlare di veracità, ma la vita in generale è, invece, molto lontana da sentire e intuire il giusto in questo campo.

 

Oggi non può essere diversamente.

La verità è qualche cosa che nella civiltà odierna deve mancare in alto grado

a causa di una determinata caratteristica assunta dalla civiltà moderna.

 

Io mi domando che cosa sente l’uomo odierno se in un quotidiano o in uno stampato qualunque trova una determinata notizia di cui si sa in seguito che semplicemente non era vera, così come era stata detta. Pensiamoci un momento. Non si può dire che ciò avvenga ad ogni passo, ma addirittura ad ogni piè sospinto. Dovunque: si esplica la vita moderna la «non veracità » è diventata una caratteristica della nostra epoca attuale, ed è comunque impossibile asserire che la « veracità » sia una sua caratteristica.

 

Si prenda un uomo, di cui si sappia che egli ha detto o scritto qualche cosa di falso, e glielo si faccia notare. Si troverà che, di regola, oggi, egli non ha affatto il sentimento di aver fatto qualche cosa di non giusto. Immediatamente userà una scappatoia, e dirà che ha detto quello che ha detto in buona fede.

Dire il falso, sia pure in buona fede, non può esser considerato morale dagli antroposofi.

 

Gli uomini devono capire sempre più che si deve arrivare a sapere che è anche veramente accaduto ciò che si afferma. Si può dunque dire o comunicare qualcosa soltanto dopo che si è sentito ed esplicato l’obbligo di provare se ciò è vero, servendosi dei mezzi disponibili. Solo quando questo diventa un obbligo interiore si può sentire la veracità come impulso morale. Allora non avverrà più che qualcuno, dopo aver messo nel mondo qualcosa di falso, possa dire : « Io pensavo così, l’ho detto in buona fede. » Poiché egli imparerà che il suo dovere non è soltanto di dire ciò che si crede di riconoscere come giusto, ma bensì di dire esclusivamente ciò che è vero, ciò che è giusto.

 

Dovrà intervenire necessariamente a poco a poco, a questo proposito, un radicale cambiamento nella nostra vita civile.

La rapidità delle comunicazioni, la sete di notizie sensazionali

e, in generale, tutto ciò che deriva come conseguenza di un’epoca materialistica, sono nemici della veracità.

Nel campo morale l’antroposofia diverrà un’educatrice dell’umanità al dovere della veracità.

 

Non è oggi mio compito di dire se e quanto la veracità si sia realizzata fra gli antroposofi. Ma devo dire che quello che ho esposto oggi deve essere, come principio, un alto ideale antroposofico. L’evoluzione morale nel movimento antroposofico avrà molto da fare prima che l’ideale morale della veracità venga pensato, sentito e attuato in tutte le direzioni.

 

Questo ideale morale della veracità sarà, oggi,

quello che susciterà nel giusto modo la virtù nell’anima senziente dell’uomo.

Dall’insegnamento antroposofico risulta

che la seconda parte costitutiva dell’anima umana è l’anima razionale o affettiva.

Essa si è affermata soprattutto nel quarto periodo di civiltà postatlantica, l’epoca greco-latina.

La virtù che è in particolare caratteristica di questa parte dell’anima (l’abbiamo già spesso ripetuto)

è il coraggio, l’audacia, il valore.

 

Portati all’eccesso, nei due sensi opposti, questi divengono temerarietà o viltà, mentre la vera virtù è nel mezzo. Così la rappresentavano anche Platone e Aristotele. Essa era quella virtù che nel quarto periodo postatlantico si trovava ancora negli uomini istintivamente, come un dono divino, mentre la saggezza era stata istintiva soltanto fino al terzo periodo.

 

Dalla mia prima conferenza si potrà rilevare che il coraggio e il valore esistevano come un dono divino negli uomini del quarto periodo postatlantico, in coloro che venivano incontro al cristianesimo in via di diffusione verso il nord. Come presso i Caldei viveva come dono divino, come qualcosa di ispirato, la saggezza, cioè la sapiente indagine dei segreti del mondo stellare, così negli uomini del quarto periodo postatlantico erano attivi coraggio e valore, specialmente presso Greci e Romani, e presso tutti quei popoli ai quali fu affidata la diffusione del cristianesimo. Questo coraggio istintivo andò anch’esso perduto, ma più tardi della saggezza istintiva.

 

Ora, nella quinta epoca di civiltà postatlantica, noi ci troviamo di fronte al coraggio e al valore, nella stessa condizione dei Greci di fronte alla saggezza dei Caldei e degli Egizi. Noi guardiamo indietro a ciò che, nel periodo immediatamente precedente, fu un dono divino e che in altro modo noi possiamo sforzarci di riconquistare nuovamente. Ma ciò richiede una trasformazione, come ho inteso dimostrare nelle due ultime conferenze.

 

In Francesco d’Assisi abbiamo potuto scorgere la trasformazione di coraggio e valore che, quali doni divini, avevano un carattere esteriore. Abbiamo visto questa trasformazione come conseguenza di ima forza morale interiore che ieri abbiamo riconosciuto come la forza dell’impulso del Cristo. Questa trasformazione di coraggio e valore produce qualcosa che è vero amore.

 

Ma questo vero amore deve essere guidato da un’altra virtù, cioè dall’interesse, dalla partecipazione viva verso quella creatura alla quale rivolgiamo l’amore.

Nel suo Timone di Atene, Shakespeare ha mostrato come anche l’amore e la generosità, quando sono esercitati con passionalità, quando compaiono soltanto come qualità singole della natura umana senza essere guidate dalla saggezza e dalla veracità, possano portare danno. Noi troviamo qui rappresentata una personalità che dissipa beni da ogni parte. La liberalità è una virtù; ma Shakespeare ci mostra anche che la dissipazione dei beni genera soltanto dei parassiti.

 

Dunque dobbiamo concludere:

• come anticamente coraggio e forza d’animo venivano guidati, secondo le direttive dei misteri,

dai bramini europei, dai saggi che sì tenevano nascosti,

• così oggi deve sorgere, nella natura umana stessa, un organizzarsi, un armonizzarsi della virtù col vero interesse.

L’interesse, che in modo giusto ci mette in contatto col mondo esterno,

deve guidarci e dirigerci quando ci rivolgiamo al mondo esterno col nostro amore.

 

In fondo questo risulta in modo caratteristico anche quando abbiamo davanti l’esempio radicale di Francesco d’Assisi. In lui non vi era una compassione per gli uomini che può facilmente avere anche qualcosa di costringente e di offensivo; poiché non sono sempre animati da giusti impulsi morali quegli uomini che vogliono schiacciare gli altri uomini con la loro compassione. Quanti uomini ci sono che non vogliono lasciarsi dar niente per compassione! L’andare incontro pieno di comprensione è invece qualche cosa che non ha niente di offensivo.

 

Essere commiserato è, in certe condizioni, qualcosa che l’uomo deve respingere.

Comprensione per il proprio modo di essere è qualche cosa che nessun uomo sano può respingere:

e quindi non può essere disapprovato il comportamento

di chi si conduce nelle sue azioni in modo corrispondente a tale comprensione per gli altri.

 

Questa comprensione è ciò che ci può far da guida nell’esercizio della seconda virtù: l’amore.

Essa perciò, attraverso l’impulso del Cristo,

è propriamente diventata la virtù caratteristica dell’anima razionale o affettiva;

quella virtù che noi possiamo designare come amore umano guidato dalla comprensione umana.

 

Il soffrire e gioire con gli altri è quella virtù che nell’avvenire

farà sbocciare i fiori più splendidi e più nobili nella convivenza degli uomini,

e, specialmente presso quelli che avranno compreso in giusto modo l’impulso del Cristo,

questa comunione di sentimenti e questo amore,

questo soffrire insieme e gioire insieme sorgeranno in modo corrispondente,

perché ne scaturirà un nuovo sentimento.

• Proprio attraverso la comprensione antroposofica dell’impulso del Cristo,

si verificherà questo fatto: scaturirà un nuovo sentimento.

 

Il Cristo è entrato nell’evoluzione terrena attraverso il mistero del Golgota.

I suoi impulsi, le sue azioni sono presenti.

Perché, dunque, egli è sceso su questa terra?

Affinché, attraverso ciò che egli ha da dare al mondo, l’evoluzione proceda nel senso giusto;

affinché l’evoluzione della terra, per aver accolto l’impulso del Cristo, possa compiersi in giusto modo.

 

Da quando l’impulso del Cristo è nel mondo,

con l’immoralità, col solo passar davanti senza interesse ai nostri simili, noi distruggiamo qualche cosa,

poiché, con ciò, togliamo al mondo una parte di quello che vi è affluito con l’impulso del Cristo.

Noi distruggiamo dunque direttamente qualche cosa dell’impulso del Cristo, poiché egli, ormai, è qui presente.

 

Invece, quando diamo al mondo ciò che può essergli dato mediante la virtù, che è creativa, noi edifichiamo.

Noi edifichiamo proprio per il fatto che il Cristo, crocifisso una volta sul Golgota,

viene via via sempre di nuovo crocifisso dalle azioni degli uomini.

 

Ora che l’impulso del Cristo è affluito, con l’evento del Golgota, nell’evoluzione terrena,

con l’immoralità, derivante dalla nostra mancanza di amore e di interesse,

noi concorriamo ad accrescere le sofferenze e i dolori che vengono inflitti al Cristo sceso sulla terra.

• Perciò si è ripetuto sovente che il Cristo verrà crocifisso sempre di nuovo

finché esisteranno immoralità, mancanza d’amore, mancanza d’interesse.

• Poiché l’impulso del Cristo ha permeato il mondo, a lui si reca dolore.

 

Come è vero che col male distruggente noi sottraiamo qualcosa all’impulso del Cristo

e continuiamo la crocifissione del Golgota,

è altrettanto vero, quando noi compiamo azioni d’amore,

che ovunque noi dispieghiamo questo amore, diamo vigore all’impulso del Cristo, lo aiutiamo a vivere.

« Quel che avete fatto al minimo dei miei fratelli, l’avete fatto a me » (Matteo, XXV, 40).

 

Questo detto è la più alta espressione dell’amore,

ed esso dovrà diventare il più profondo impulso morale, se verrà compreso in senso antroposofico.

• Questo facciamo quando ci poniamo con atteggiamento comprensivo di fronte ai nostri simili,

facendo per loro quello che la comprensione stessa del loro essere ci suggerisce

per le nostre azioni, per le nostre virtù, per la nostra condotta verso di loro.

 

• Secondo il modo in cui ci comportiamo di fronte ai nostri simili,

ci comportiamo di fronte allo stesso impulso del Cristo.

Questo è un forte, un morale impulso, è qualche cosa che veramente fonda moralità, se noi sentiamo questa verità:

il mistero del-Golgota si è compiuto per l’umanità intera e di là è irradiato un impulso in tutto il mondo.

 

• Se quindi stai dinnanzi ai tuoi simili, cerca di comprenderli in ogni loro diversità

di razza, colore, nazionalità, religione, concezione del mondo e così via.

Se tu stai di fronte a loro e fai questo o quello, questo tu fai al Cristo.

Tutto quello che fai per i tuoi simili, tu lo fai, nella presente evoluzione terrestre, al Cristo.

 

Le parole: « Quel che avete fatto al minimo dei miei fratelli, l’avete fatto a me »

diventano, per colui che capisce la fondamentale importanza del mistero del Golgota,

un fortificante impulso morale.

• Così possiamo dire: mentre gli dei hanno dato l’istintiva saggezza,

l’istintivo coraggio e valore agli uomini dei tempi precristiani, scorse fuori dal simbolo della croce l’amore;

quell’amore che è edificato sopra il reciproco interesse tra uomo e uomo.

• Così l’impulso del Cristo agirà nel mondo in modo potente.

 

Quando finalmente non soltanto il bramino capirà e amerà il bramino, il paria il paria, l’ebreo l’ebreo, il cristiano il cristiano, ma quando l’ebreo amerà e capirà il cristiano, il paria amerà il bramino, l’americano l’asiatico, come uomo, e saprà trasporre sé nelle condizioni dell’altro per capirlo, allora si saprà anche come sia da sentire in modo profondamente cristiano il detto:

tra gli uomini deve esistere fraternità al di là di ogni differenza esteriore di confessione religiosa.

 

Di minore importanza diventerà quello che per altro ci unisce.

Padre, madre, fratello, sorella, persino la propria vita dovrà diventare per noi meno importante

di quello che parla da anima umana ad anima umana.

Chi in questo senso non da minima importanza a ciò che pregiudica l’appartenenza all’impulso del Cristo,

pareggiatore delle umane differenze,

chi non dà minima importanza alle differenziazioni « non può essere, mio discepolo ».

 

Questo è l’impulso dell’amore che fluisce dal mistero del Golgota, che noi, in questo senso, sentiamo? come un rinnovamento di ciò che era stato dato all’uomo come virtù originaria.

Ora dobbiamo ancora considerare quella che possiamo definire come virtù dell’anima cosciente : la temperanza, la prudenza.

 

Nel quarto periodo postatlantico queste virtù erano cora istintive negli uomini. Platone e Aristotele le hanno designate come le principali virtù dell’anima cosciente, in quanto essi le concepivano come stati di equilibrio, come punto centrale dell’essenza dell’anima cosciente, quell’anima cosciente che ha il compito di far sì che l’uomo diventi cosciente del mondo esterno attraverso il proprio corpo.

 

Il corpo sensibile è in primo luogo lo strumento dell’anima cosciente,

ed è anche quello mediante il quale l’uomo arriva alla coscienza del proprio io.

È perciò necessario che questo corpo sensibile sia conservato.

Se il corpo sensibile dell’uomo non fosse conservato per la missione della terra,

allora questa missione non potrebbe arrivare a compimento. Ma anche qui esiste un limite.

 

Se l’uomo usasse tutte le forze che ha in sé soltanto per godere,

allora egli si chiuderebbe in se stesso, e il mondo lo perderebbe.

Platone e Aristotele descrivono il gaudente che usa tutte le sue forze per procurarsi il godimento

come uno che si esclude dal mondo : il mondo lo perde.

• Chi, al contrario, non si concede nulla, si indebolisce sempre più,

viene infine afferrato dai processi del mondo esterno e ne viene logorato.

• Chi va oltre le forze che gli sono commisurate come uomo e ne abusa,

viene afferrato dai processi esteriori e si perde nel mondo.

 

Dunque ciò che l’uomo ha sviluppato per la formazione dell’anima cosciente può essere annullato, ed egli arriva al punto di perdere il mondo. La virtù che fa evitare entrambi questi estremi è la temperanza.

 

La temperanza dunque non è né ascesi, né godimento smoderato, ma il giusto mezzo,

ed è la virtù dell’anima cosciente.

 

Anche nei riguardi di questa virtù l’umanità non ha ancora superato Io stato istintivo. Basterà una breve riflessione per mostrare che in fondo gli uomini, in questo campo, sono ancora molto legati a un continuo tentare che oscilla pendolarmente fra un estremo e l’altro. Facendo astrazione dai pochi che oggi si sforzano di raggiungere un certo grado di coscienza a questo proposito, la grande maggioranza degli uomini vive secondo determinate mode, come si può vedere dal seguente esempio preso dalle abitudini dell’Europa centrale. A Berlino esistono persone che durante l’inverno si rimpinzano di ogni ben di Dio, godendo a loro piacere delle gioie del palato. D’estate poi, per eliminare i disturbi che ne derivano, usano il metodo della compensazione andando a fare le cure a Karlsbad.

 

Così si ha l’oscillare della bilancia dall’uno all’altro estremo. Ho preso un esempio alquanto radicale che, se anche non si verifica sempre nella stessa misura, palesa però l’alternarsi della disposizione d’animo fra godimento e rinuncia. Gli uomini provvedono da soli ad eccedere in un senso, e poi si fanno prescrivere dai medici delle cure disintossicanti, cioè l’altro estremo, per rimediare agli errori fatti.

 

Voi vedete da questo che gli uomini sono proprio ancora in uno stato molto istintivo,

e si può quindi dire che nell’uomo vi è ancora una specie di dono divino

che gli dà un sentimento istintivo per non eccedere in un senso o nell’altro.

Ma allo stesso modo in cui le altre qualità istintive sono andate perdute,

anche questa andrà perduta nel passaggio dal quinto al sesto periodo di civiltà postatlantica.

 

Come disposizione naturale ciò andrà perduto,

ed ora voi potete misurare quanto la concezione scientifico-spirituale del mondo,

quanto un atteggiamento antroposofico dovranno contribuire e sviluppare gradatamente consapevolezza.

 

Ci sono ancor oggi pochi antroposofi, magari anche evoluti, che capiscono che l’antroposofia è la giusta ricetta per raggiungere, anche in questo campo, la giusta coscienziosità. Quando l’antroposofia si sarà maggiormente affermata in questo campo, allora s’instaurerà qualcosa che io potrei descrivere solo nel modo seguente: gli uomini avranno gradatamente sempre più forte nostalgia delle grandi verità spirituali.

 

Perché non sarà sempre così, che l’antroposofia venga derisa come ancora lo è oggi.

Essa si espanderà, vincerà ogni inimicizia esteriore, ed anche tutto ciò che ancor oggi le si oppone;

e gli antroposofi non si limiteranno più soltanto al predicare l’amore umano e universale.

• Gli uomini capiranno che come è impossibile, in un sol giorno, nutrirsi per l’intera vita,

altrettanto è impossibile assorbire tutta l’antroposofia in un sol giorno,

e che bisogna invece impadronirsene gradatamente.

 

Diventerà sempre più raro, entro il movimento antroposofico, che si dica:

questi sono i nostri principi e se abbiamo questi principi siamo senz’altro antroposofi.

Si diffonderà sempre più il senso del continuo vivere nella comunità,

di ciò che è « vita dell’antroposofia », e dell’importanza dello sperimentare insieme.

 

Ma che cosa avverrà dunque nel mondo se gli uomini elaboreranno in sé i pensieri caratteristici, e le sensazioni, e gli impulsi particolari emananti dalla saggezza antroposofica? È ovvio che gli antroposofi non possono mai avere una concezione materialistica, anzi hanno proprio il contrario della concezione materialistica.

Si pensa materialisticamente se si afferma che, quando l’uomo ha questo o quel pensiero, si verifica un movimento delle molecole o degli atomi del suo cervello che producono tali pensieri; e che il pensiero esce dal cervello come un sottile fumo, come la fiamma esce dalla candela; questa è la concezione materialistica.

 

Ma la concezione antroposofica è diametralmente opposta: sono i pensieri, le esperienze dell’anima a mettere in movimento il cervello, il sistema nervoso. Il modo in cui il nostro cervello si muove dipende dal tipo e dalla qualità dei pensieri che abbiamo. Ma questo è proprio il rovescio di ciò che pensa il materialismo.

Per sapere come è fatto il cervello di un uomo bisogna indagare quali pensieri egli ha pensato; perché, come la scrittura è la conseguenza dei pensieri, così anche i movimenti del cervello non sono altro che la conseguenza dei pensieri.

Noi dobbiamo dunque concluderne che i nostri cervelli saranno elaborati, in questo momento in cui viviamo dei pensieri antroposofici, diversamente da quelli di uomini appartenenti ad un club in cui si gioca a carte.

 

Nelle vostre anime si svolgono processi diversi se seguite pensieri antroposofici

oppure se vi trovate in una compagnia dove si gioca a carte o se assistete ad una rappresentazione cinematografica.

• Ma nell’organismo umano non vi è nulla che sia isolato in se stesso, tutto è in collegamento, una cosa agisce sull’altra.

• I pensieri agiscono sul cervello e sul sistema nervoso; questo è in collegamento con l’intero nostro organismo.

 

Anche se è ancora celato per molti uomini, quando un giorno

le qualità ereditate, che oggi ancora si trovano nei corpi, saranno state superate,

accadrà quanto, segue: i pensieri, partendo dal cervello, si trasmetteranno allo stomaco,

e la conseguenza di ciò sarà che le cose che oggi sono ancora gradite al palato,

domani non piaceranno più a quelli che avranno accolto pensieri antroposofici.

 

Poiché i pensieri che gli antroposofi accolgono in sé sono pensieri divini,

questi elaborano l’intero organismo in modo che esso arriva a gustare soltanto ciò che è giusto

e a percepire come sgradevoli sapori e odori non adatti per esso.

Questa è una strana prospettiva; la si potrebbe anche forse chiamare materialistica, ma in realtà è il contrario.

 

Questo genere di simpatia per un cibo o di antipatia per un altro

si presenterà come una conseguenza del lavoro scientifico spirituale.

Ognuno può constatare, del resto, che forse oggi, di fronte a certe cose,

può provare un disgusto che non provava prima di dedicarsi all’antroposofia.

Questo si diffonderà sempre più, se l’uomo, in modo disinteressato, lavorerà alla sua evoluzione superiore,

così che il mondo possa avere da lui ciò che è giusto.

 

Solo non bisogna giocare a rimpiattino con le parole « egoismo » o « non egoismo ». Infatti si può molto facilmente adoperare male queste parole. Non è affatto privo di egoismo un uomo che dica : « Io voglio soltanto essere attivo nel mondo o per il mondo. A che serve la mia evoluzione spirituale? Io voglio solo lavorare e non sforzarmi egoisticamente… ».

 

Non è egoismo curare la propria evoluzione superiore,

perché essa rende l’uomo più adatto a collaborare attivamente all’ulteriore evoluzione del mondo;

mentre, trascurando la propria evoluzione, ci si rende inadatti per il mondo,

si toglie al mondo il contributo della propria forza.

 

Anche per ciò in particolare deve essere fatto quello che è giusto

per portare in noi stessi a evoluzione ciò che la divinità si è proposta di fare con noi.

Così, mediante l’antroposofia, sì svilupperà un genere umano, o per meglio dire un nocciolo di umanità,

che non sentirà in modo puramente istintivo la temperanza come un ideale da seguire,

ma che avrà anche coscientemente simpatia per ciò che fa dell’uomo, in modo degno,

una pietra costruttiva dell’ordine universale divino

ed a sentire un’avversione cosciente per tutto ciò che vuol distruggere l’uomo come pietra costruttiva del mondo.

 

Si scorge così che anche in ciò che nell’uomo stesso viene elaborato sono presenti gli impulsi morali,

e si sperimenta la temperanza trasformata in ciò che si può chiamare « saggezza di vita ».

 

L’ideale da prendere in considerazione

per il prossimo sesto periodo di civiltà postatlantica, quello della « saggezza di vita »,

sarà quella virtù ideale che Platone chiama la « giustizia », cioè l’armonioso accordo delle varie virtù.

 

Poiché le virtù si sono alquanto modificate nell’umanità, è anche cambiato ciò che nel tempo precristiano veniva considerato come giustizia. In quel tempo non esisteva una tale singola virtù, capace di promuovere l’accordo fra le altre virtù. Questa armonia sta davanti agli occhi umani come un ideale del più lontano avvenire.

 

Abbiamo visto che il coraggio si è trasformato nell’amore come impulso morale.

Abbiamo anche visto che la saggezza si è trasformata in veracità,

la virtù che può porre gli uomini in modo degno nella vita esteriore ed in giusto rapporto con essa.

• Ma come dovremo comportarci se vogliamo raggiungere la veracità di fronte alle cose dello spirito?

Noi arriviamo alla veracità, arriviamo a ciò che può, come virtù, infiammare la nostra anima senziente,

se sviluppiamo la giusta comprensione, il giusto interesse e la conseguente partecipazione viva.

 

Che cosa è ora questa partecipazione di fronte al mondo spirituale?

Sempre, quando ci si vuol porre di fronte al mondo fisico, e in particolare di fronte all’uomo,

dobbiamo aprirci a lui, dobbiamo avere uno sguardo aperto per il suo essere.

 

Ma come possiamo conquistarci un occhio aperto per il mondo spirituale?

Per ottenere questo è necessario sviluppare in noi una forma del tutto particolare di sentimento,

una forma di sentire che è anche sorta allorché l’antica saggezza, la saggezza istintiva,

si sprofondò negli abissi della vita dell’anima.

È quell’atteggiamento del sentire che i Greci esprimevano con la frase:

• « Ogni pensiero filosofico incomincia col ” meravigliarsi “, con lo stupirsi ’’ ».

 

Il prendere meraviglia e ammirazione

come punto di partenza del nostro rapporto col mondo soprasensibile

è in realtà anche un fatto morale importantissimo.

 

L’uomo incivile, selvaggio, difficilmente si pone in ammirazione di fronte ai grandi fenomeni dell’universo.

Solo per mezzo di una spiritualizzazione progressiva,

l’uomo arriva a trovare degli enigmi nei fenomeni quotidiani e ad intuire una spiritualità dietro di essi.

La meraviglia è la guida della nostra anima

verso le altezze dei campi dello spirito per introdurci nella conoscenza di esso.

 

Questa è soltanto raggiungibile se la nostra anima viene attirata per mezzo degli oggetti da conoscere.

Tale attrazione sprigiona in noi la meraviglia, l’ammirazione, la fede.

In verità le forze che ci guidano al soprasensibile sono sempre la meraviglia e lo stupore,

e questi sentimenti si designano anche abitualmente con la parola « fede ».

La fede, la meraviglia, l’ammirazione

sono le tre forze dell’anima che sollevano l’uomo al di sopra del mondo abituale.

 

Se noi stiamo pieni di stupore di fronte all’uomo, allora noi cerchiamo di comprenderlo;

per mezzo della comprensione del suo essere arriviamo alla virtù della fratellanza,

che si avvererà tanto meglio quanto più ci avvicineremo all’uomo con venerazione.

 

Allora si sperimenterà la necessità di portare incontro ad ogni uomo il sentimento della venerazione.

Agendo in tal modo arriveremo a diventare sempre più veraci.

La verità diventerà per noi qualche cosa cui ci sentiremo obbligati.

Accadrà così che, se noi avremo il presentimento del mondo soprasensibile,

ci rivolgeremo ad esso e, mediante la conoscenza, raggiungeremo

quella saggezza soprasensibile che s’inabissò nei tempi antichi nelle regioni subcoscienti dell’anima.

 

Solo quando la saggezza soprasensibile fu tramontata,

apparve la frase affermante che la filosofia ha inizio con lo stupore e la meraviglia.

Questa frase può spiegare che lo stupore e la meraviglia siano entrati nell’evoluzione del mondo

proprio nell’epoca in cui l’impulso del Cristo apparve sulla terra.

 

Ora, dopo aver visto che la seconda delle virtù è l’amore, soffermiamoci un poco sulla virtù che, in avvenire, sarà la saggezza di vita, mentre nell’epoca presente essa è ancora temperanza istintiva. In queste due ultime virtù l’uomo sta di fronte a se stesso.

Qui egli agisce, per così dire, in modo che, mediante le azioni che compie nel mondo, egli provvede a se stesso. È perciò necessario che venga trovato per lui un’obiettiva scala di valori.

 

Osserviamo quindi ora un fenomeno che si sviluppa sempre più e di cui spesso ho parlato da altri punti di vista; un fenomeno che anch’esso sorge per la prima volta nell’epoca greca, nel quarto periodo di civiltà postatlantica.

Nelle antiche tragedie greche, per esempio in Eschilo, le Erinni e le Furie hanno una parte che, più tardi, in Euripide si presenta trasformata in quella della coscienza.

 

Da ciò si può dedurre che, nei tempi più antichi, in generale

non esisteva ancora quello che noi chiamiamo « coscienza ».

Coscienza è, in particolare, ciò che è presente in noi come norma delle nostre azioni,

quando noi andiamo troppo oltre con le nostre pretese e cerchiamo troppo il nostro vantaggio personale.

 

Allora la coscienza agisce in noi come un arbitro che si pone in mezzo fra le nostre simpatie e antipatie.

Con essa acquistiamo una facoltà più oggettiva che agisce più verso l’esterno

che non le virtù della veracità, dell’amore e della saggezza di vita.

 

L’amore sta nel centro e agisce compenetrando e regolando tutta la vita, anche tutta la vita sociale.

Altrettanto agisce esso come regolatore su ciò che l’uomo ha sviluppato come impulsi interiori.

Invece quello che l’uomo ha sviluppato come veracità si mostrerà nella fede in una conoscenza soprasensibile.

 

La saggezza di vita, quella che riguarda noi stessi, va sentita come un elemento divino spirituale

che regola e sceglie con sicurezza la via del giusto mezzo in modo analogo alla coscienza.

 

Se ne avessi il tempo sarebbe straordinariamente facile rispondere alle varie obiezioni che possono sorgere a questo punto; ci limitiamo però a rispondere almeno ad una di queste. Qualcuno potrebbe dire per esempio : « Ecco uno che afferma che la coscienza e l’ammirazione sono penetrate nell’umanità a un determinato momento, mentre esse invece sono qualità eterne della natura umana ». Ma esse non lo sono ! Chi volesse affermare che esse sono qualità eterne, insite nella natura umana, dimostrerebbe soltanto che, in questo campo, egli non conosce i rapporti essenziali.

 

Verrà sempre più provato che nei tempi antichi

gli uomini non erano ancora discesi così ampiamente sul piano fisico,

che essi vivevano ancora in profonda unione con gli impulsi divini;

l’uomo era allora in uno stato cui egli di nuovo arriverà coscientemente

quando sarà maggiormente dominato da veracità, amore e arte di vita, in relazione al piano fisico;

e in relazione alla conoscenza spirituale quando egli sarà dominato dalla fede nel mondo soprasensibile.

 

Non occorre che sia una fede che porti immediatamente nel mondo soprasensibile,

ma alla fine essa si trasformerà in un sapere soprasensibile.

Come per la fede, così è anche per l’amore che agisce esteriormente.

La coscienza s’inserirà nell’anima cosciente regolandola.

 

Fede, amore, coscienza,

queste tre forze diverranno le tre stelle delle forze morali che penetreranno nelle anime umane,

particolarmente per mezzo della concezione antroposofica del mondo.

• La prospettiva morale dell’avvenire si può rivelare soltanto

a coloro che intuiscono l’infinita possibilità di potenziamento di queste tre virtù.

• La concezione antroposofica del mondo porrà la vita morale

nella luce di queste virtù che diventeranno forze costruttrici nell’avvenire.

 

Vorrei chiudere queste considerazioni esponendo qualche cosa che avrebbe certo bisogno di molte spiegazioni,

ma che io mi limiterò a comunicare.

 

L’impulso del Cristo penetrò nell’evoluzione terrestre, come abbiamo visto, col mistero del Golgota.

Sappiamo che, allora, un organismo umano formato da corpo fisico, corpo eterico e corpo astrale,

ha accolto dall’alto l’impulso del Cristo come « io ».

• L’impulso del Cristo fu ricevuto allora dalla terra, e fluì nella vita delle successive civiltà.

Di Gesù di Nazareth erano rimasti il corpo fisico, il corpo eterico e il corpo astrale.

L’impulso del Cristo vi dimorò come « io ».

Gesù di Nazareth si separò sul Golgota dall’impulso cristico che poi fluì nell’evoluzione terrestre.

Questo impulso, nella sua evoluzione, s’identificò con l’evoluzione stessa della terra.

 

Accogliete con serietà queste cose che spesso vengono ripetute affinché l’uomo possa più facilmente comprendere.

Il mondo è maya, è illusione, come spesso abbiamo pentito dire.

Ma l’uomo deve a poco a poco arrivare alla realtà di questo mondo esteriore.

 

L’evoluzione della terra consiste, in fondo, in questo:

che riguardo a tutte le cose esteriori nella seconda parte dell’evoluzione della terra, in cui ora ci troviamo,

si dissolve tutto quello che si era formato nella prima parte,

cosicché tutto ciò che noi vediamo esteriormente nel fisico si distaccherà dall’evoluzione dell’umanità,

allo stesso modo che dall’uomo si distacca, alla morte, il suo corpo fisico.

 

Che cosa resterà, allora, alla fine? si potrebbe domandare.

Resteranno delle forze: quelle forze reali che vengono incorporate negli uomini

mediante il processo di evoluzione dell’umanità sulla terra!

 

In esse l’impulso massimamente reale è quello fluito nell’evoluzione della terra attraverso il Cristo.

Ma l’impulso del Cristo non trova ora sulla terra nulla di cui si possa rivestire.

Perciò egli deve ricevere un involucro attraverso l’ulteriore evoluzione della terra,

e quando la terra sarà arrivata alla sua fine

allora il Cristo pienamente evoluto sarà l’uomo della fine,

come Adamo fu l’uomo del principio, intorno al quale si è raggruppata l’umanità nella sua molteplicità.

 

Nella frase « Quel che avete fatto al minimo dei miei fratelli, l’avete fatto a me »

è racchiusa per noi una grande indicazione. Che cosa vien fatto con ciò al Cristo?

 

Le azioni compiute nel senso dell’impulso cristico,

sotto l’influenza della coscienza e della fede, e nella direzione della conoscenza,

si vanno svincolando dalla vita terrestre svoltasi finora, e mentre l’uomo,

attraverso le sue azioni e la sua condotta morale, dà qualcosa ai suoi fratelli, lo dà nello stesso tempo al Cristo.

 

Si può così stabilire una norma:

tutto quanto vien creato di forze, di azioni di fede e di fiducia,

di azioni compiute attraverso la meraviglia e l’ammirazione,

tutto questo, poiché nello stesso tempo lo diamo all’io del Cristo,

è qualcosa che si avvolge intorno al Cristo stesso come un involucro,

paragonabile al corpo astrale di un uomo.

 

Noi formiamo il corpo astrale che avvolge l’impulso del Cristo

per mezzo di tutte le nostre azioni morali di meraviglia, di fiducia, di venerazione, di fede;

in breve per mezzo di tutto quello che mette le basi per la via della conoscenza soprasensibile.

• Per mezzo di tutte queste azioni noi suscitiamo l’amore, e tutto ciò è già nel senso della frase citata:

« Quel che avete fatto al minimo dei miei fratelli, l’avete fatto a me ».

 

• Noi formiamo, inoltre, il corpo eterico del Cristo con le nostre azioni d’amore;

•  infine, mediante quello che vien prodotto nel mondo per effetto degli impulsi della coscienza,

noi formiamo, per l’impulso del Cristo, quello che corrisponde al corpo fisico dell’uomo.

 

Quando la terrà sarà giunta alla sua mèta,

quando gli uomini comprenderanno i giusti impulsi morali

in base ai quali vien compiuto ogni bene sulla terra,

allora sarà liberato quell’impulso del Cristo che, col mistero del Golgota,

è fluito nell’evoluzione dell’umanità come « io ».

 

Esso sarà avvolto

• da un corpo astrale formato con la fede, con tutte le azioni di meraviglia e di ammirazione degli uomini;

• da qualche cosa che è come un corpo eterico, formato dalle azioni dell’amore,

• e da qualche cosa che intorno ad esso è come un corpo fisico, plasmato dalle azioni della coscienza.

 

Così si compirà l’evoluzione futura dell’umanità

per la collaborazione fra gli impulsi degli uomini e l’impulso del Cristo;

noi vediamo in prospettiva davanti a noi l’umanità come un grande organismo articolato.

 

Nella misura in cui gli uomini

• saranno in grado d’inserire le loro azioni in questo grande organismo,

• di formare un involucro con i loro impulsi e le loro azioni,

essi avranno gettato le basi, lungo l’evoluzione della terra,

di una grande comunità interamente compenetrata dall’impulso del Cristo.

 

Vediamo così che non occorre predicare la morale, ma che la si può fondare se si mostra quello che realmente accade, quello che realmente è accaduto e che traduce in realtà certe cose che nature particolarmente dotate in senso spirituale possono presentire. Si resta sempre commossi in modo speciale quando si considera la straordinaria, meravigliosa frase che Goethe scrisse da Weimar quando perdette il suo amico, il duca Carlo Augusto, frase poi ripetuta nel diario dello stesso giorno, nel 1828, tre anni e mezzo prima della sua morte, quasi alla fine, quindi, della sua vita : « Tutto il mondo ragionevole può venir considerato come un immenso individuo immortale che incessantemente genera ciò che è necessario e che proprio per ciò si rende padrone di ciò che è fortuito ».

 

Non prende questa frase un senso concreto quando ci rappresentiamo questo « individuo », attivo e creante fra di noi, e pensiamo noi stessi attivi e creanti uniti a lui? Con l’evento del Golgota la più alta individualità penetrò nell’evoluzione terrestre; e in quanto gli uomini avranno coordinato in modo cosciente la loro vita intorno ad essa, circonderanno, rivestiranno l’impulso del Cristo come di un involucro del quale il Cristo sarà il nocciolo, il centro.

 

Avrei ancora molto da dire su ciò che come virtù si sviluppa nell’antroposofia : in particolare si potrebbero fare ancora lunghe e importanti considerazioni su quella veracità che si riallaccia al karma. L’idea del karma penetrerà sempre più profondamente nell’evoluzione umana mediante la concezione scientifico-spirituale del mondo.

 

L’uomo imparerà sempre meglio a impostare la sua vita in modo che le sue virtù corrispondano al karma. Comprendendo l’idea del karma, egli apprenderà a non rinnegare con le azioni successive le sue azioni precedenti. Dall’evoluzione dell’umanità dovrà ancora risultare una certa coerenza di vita, un senso di responsabilità rispetto a ciò che abbiamo fatto nel passato. Quanto gli uomini siano ancora lontani da ciò, lo vediamo osservandoli più da vicino. Si sa che l’uomo si manifesta nelle cose che ha compiuto. Quando sembra che non sia più presente la conseguenza di una data azione, allora l’uomo agisce proprio come potrebbe agire soltanto se non avesse compiuto la prima azione. Come l’uomo possa arrivare a sentirsi responsabile di ciò che ha fatto e ad accogliere il karma nella sua coscienza, potrebbe ancora essere oggetto di considerazioni.

 

Ognuno potrà trovare da solo molte conseguenze delle direttive date in queste tre conferenze; si troverà così come queste idee siano feconde se ulteriormente sviluppate. Ed è compito dell’uomo vivere sempre nuove incarnazioni per il resto dell’evoluzione terrestre; tutte le manchevolezze, in un senso o nell’altro, relative alle virtù descritte, dovranno essere corrette mediante l’esplicazione della nostra libera volontà, in modo che subentri l’equilibrio, lo stato intermedio, e che a poco a poco possa venir raggiunta la mèta che è stata caratterizzata descrivendo la formazione degli involucri intorno all’impulso del Cristo.

 

La fratellanza umana universale ci appare così non solo come un ideale astratto, se pur permeato da forti impulsi, come quelli scaturiti dalla concezione antroposofica del mondo, ma come una realtà viva nell’evoluzione della terra, come un impulso vivo, penetrato nel mondo col mistero del Golgota. Si sentirà allora la necessità di agire sulle nostre tre anime, senziente, razionale e cosciente, in modo che quell’essere ideale diventi reale, e che noi ci leghiamo a questo essere come a una grande immortale individualità.

 

Il pensiero che l’evoluzione ulteriore dell’umanità 

– la possibilità del compimento della missione terrestre

riposa soltanto sul fatto di formare un tutto con questa grande individualità –

si esprime nel secondo principio morale :

« Ciò che tu fai come se fosse frutto soltanto del tuo essere, ti allontana dall’individuo immortale,

e con ciò tu distruggi qualcosa;

invece ciò che tu fai cooperando nel modo descritto per edificare questo grande immortale individuo,

tu lo fai per l’ulteriore evoluzione, per la continuazione della vita dell’intero organismo cosmico ».

 

Considerando questi due pensieri verrà fondata moralità senza bisogno di predicarla,

• perché il pensiero

« con le tue azioni tu distruggi qualcosa che dovresti edificare »

è terribile e spaventoso, e dovrebbe eliminare ogni passione in contrasto.

• Mentre l’altro pensiero

« tu cooperi a edificare l’individuo immortale e diventi parte di esso »

infiamma a buone azioni, a intensi impulsi morali.

 

Con ciò non viene solo predicata morale,

ma si indicano pensieri capaci di essere per sé stessi impulsi morali,

pensieri che possono fondare morale.

 

Questa morale diverrà tanto più velocemente concezione antroposofica del mondo e atteggiamento antroposofico, quanto più la veracità verrà coltivata. Questo è quanto mi sono posto per compito di esporre in queste tre conferenze.

Molto ha potuto essere soltanto accennato, ma le vostre anime svilupperanno ulteriormente i pensieri appena accennati in queste tre serate. Così ovunque noi resteremo uniti.

A questo scopo la cosa migliore per tutti noi, qui riuniti dal centro e dal nord dell’Europa, nello studio dei pensieri affiorati in queste riunioni, sarà di riconoscere che l’antroposofia deve fondare già oggi vera vita spirituale.

 

Anche se ora dobbiamo separarci,

sappiamo che i pensieri antroposofici sono il miglior legame per tenerci uniti;

e anche questo può essere un impulso morale.

Sapere di essere uniti intorno agli stessi ideali

con uomini che spazialmente sono divisi da grandi distanze,

con i quali si può tornare a stare insieme in occasioni particolari,

è un impulso morale più forte che l’unione continua.

 

Il poter pensare questo sulle nostre riunioni e su quanto in esse fu esposto riempie la mia anima, specialmente alla fine di queste conferenze, come qualcosa con cui vorrei darvi il mio saluto e che mi dà la convinzione che la vita antroposofica in via di evoluzione, se capita sotto questa luce, verrà anche fondata spiritualmente. Con questi pensieri e sentimenti vogliamo oggi concludere le nostre considerazioni.