I limiti della conoscenza

O.O. 2 – Linee fondamentali di una gnoseologia (Prefazione)


 

I miei pensieri vivevano

nelle concezioni filosofiche sulla natura della conoscenza, allora dominanti.

In esse la conoscenza minacciava di rimanere impigliata nell’entità dell’uomo.

 

L’acuto filosofo Otto Liebmann aveva pronunciato la massima che la coscienza umana non può andare di là di se stessa; che è costretta a rimaner chiusa in sé, e deve ignorare la vera realtà giacente di là dal mondo ch’essa crea entro se medesima. In brillanti scritti Otto Liebmann aveva sviluppato quest’idea per i diversi campi dell’esperienza umana.

Johannes Volkelt aveva dettato le sue opere dense di pensiero sulla gnoseologia kantiana, e su « Esperienza e pensiero »; nel mondo che è dato all’uomo egli vedeva solo una concatenazione di rappresentazioni che si formano nel rapporto dell’uomo con un mondo sconosciuto in sé; ammetteva bensì che nell’esperienza del pensiero, quando esso afferra il mondo delle rappresentazioni, si palesa una necessità; vale a dire che, quando il pensiero è attivo, noi sentiamo quasi di perforare il mondo delle rappresentazioni per penetrare nella realtà. Ma che cosa se ne guadagnava? Grazie a ciò ci si poteva sentir autorizzati a formulare col pensiero dei giudizi che dicevano alcunché intorno al mondo reale; ma con tali giudizi si rimaneva totalmente nell’interno dell’uomo; in questi nulla penetra dell’essere del mondo.

Eduard von Hartmann, la cui filosofia, senza ch’io potessi ammetterne i fondamenti e i risultati, aveva per me gran valore, riguardo alle questioni teoriche si trovava al medesimo punto di vista che in seguito venne diffusamente trattato dal Volkelt.

 

Si trovava dovunque la constatazione che l’uomo, con la sua conoscenza, va a urtare contro certi limiti che non può varcare per entrare nel regno della vera realtà.

Di fronte a tutto ciò viveva in me il fatto interiormente sperimentato, e sperimentato con conoscenza, che col suo pensiero, quando sufficientemente lo approfondisca, l’uomo vive nella realtà del mondo come in realtà spirituale. Ero convinto di possedere questa, come una conoscenza che può vivere nella coscienza con la stessa chiarezza interiore con cui ci si manifesta la conoscenza matematica.

Davanti a una tale conoscenza non può reggersi l’opinione che esistano limiti della conoscenza, quali la tendenza di pensiero sopra accennata credeva di dover stabilire.

 

In mezzo a tutto ciò si aggiungeva in me un’inclinazione del pensiero verso la teoria dell’evoluzione, allora fiorente. Questa, in Haeckel, aveva assunto delle forme in cui l’autonomo essere e operare della spiritualità non poteva trovare considerazione. Il successivo, il perfetto, doveva essersi prodotto nel corso del tempo dal precedente, imperfetto. Ciò mi persuadeva nei riguardi della realtà esteriore percepibile ai sensi.

 

Eppure conoscevo troppo bene la spiritualità autonoma, salda in sé, indipendente dal sensibile, per poter dar ragione al mondo esteriore delle apparenze sensibili.

• Si trattava dunque di costruire il ponte da questo mondo al mondo dello spirito.

Nel corso del tempo, pensato sensibilmente,

la spiritualità umana sembra svilupparsi da stati precedenti privi di spiritualità.

• Ma il sensibile, giustamente riconosciuto,

mostra dovunque d’essere una manifestazione dello spirito.

 

Di fronte a questa giusta conoscenza del sensibile, mi era chiaro che i «limiti della conoscenza», che allora si erigevano, potevano essere ammessi soltanto da chi, urtando contro il sensibile, lo tratta come uno che di una pagina stampata guardi solo le forme delle lettere e, senz’avere la più pallida idea di che cosa sia saper leggere, affermi che ciò che si nasconde dietro a quelle forme non si può sapere.

Così la mia attenzione, partendo dall’osservazione dei sensi, si rivolse alla spiritualità di cui mi ero accertato nell’esperienza conoscitiva interiore. Io non cercavo, dietro ai fenomeni sensibili, mondi di atomi privi di spiritualità, bensì la spiritualità che in apparenza si rivela nell’interno dell’uomo, ma in realtà appartiene agli stessi oggetti e processi sensibili.

 

• Il comportamento dell’uomo conoscente genera l’apparenza

che le idee delle cose siano nell’uomo, mentre in realtà vivono nelle cose.

• In un’esperienza apparente l’uomo deve scinderle dalle cose,

ma nella vera esperienza conoscitiva le restituisce ad esse.