I nostri progenitori dell’Atlantide

O.O. 11 – Dalla cronaca dell’akasha – (I nostri progenitori dell’Atlantide)


 

Chi si limita alla conoscenza del mondo sensibile non può immaginare quanto differissero da noi i nostri progenitori dell’Atlantide; e non soltanto nell’aspetto esteriore, ma anche nelle qualità dello spirito. Le loro cognizioni, le arti tecniche, tutta la loro civiltà era ben diversa da quella dei nostri giorni. Osservando l’umanità atlantica dei primi tempi, vi troviamo facoltà spirituali diverse in tutto dalle nostre.

 

L’intelletto razionale, la facoltà di combinare e di calcolare sulla quale oggi è basato tutto ciò che si produce, mancavano interamente ai primi Atlanti.

Essi possedevano invece una memoria sviluppatissima  che era una delle loro facoltà spirituali più spiccate.

Il loro modo di calcolare, per esempio, non consisteva come il nostro nell’imparare alcune regole per poi applicarle. L’abbaco, nei primi tempi dell’Atlantide, era ancora sconosciuto; nessuno aveva impresso nel proprio intelletto che tre per quattro fa dodici; chi aveva bisogno di fare questo calcolo sapeva orientarsi perché egli si riportava ad altri casi simili o uguali avvenuti precedentemente; si ricordava di quello ch’era stato applicato prima in circostanze analoghe.

Dobbiamo chiarirci che, ogni qualvolta in un essere si sviluppa una nuova facoltà, un’altra perde di forza e d’acutezza.

 

L’uomo odierno, rispetto a quello dell’Atlantide, possiede l’intelletto razionale e la facoltà di combinare; la memoria invece è venuta meno.

Oggi gli uomini pensano per concetti; gli Atlanti pensavano per immagini.

 

Allorché un’immagine sorgeva nella loro anima, essi si ricordavano di tante e tante altre immagini simili già vedute; poi formavano il loro giudizio. Perciò anche l’insegnamento era diverso a quei tempi; non era rivolto a corazzare il fanciullo di regole o ad acuire il suo intelletto, ma piuttosto a fargli conoscere la vita per mezzo di immagini evidenti, in modo da dargli un largo patrimonio di ricordi sul quale regolare la sua azione avvenire nelle diverse circostanze. Allora, cresciuto ed entrato nella vita, egli ricordava in ogni sua azione di aver già veduto qualcosa di simile durante gli anni di scuola; e quanto più il nuovo caso somigliava a qualche caso già veduto, tanto più facilmente vi si raccapezzava.

 

Trovandosi in circostanze nuove, l’uomo atlantico doveva sempre provare e riprovare, mentre l’uomo d’oggi si risparmia molte esperienze, fornito com’è di regole che può applicare facilmente anche nei casi non ancora incontrati. Un tale sistema d’educazione dava a tutta la vita un carattere di uniformità.

Si facevano le stesse cose allo stesso modo per lunghi periodi di tempo.

La memoria fedele non permetteva nulla che somigliasse anche lontanamente alla celerità del progresso attuale.

Si faceva ciò che si era sempre veduto fare. Non si rifletteva, si ricordava.

Non era un’autorità chi aveva molto studiato, ma chi aveva molto vissuto, e poteva per conseguenza molto ricordare.

 

Sarebbe stato impossibile, prima di una certa età, di poter prendere qualsiasi decisione in una materia importante; si aveva fiducia solo in chi aveva dietro di sé una lunga esperienza.

Tutto ciò però non si riferisce né agli iniziati né alle loro scuole, poiché gli iniziati sono sempre in anticipo nell’evoluzione, e l’essere ammessi in una tale scuola non dipende dall’età ma dal fatto che il candidato abbia acquistato nelle precedenti incarnazioni le facoltà necessarie a ricevere la sapienza superiore. La fiducia che nell’epoca atlantica si aveva negli iniziati e nei loro accoliti non riposava sulla misura della loro esperienza personale, ma sull’antichità della loro sapienza.

Nell’iniziato la personalità non ha più alcuna importanza.

Egli è esclusivamente al servizio della saggezza eterna, e perciò le caratteristiche di qualsiasi epoca non valgono per lui.

 

Mentre dunque gli Atlanti (specialmente i primi) mancavano di pensiero logico, possedevano una memoria eminentemente evoluta la quale conferiva a tutte le loro azioni un carattere speciale. Ma all’essenza di ogni facoltà umana se ne allacciano sempre altre.

La memoria è più strettamente collegata ai più profondi sostrati naturali dell’uomo di quanto non lo siano le forze dell’intelletto, e con la memoria si erano sviluppate anche altre forze naturali, anch’esse più affini alle forze degli esseri naturali inferiori di quanto non lo siano le forze motrici di cui attualmente l’uomo si serve.

Gli Atlanti erano così in grado di dominare quella che chiamiamo forza vitale.

 

Come oggi si trae dal carbone la forza del calore che si trasforma nell’energia dinamica dei nostri mezzi di locomozione, così gli Atlanti sapevano servirsi a scopi tecnici della forza germinatrice contenuta negli esseri viventi.

Cerchiamo di formarcene un’idea giusta, pensando a un chicco di grano. In esso esiste un’energia latente, ed è questa che dal grano fa germogliare la spiga. La natura ha la facoltà di risvegliare questa forza che dorme nel grano; l’uomo d’oggi non può farlo con la sua volontà; deve quindi immergere il chicco di grano nella terra e affidarlo alle forze naturali perché lo risveglino.

 

L’uomo atlantico faceva di più. Egli conosceva l’arte di trasformare in forza motrice l’energia contenuta in un mucchio di grano, come l’uomo di oggi è capace di trasformare in forza motrice l’energia contenuta in un mucchio di carbon fossile.

Allora le piante non venivano soltanto coltivate a scopo alimentare, ma anche al fine di adoperare le forze in esse racchiuse, per l’industria e la locomozione. Come noi abbiamo degli apparecchi per trasformare la forza latente del carbon fossile nell’energia dinamica delle nostre locomotive, così gli Atlanti avevano degli apparecchi di cui per così dire alimentavano la combustione coi germi delle piante, trasformando la forza vitale di questi germi in energia applicabile alla tecnica. Così riuscivano a far muovere i loro veicoli a piccola altezza al di sopra del suolo, a un’altezza inferiore a quella dei monti di allora; e per mezzo di un congegno speciale del timone potevano anche elevarsi al di sopra dei monti.

 

Non dimentichiamo che tutte le condizioni della nostra Terra si sono assai modificate nel corso del tempo.

Quei veicoli degli Atlanti non si potrebbero affatto adoperare ai giorni nostri, poiché il loro uso dipendeva dal fatto che l’atmosfera che circondava la Terra era a quell’epoca assai più densa di ora.

Se dal punto di vista scientifico odierno una tale densità sia ammissibile o no, non ci deve ora preoccupare.

La scienza e il ragionamento logico non potranno mai, in virtù della loro natura, stabilire che cosa sia possibile o impossibile; il loro compito è soltanto di spiegare quello che l’esperimento e l’osservazione hanno accertato.

 

Per l’esperienza occulta, la densità dell’aria, di cui parlavamo or ora, è altrettanto certa quanto può esserlo qualunque fatto fisico attuale. Altrettanto reale, e forse ancora più inverosimile per la fisica e per la chimica d’oggi, è che a quell’epoca l’acqua era su tutta la Terra assai più fluida di ora; e per questa sua fluidità l’acqua, mercé la forza germinatrice di cui gli Atlanti sapevano servirsi, poteva essere diretta a usi tecnici tali che oggi sarebbero impossibili. Per il condensarsi dell’acqua, è divenuto impossibile guidarla e dirigerla con l’arte mirabile di allora.

Si comprenderà dunque facilmente come la civiltà atlantica fosse del tutto diversa dall’attuale, e come pure la natura fisica degli uomini di quel tempo differisse interamente dalla nostra.

 

L’uomo atlantico assorbiva un’acqua che la forza vitale propria al suo corpo poteva elaborare ben diversamente da come è possibile nel corpo fisico d’oggi, e di conseguenza egli poteva servirsi volontariamente delle proprie forze fisiche altrimenti che non l’uomo attuale.

Possedeva cioè il mezzo di aumentare in sé le proprie forze fisiche quando ne aveva bisogno per i propri dispositivi.

 

Ci formiamo un’idea giusta degli Atlanti solo se teniamo conto che essi avevano della stanchezza e dell’uso delle forze un concetto ben diverso dal nostro.

Una colonia di Atlanti, come risulta chiaro da quanto siamo venuti dicendo, aveva un carattere che non ha nulla in comune con quello di una città moderna. Tutto era ancora in relazione diretta con la natura.

 

Ne daremo un’immagine debolmente somigliante, dicendo che nei primi tempi atlantici, fin circa la metà della terza sottorazza, una colonia era simile a un giardino nel quale le case erano costruite con alberi congiunti per mezzo dei loro rami intrecciati con arte.

Ciò che la mano dell’uomo elaborava allora, sorgeva per così dire dalla natura, e l’uomo stesso si sentiva strettamente congiunto ad essa.

Ne seguiva che anche il sentimento sociale dell’uomo era ben diverso da quello d’oggi.

 

La natura era comune a tutti gli uomini; quel che l’uomo atlantico costruiva su basi naturali era considerato bene pubblico, così come all’uomo d’oggi viene naturale di considerare proprietà privata il frutto del suo acume e della sua intelligenza.

Chi si è familiarizzato con l’idea che gli Atlanti possedevano le forze fisiche e spirituali descritte, imparerà anche a comprendere come, risalendo a tempi ancor più remoti, l’umanità mostrasse un aspetto che ben poco somigliava a ciò che siamo abituati a vedere oggi.

E non soltanto gli uomini, ma anche la natura che li circonda si è profondamente trasformata nel corso dei tempi; tanto le forme delle piante quanto quelle degli animali si sono mutate.

 

Tutta la natura terrestre ha subito delle trasformazioni; continenti prima abitati furono distrutti, altri ne sorsero.

I predecessori degli Atlanti abitavano un continente ora sparito, la cui parte principale si estendeva a sud dell’Asia attuale; negli scritti teosofici vengono chiamati Lemuri.

Dopo esser passati attraverso diversi gradi d’evoluzione, degenerarono in gran parte, e i loro discendenti intristiti si trovano oggi, tra i popoli selvaggi, in alcune parti del globo.

Solo una piccola parte dell’umanità lemurica fu capace di continuare a evolversi, e da questa ebbero origine gli Atlanti.

 

Anche più tardi si svolse di nuovo un fatto simile: la maggior parte della popolazione atlantica degenerò, e da una piccola parte di essa ebbero origine i così detti Ariani che costituiscono la nostra attuale umanità civile.

I Lemuri, gli Atlanti e gli Ariani sono, secondo la denominazione della scienza occulta, razze radicali dell’umanità.

Oltre a queste si pensino due razze radicali precedenti i Lemuri, e due razze radicali successive agli Ariani; in tutto abbiamo sette razze.

Queste razze radicali provengono sempre l’una dall’altra nel modo già accennato a proposito dei Lemuri, degli Atlanti e degli Ariani, e ogni razza radicale ha qualità fisiche e spirituali completamente diverse da quelle della razza precedente.

 

Mentre gli Atlanti svilupparono in modo speciale la memoria e tutto ciò che ad essa si ricollega, è ora compito degli Ariani sviluppare la forza del pensiero con tutti i suoi attributi.

Ma anche ogni razza radicale deve passare per diversi gradi, e sempre in numero di sette. Al principio dell’epoca in cui si svolge una razza radicale, le sue qualità principali si trovano ancora in uno stato giovanile, giungono poi gradatamente a maturità e per ultimo alla decadenza.

Perciò la popolazione di una razza radicale si suddivide in sette sottorazze; non si deve però immaginare che una sottorazza sparisca appena ne sorge una nuova.

 

Al contrario, ognuna si mantiene ancora per lungo tempo, mentre le altre le si sviluppano accanto; così si trovano sempre sulla Terra, l’una vicino all’altra, popolazioni che mostrano gradi diversi d’evoluzione.

La prima sottorazza degli Atlanti si sviluppò da un ramo dei Lemuri già molto avanzato e molto suscettibile di sviluppo.

• Nei Lemuri la facoltà della memoria era apparsa soltanto nei primissimi e negli ultimi tempi della loro evoluzione. Dobbiamo immaginare che il lemure era sì capace di formarsi delle rappresentazioni di quel che sperimentava, ma non era in grado di conservare queste rappresentazioni; dimenticava immediatamente quello che si era rappresentato. Il fatto che ciò nonostante egli vivesse in una certa forma di civiltà, che possedesse per esempio utensili, innalzasse edifici, e così via, non era dovuto alla propria facoltà di rappresentazione, ma a una forza spirituale che aveva in sé e ch’era, per così dire, istintiva; tale forza non era però simile all’istinto attuale degli animali, ma era un istinto di natura tutta particolare.

 

La prima sottorazza degli Atlanti vien chiamata negli scritti teosofici Rmoahals.

La memoria di questa razza ai rivolgeva specialmente alle vive impressioni dei sensi. I colori che l’occhio aveva veduto, i suoni percepiti dall’orecchio, agivano a lungo nell’anima, e ciò si esprimeva nel fatto che i Rmoahals sviluppavano sentimenti ancora sconosciuti ai loro antenati Lemuri. Per esempio faceva parte di quei sentimenti l’attaccamento a ciò che era stato sperimentato nel passato.

 

Con lo sviluppo della memoria stava in relazione anche lo sviluppo del linguaggio.

Finché l’uomo non conservava in sé il passato, non poteva nemmeno comunicare le proprie esperienze per mezzo della parola.

E poiché nell’ultimo periodo dell’epoca lemurica cominciò ad apparire la memoria, così a quel tempo potè pure sorgere il primo inizio della facoltà di dare un nome a ciò ch’era stato veduto e udito.

Soltanto per chi abbia la facoltà della memoria può aver senso il nome attribuito a una cosa.

 

Perciò l’epoca atlantica fu quella in cui il linguaggio cominciò a svilupparsi; e col linguaggio venne a stabilirsi un vincolo tra l’anima umana e le cose fuori dell’uomo.

L’uomo generava la parola nella propria anima, e questa parola era in rapporto con le cose del mondo esterno.

Anche tra uomo e uomo si formò un nuovo legame, grazie alla comunicazione per il tramite della parola.

Benché presso i Rmoahals tutto ciò avesse ancora una forma primitiva, pure li distingueva profondamente dai loro antenati Lemuri.

 

Ora le forze animiche di questi primi Atlanti avevano ancora alcunché delle forze della natura; in certo modo essi erano più prossimi agli esseri della natura che li circondavano, di quanto non lo fossero più tardi i loro discendenti. Le loro forze animiche erano simili alle forze naturali più che non lo siano quelle degli uomini attuali. Così anche la parola che essi pronunciavano aveva il potere di una forza naturale.

Non soltanto essi denominavano le cose, ma le loro parole contenevano anche un potere sulle cose e sugli uomini.

La parola dei Rmoahals non aveva soltanto significato, ma anche potere.

Quando si parla di «forza magica» delle parole, si accenna a una cosa ch’era assai più reale per i Rmoahals che non per gli uomini d’oggi.

 

• Allorché uno di loro pronunciava una parola, questa parola sviluppava una forza analoga a quella dell’oggetto stesso a cui si riferiva.

Per questo le parole avevano a quell’epoca il potere di guarire le malattie, di favorire la crescita delle piante, di domare la furia degli animali, ed altri effetti simili.

 

Nelle sottorazze atlantiche che seguirono, tutto ciò andò sempre più diminuendo, e si potrebbe dire che quella forza elementare naturale andò a poco a poco perdendosi.

I Rmoahals sentivano quella forza come un dono della potente natura, e la loro relazione con la natura aveva un carattere Religioso.

 

• Il linguaggio specialmente era per loro qualcosa di sacro, e l’abuso di certe parole, nelle quali risiedeva una gran forza, sarebbe stato cosa impossibile. Tutti sentivano che un tale abuso avrebbe loro portato un danno gravissimo; la forza magica di quelle parole si sarebbe trasformata nel suo contrario. Quello che, usato giustamente, era fonte di bene, diventava rovina per chi ne abusasse. Una certa purezza di sentimento faceva sì che i Rmoahals attribuissero quella forza non tanto a sé quanto alla natura divina che agiva in loro.

 

• Nella seconda sottorazza, quella dei cosiddetti Tlavatli tutto ciò andò mutandosi.

Gli uomini di questa razza cominciarono a sentire il proprio valore personale.

Tra loro si fece sentire l’ambizione, qualità sconosciuta ai Rmoahals.

 

La memoria cominciò ad aver parte nell’ordine della vita sociale; chi poteva ricordare talune gesta ne richiedeva dagli altri il riconoscimento, esigeva che delle sue opere fosse serbato il ricordo. Sul ricordo delle opere si fondava anche il fatto che gli individui di un medesimo gruppo scegliessero tra loro un capo.

Ne derivò una specie di dignità regale; tale riconoscimento si conservava fin altre la morte, sviluppando così la memoria, il ricordo degli avi o di coloro che durante la vita avevano acquistato qualche merito. Presso alcune stirpi veniva così formandosi una specie di venerazione religiosa dei morti, un culto degli avi, che sotto le più svariate forme durò lungamente anche in epoche posteriori. Ancora tra i Rmoahals, l’uomo aveva valore soltanto per il potere che al momento egli si procurava mediante la propria forza.

 

Chi voleva un riconoscimento delle gesta compiute in passato, doveva dimostrare con nuove imprese che l’antica forza non lo aveva abbandonato. Per mezzo di nuove gesta doveva per così dire richiamare alla memoria anche le antiche. I fatti compiuti, come tali, non avevano valore presso i Rmoahals, soltanto durante la seconda sottorazza si cominciò a dar tanto peso al carattere personale di un individuo da tener conto, in questa valutazione, anche della sua vita passata.

 

Un’ulteriore conseguenza della facoltà della memoria per la vita sociale fu il formarsi di raggruppamenti di uomini uniti dal ricordo di gesta compiute in comune. Fino allora gli uomini si erano raggruppati esclusivamente secondo forze naturali, secondo la comune origine.

L’uomo, per virtù del proprio spirito, non aveva ancora aggiunto nulla a ciò che la natura aveva fatto di lui.

Ora invece una personalità potente era capace di riunire intorno a sé un certo numero di individui per un’impresa comune, e più tardi il ricordo di questa impresa li fondeva in un solo gruppo sociale.

 

• Questa forma di vita sociale s’impresse nettamente soltanto nella terza sottorazza, quella dei Tolteki. Gli uomini di questa razza cominciarono infatti a fondare quella che si può chiamare una prima forma di comunità, una prima forma di stato; e la direzione, il governo di tali comunità divenne ereditario.

• Ciò che prima continuava a vivere soltanto nella memoria dei contemporanei si trasmise ora dal padre al figlio.

Tutta la discendenza doveva serbare grato ricordo per le gesta degli avi; nipoti lontani dovevano ancora apprezzare le gesta degli antenati.

 

Bisogna però considerare che a quei tempi gli uomini avevano realmente la forza di tramandare le proprie qualità ai loro discendenti.

Tutta l’educazione consisteva specialmente nel mettere sotto gli occhi dei discepoli esempi di vita in forma d’immagini evidenti, e l’efficacia di tale educazione dipendeva dall’influenza personale esercitata dall’educatore.

Questi non cercava di aguzzare l’ingegno, ma di sviluppare piuttosto qualità di natura più istintiva. In virtù di tale sistema di educazione, nella maggior parte dei casi le facoltà del padre venivano realmente tramandate al figlio.

 

Così nella terza sottorazza l’esperienza personale acquistava un’importanza sempre maggiore; e allorché un gruppo si segregava da un altro per formare una nuova comunità, portava con sé il ricordo vivente di quello che aveva sperimentato nell’antica dimora.

Ma in tale ricordo questo nuovo gruppo sentiva anche degli elementi che non gli erano conformi, che non gli si confacevano e, sotto questo rispetto, tentava allora qualcosa di nuovo.

Così, con ogni nuova comunità che veniva formandosi, le condizioni andavano migliorando, ed era ben naturale che i miglioramenti venissero imitati.

 

Grazie a questi fatti, all’epoca della terza sottorazza si produssero quelle fiorenti comunità che ci vengono descritte nella letteratura teosofica. E le esperienze personali che si andavano facendo, trovavano appoggio da parte di coloro che erano iniziati nelle leggi eterne dell’evoluzione spirituale.

Gli stessi potentissimi re ricevevano l’iniziazione, affinché la capacità personale avesse in essa un sostegno completo.

Pel suo valore personale l’uomo a poco a poco si rende atto all’iniziazione; egli deve prima sviluppare le proprie forze, da sotto in su, perché poi gli possa venir conferita l’illuminazione dall’alto.

 

Così ebbero origine i re iniziati e le guide degli Atlanti.

Un potere immenso stava nelle loro mani; e immensa era pure la venerazione che veniva loro tributata.

Ma in questo fatto si nascondeva anche il germe della decadenza e della rovina.

 

Lo sviluppo della memoria condusse all’esaltazione della personalità;  l’uomo volle essere esaltato per la sua potenza personale, e quanto più la sua potenza aumentava, tanto più egli voleva sfruttarla a scopi personali.

• L’ambizione, che si era sviluppata, divenne egoismo, e quest’ultimo condusse all’abuso della forza.

 

Se pensiamo al potere che gli Atlanti avevano acquistato col dominio sulla forza vitale, comprenderemo come l’abusarne dovesse condurre a gravissime conseguenze.

Un ampio potere sulle forze della natura poteva venir messo così al servizio dell’egoismo.

• Ciò avvenne pienamente nella quarta sottorazza, nei Turani primitivi.

Questi uomini, avendo appreso a dominare tali forze, se ne servirono spesso per soddisfare le proprie brame egoistiche. Ma adoperate così, queste forze si distruggono per i loro vicendevoli effetti. È come se in una persona i piedi volessero a tutti i costi avanzare, mentre il resto del corpo volesse retrocedere.

 

• Tali rovinosi effetti poterono essere arrestati soltanto perché una forza superiore si sviluppò nell’uomo: la forza del pensare.

Il pensare logico domina e frena i desideri personali egoistici.

• L’origine del pensiero logico è da ricercarsi nella quinta sottorazza, quella dei Protosemiti.

 

Gli uomini cominciarono ad arrivare più in là del semplice ricordo del passato e a confrontare tra loro le diverse esperienze.

Si sviluppò la facoltà del giudizio, la quale regolò i desideri e le passioni.

Si cominciò a calcolare e a combinare; s’iniziò il lavorìo del pensiero.

 

Se prima gli uomini si abbandonavano a ogni desiderio, ora soltanto cominciarono a chiedere se il pensiero lo approvasse o no. Mentre gli uomini della quarta sottorazza cercavano violentemente la soddisfazione delle loro passioni, quelli della quinta cominciarono a porgere ascolto a una voce interiore. Questa mette un argine alle passioni, anche se non riesce a distruggere le pretese della personalità egoistica.

 

Così la quinta sottorazza trasferì entro l’intimo dell’uomo l’impulso all’azione.

L’uomo, nel suo intimo, vuol rendere conto a se stesso di ciò che deve o non deve fare.

Ma quello che interiormente si acquistava così nella forza del pensare, si perdeva d’altra parte nel dominio sulle forze naturali esteriori.

Per mezzo del pensiero logico si possono soggiogare soltanto le forze del mondo minerale, non la forza vitale.

 

• La quinta sottorazza sviluppò quindi la forza del pensare a detrimento del dominio sulla forza vitale. Ma appunto così essa produsse il germe dell’evoluzione successiva dell’umanità. Per quanto si sviluppassero ora la personalità, l’amore di sé e l’egoismo, il semplice pensiero che lavora soltanto nell’interiorità e non può impartire ordini diretti alla natura è incapace di produrre le nefaste conseguenze che erano derivate dall’abuso delle forze di prima.

• La parte meglio dotata della quinta sottorazza venne scelta a sopravvivere alla rovina della quarta razza radicale e formò il germe della quinta razza, l’ariana, che ha il compito di sviluppare interamente la forza del pensiero con tutto quanto vi si connette.

 

• Gli uomini della sesta sottorazza (gli Akkadi) svilupparono, ancora più di quelli della» quinta, la facoltà di pensare; si distinsero dai cosiddetti Protosemiti per una più estesa applicazione di tale facoltà. Come fu detto, lo sviluppo della forza del pensiero impedì che le esigenze della personalità egoistica provocassero quell’azione devastatrice ch’era ancora possibile nelle razze precedenti; non riuscì però a sopprimere quelle esigenze.

I Protosemiti regolarono da prima le loro condizioni personali secondo i suggerimenti del pensiero.

Al posto delle sole brame e dei soli desideri subentrò l’intelletto, e nuove forme di vita si manifestarono.

 

Mentre le razze antecedenti erano inclini a riconoscere come guida l’individuo le cui gesta avessero lasciato una profonda traccia nella loro memoria o la cui vita fosse ricca di ricordi, ora venne riconosciuto come tale il più intelligente.

Mentre prima si dava importanza a ciò di cui si serbava buon ricordo, ora si teneva in maggior conto ciò che meglio persuadeva il pensiero.

 

Un tempo, sotto l’influenza della memoria, si restava fedeli a una cosa fino al giorno in cui la si trovava insufficiente, e in tal caso riusciva naturalmente a vincere chi era in grado di colmare la lacuna per mezzo di una innovazione. Come effetto della facoltà di pensare, nacque invece una smania d’innovazione e di cambiamento; ognuno voleva attuare quel che gli suggeriva la sua intelligenza. Così che, durante la quinta sottorazza, cominciò una certa irrequietudine che produsse poi, durante la sesta, la necessità di sottomettere a leggi comuni il dispotico pensiero del singolo individuo.

 

• Lo splendore degli stati della terza sottorazza aveva la sua base nell’ordine e nell’armonia che i comuni ricordi generavano; nella sesta invece quest’ordine dovette essere prodotto a mezzo di leggi pensate.

• Nella sesta sottorazza dobbiamo dunque ricercare l’origine del diritto e degli ordinamenti legislativi.

 

Nella terza sottorazza un gruppo di persone non si segregava dal resto, se non quando si sentiva come espulso dalla propria comunità, perché le condizioni sorte dai ricordi comuni più non gli si confacevano. Nella sesta sottorazza invece ciò era essenzialmente diverso. Il pensiero calcolatore cercava la novità per se stessa, incitava a intraprese e a nuove istituzioni. Gli Akkadi erano perciò un popolo intraprendente, incline alla colonizzazione, e che trovava, specialmente nel commercio, alimento alla forza, allora appena germogliata, del pensiero e del giudizio.

 

• Anche nella settima sottorazza, in quella dei Mongoli, si sviluppò la facoltà di pensare. Ma alcune qualità delle sottorazze precedenti, specialmente della quarta, sussistevano in essa ancor più accentuate che non nella quinta e nella sesta razza. I Mongoli si serbano fedeli alla memoria; e così giungono alla convinzione che ciò ch’è più antico sia anche più intelligente, riesca cioè a meglio trionfare anche di fronte alla facoltà del pensiero.

Sebbene ormai privi anch’essi del dominio sulle forze vitali, la stessa loro forza di pensiero aveva però in parte raggiunto la potenza elementare della forza vitale. Avevano sì perduto il potere sulla vita, ma non la immediata, ingenua fede in essa.

Questa forza era diventata il loro dio, per ordine del quale essi facevano quanto ritenevano giusto; così ai popoli vicini apparivano come posseduti da questa occulta potenza, e si abbandonavano realmente ad essa con cieca fede. I loro discendenti nell’Asia e in alcune parti d’Europa mostravano e mostrano ancora gran parte di tale carattere.

 

La forza del pensare infusa nell’uomo potè raggiungere il suo completo valore nell’evoluzione soltanto quando, nella quinta razza radicale, ricevette un nuovo impulso.

La quarta aveva potuto mettere il pensiero soltanto al servizio di ciò che aveva acquistato per mezzo della memoria.

La quinta è invece giunta a forme di vita per le quali la facoltà del pensiero è lo strumento giusto.

 

Era Atlantidea, si suddivide in una successione di sette epoche culturali:

 

  1. Rmohals: Età dell’Aquario (22.347–20.187).
  2. Tlavatli: Età del Capricorno (20.187–18.027)
  3. Toltechi: Età del Sagittario (18.027–15.867)
  4. Turani: Età dello Scorpione (15.867–13.707)
  5. Proto-Semiti: Età della Bilancia (13.707–11.547)
  6. Akkadi: Età della Vergine (11.547–9.387)
  7. Proto-Mongoli: Età del Leone (9.307–7.227),

alla fine della quale avviene il Diluvio Universale, ovvero la distruzione di Atlantide attraverso l’acqua.