I tre passi dell’antroposofia

O.O. 215 – Filosofia, Cosmologia e Religione – 06.09.1922


 

Vorrei oggi dare solamente alcuni accenni introduttivi sulle intenzioni e le mete della scienza spirituale che qui è coltivata.

Perciò solo nei prossimi giorni potrà venire spiegato più a fondo ciò che oggi desidero abbozzare.

 

Quello su cui ora desidero attirare l’attenzione è il fatto che, per conoscere i mondi soprasensibili, occorre estrarre dalle profondità dell’anima umana le forze di conoscenza capaci di penetrare nel soprasensibile, in modo simile a come le forze dei sensi esteriori penetrano il mondo fisico esterno.

 

Il primo compito dello scienziato dello spirito

è quello di rivolgere lo sguardo alla propria organizzazione animico-spirituale,

atta ad avvicinarsi alla sfera del soprasensibile.

 

• In questo lo scienziato dello spirito si differenzia dallo scienziato della natura:

quest’ultimo prende l’organizzazione umana così com’è, la applica alla natura esterna,

usando tutta la sua esattezza per ricavare dei risultati appunto sui fenomeni naturali esterni.

• Proprio se vuol muoversi sul terreno delle autentiche conoscenze scientifiche,

lo scienziato dello spirito non può procedere allo stesso modo;

egli deve cominciare col prestare attenzione

all’organo della conoscenza animico-spirituale, diciamo all’«occhio spirituale».

 

Ma il suo sguardo, che in un primo tempo prepara e sviluppa l’occhio spirituale, deve possedere la stessa precisione che viene applicata dal matematico o da uno sperimentatore, per risolvere i rispettivi problemi matematici o tecnici.

Per l’indagine spirituale è essenziale questo lavoro da intraprendere su se stessi,

come preparazione alla scienza.

E come sono precisi nella ricerca dei loro risultati il matematico o il naturalista in genere, così deve essere esatto l’indagatore dello spirito nella preparazione della propria organizzazione animico-spirituale che dovrà poi percepire i fatti soprasensibili, come l’occhio o l’orecchio percepiscono quelli della sfera sensibile.

 

Deve dunque essere esatta la scienza spirituale, quale viene intesa in questa sede;

ed esatte sono la matematica e le scienze naturali.

Vorrei però precisare che la scienza dello spirito comincia con la sua esattezza

solo là dove termina l’esattezza delle scienze naturali.

L’indagine spirituale deve essere esatta riguardo alla preparazione della propria natura umana;

in modo esatto deve essere compiuto sull’uomo stesso

ciò che è necessario perché egli possa divenire un indagatore dello spirituale;

in modo esatto e valido di fronte alla scienza deve essere descritto già l’occhio spirituale,

quando comincia ad affrontare i fatti del mondo soprasensibile.

 

• Mentre nella mistica, quale la si intende di solito, il comportamento interiore dell’anima viene spesso trattato in modo piuttosto confuso,

• nella vera indagine spirituale ogni minimo passo va esposto con la stessa chiarezza e trasparenza con cui si espone il problema affrontato da un matematico.

Allora si produce una specie di risveglio a un gradino di coscienza più alto, paragonabile al risveglio che si sperimenta di solito, quando si esce dal sonno per trovarsi in mezzo al mondo sensibile.

 

Se parlo di esattezza in particolare per l’indagine spirituale di cui qui si tratta, il termine si riferisce alla preparazione esatta e scientifica di ciò che nell’uomo deve precedere la ricerca stessa: cioè l’organizzazione animico-spirituale necessaria.

È questa che lo scienziato dello spirito deve poter percepire in partenza con precisa limpidità; solo in seguito egli potrà cominciare a gettare lo sguardo nel mondo dei fatti soprasensibili.

Questo vuol essere solo un accenno indicativo, non ancora dimostrativo.

 

Poiché nella preparazione della vera e propria osservazione spirituale ci si propone questa esattezza, volendo chiamare chiaroveggenza il modo qui inteso di osservazione dello spirito, è lecito parlare di chiaroveggenza esatta.

Il carattere specifico dell’indagine spirituale che viene qui coltivata è appunto quello di poggiare sopra la chiaroveggenza metodicamente esatta.

L’esattezza della chiaroveggenza deve essere appunto la caratteristica dell’indagine spirituale quale viene praticata nell’antroposofia.

 

Da questo punto di vista la nostra indagine spirituale non vorrebbe applicarsi solo a una sfera limitata, ma si propone di elaborare qualcosa in cui possano sfociare tutte le altre scienze e tutte le forme di vita del presente.

Ciò che qui viene conquistato spiritualmente non deve essere solo una sovrastruttura spirituale della concezione scientifica del mondo; i diversi campi della conoscenza conquistati scientificamente dall’umanità moderna devono venir sollevati al piano della conoscenza spirituale, per essere per così dire coronati da quanto è in grado di offrire l’indagine spirituale.

Vorrei citare come esempio solo il caso della medicina.

 

La conoscenza spirituale che viene qui coltivata riconosce pienamente il valore della medicina, quale è stata elaborata sulle basi della conoscenza scientifica moderna, e quale ci si presenta nei suoi ammirevoli risultati.

È tuttavia possibile portare più oltre, grazie a una chiaroveggenza esatta, quanto la medicina ha scoperto partendo esclusivamente dalla conoscenza esteriore.

Solo così la scienza medica puramente naturalistica, quale viene oggi insegnata, potrà portare tutti i suoi frutti.

 

Analogamente si vorrebbe qui acquistare in modo spirituale una conoscenza capace di portare nella sfera dello spirituale anche ogni attività artistica.

Qui al Goetheanum ci si sforza di realizzare una esplicazione delle arti che scaturisca in modo spirituale dalla natura complessiva dell’uomo, proprio come può avvenire per la conoscenza.

Inoltre ci si propone di coltivare un elemento religioso e sociale che scaturisca nel modo più naturale dalla conoscenza spirituale acquistata.

 

Questa conoscenza spirituale vuole afferrare l’uomo nella sua totalità

e scaturire essa stessa dalla totalità dell’essere umano, non da una sola delle facoltà dell’uomo.

Essa quindi si propone di far affluire nella vita spirituale ogni campo della vita teorica e della vita pratica:

solo così si ritiene di poter conseguire risultati di valore umano pieno e universale.

 

Da tale punto di vista vorrei trattare in queste conferenze soprattutto di tre campi della conoscenza: vorrei prenderli come esempi di come, partendo dallo spirito scientifico moderno, si possa pervenire a uno spirito scientifico più alto, appunto spirituale.

Vorrei parlare del modo in cui la filosofia, la cosmologia e la religione dovrebbero trovare, grazie all’antroposofia, una certa configurazione spirituale.

 

• Nei tempi più antichi dell’umanità la filosofia

era la conoscenza universale che illuminava ogni singolo campo dell’esistenza.

Non era una scienza particolare; era la scienza universale, e tutte le altre scienze che noi coltiviamo oggi

derivano in fondo dalla sostanza della filosofia, quale esisteva ancora nella Grecia antica.

 

A fianco di quella, in tempi più recenti è nata una filosofia particolare, a sé, che si esplica in una certa somma di idee. Il curioso è che questa filosofia, che in fondo ha dato origine a tutte le scienze particolari, adesso è costretta a giustificare la propria esistenza nei confronti delle altre scienze. Queste ultime, pur scaturite in origine dalla filosofia, si occupano dei diversi domìni dell’esistenza riconosciuti come realtà: e ciascuno di questi campi esiste per i sensi, o per l’osservazione o per l’esperimento.

È innegabilmente giustificato l’occuparsi in modo scientifico della conoscenza dei diversi campi. Sebbene essi siano tutti scaturiti dalla filosofia, quest’ultima è oggi costretta a giustificare la propria esistenza, a dire per quali ragioni sostiene certe idee, e discutere se tali idee non siano per caso del tutto irreali, nate soltanto da elucubrazioni umane.

Quanto lavoro mentale viene dedicato alla giustificazione delle idee (del resto quanto mai astratte) che oggi costituiscono il contenuto della filosofia, per conferir loro in certo senso una considerazione agli occhi del mondo! Da quelle idee, nel passato, sono nate le scienze: e queste sono, si potrebbe dire, bene accreditate nei loro rispettivi campi di attività.

 

La filosofia invece oggi non è accreditata:

essa è costretta a giustificare la propria esistenza.

Ciò sarebbe stato impensabile nella Grecia antica; l’uomo che allora giungeva anche solo fino alla filosofia

ne sentiva la realtà, come qualsiasi persona sana sente la realtà del respirare.

 

Chi oggi fa della filosofia cercando di coglierne il carattere,

sente l’astrazione, la freddezza, la scarsa vitalità delle idee che vi si sviluppano.

Egli sente che in quel suo campo non si trova ben saldo entro la realtà.

Si vorrebbe dire: solo chi lavora in un laboratorio chimico o fisico, o in una clinica ha veramente qualcosa fra le mani.

Chi oggi pensa ed espone idee filosofiche, si sente spesso lontano le mille miglia dalla realtà.

 

A questo si aggiunge qualcosa d’altro.

Il nome «filosofia» non indica solo una conoscenza teorica; ben a ragione esso significa l’amore per la saggezza.

Ora, l’amore è qualcosa che non ha le sue radici solo nell’intelletto o nella ragione, ma nell’intero animo umano.

La filosofia ha ricevuto il suo nome da un’esperienza profonda dell’anima intera, dall’esperienza di un amore.

Nel fare filosofia, deve essere impegnato l’uomo intero:

e in fondo non è possibile amare, nel vero senso della parola, ciò che è soltanto teorico, arido e freddo.

 

Se la filosofia è amore della saggezza, ciò presuppone in coloro che l’hanno coltivata in questo modo la certezza che questa «sofia», questa saggezza sia pure qualcosa di degno d’amore, qualcosa di reale, di sostanziale, la cui esistenza non ha bisogno di venir dimostrata.

Pensiamo infatti quanto sarebbe assurda l’idea che, per amare qualcuno, occorresse prima dimostrarne l’esistenza! Questa è però la condizione in cui si trova oggi la filosofia. Essa era stata per così dire un essere caldamente amato dall’uomo, accolto con tutto il cuore, riconosciuto completamente nella sua realtà: è diventato qualcosa di astratto, freddo, teorico. A che cosa è dovuto questo cambiamento?

Vogliamo rispondere a questa domanda, non con i dati della storia esteriore, ma risalendo all’origine della vita filosofica con una conoscenza della storia, vissuta e sentita intimamente.

 

Ebbene, la filosofia non viveva originariamente nell’uomo come vive oggi.

Oggi in fondo, quando si pensa scientificamente, si riconosce come valido soltanto ciò che si acquista mediante l’osservazione sensibile o mediante l’esperimento fatto sul piano materiale; poi i dati vengono elaborati con l’intelletto. Quello che si acquista in tal modo viene acquistato dall’uomo fisico: i sensi sono organi fisici, inseriti nell’organismo umano fisico.

Oggi si riconosce scientificamente solo quanto il corpo fisico umano acquista per la conoscenza: ma con questi dati si perviene solamente fino all’uomo fisico stesso, e in questo non può venir trovato ciò che gli antichi consideravano filosofia.

 

Ho già detto che qui mi propongo ora solo di introdurre l’argomento e nei prossimi giorni dovrò spiegarlo più a fondo. Devo però sin d’ora accennare al fatto che ciò che ancora al culmine della filosofia greca veniva chiamato filosofìa (cioè una sostanza spirituale sperimentata nell’intimo dell’anima) non veniva vissuta entro il corpo umano fisico, ma in un organismo umano eterico che compenetra il corpo fisico.

 

Nella nostra scienza moderna si conosce in realtà solo l’uomo fisico.

Non si conosce il tenue corpo eterico che compenetra quello fisico

e nel quale il filosofo greco sperimentava la sua filosofia.

Nel corpo fisico noi sperimentiamo il respiro, o il processo visivo.

Ma come esiste l’organizzazione fisica dell’uomo, così vi è presente anche un corpo eterico, un uomo eterico.

 

• Se guardiamo al corpo fisico, possiamo osservare il processo respiratorio

e possiamo spiegare fisicamente o biologicamente il processo visivo.

• Se invece guardiamo all’uomo soprasensibile eterico,

consideriamo quella componente dell’essere umano nella quale si filosofava, nel senso dei Greci.

La costituzione umana greca era ancora tale

che l’uomo sperimentava se stesso nel proprio organismo eterico.

 

Mettendo in attività, esercitando uno sforzo nell’organismo eterico, analogamente a come si mette in attività l’organismo fisico nella respirazione o nell’atto di vedere, a quei tempi nell’uomo eterico nasceva la filosofia.

Come noi non possiamo mai dubitare della realtà del nostro processo respiratorio, poiché siamo coscienti del nostro corpo fisico, così il greco antico non poteva dubitare che quel che egli sperimentava come filosofia avesse le sue radici nella realtà, in quanto era cosciente del proprio corpo eterico. Egli aveva coscienza che ciò che filosofava, operava nel suo corpo eterico: questo gli era perfettamente chiaro.

L’uomo moderno ha perduto il suo corpo eterico per la propria conoscenza: egli non sa di possedere un corpo eterico.

 

La filosofia tradizionale è una somma di idee astratte in quanto può riconoscere come realtà solo ciò che come realtà si sperimenta, e in cui ci si esplica filosoficamente.

Se quindi si è perduto per la conoscenza l’uomo eterico, si è perduta anche la realtà della filosofia; la si sente come cosa astratta, si sente la necessità di dimostrare la sua esistenza.

 

Immaginiamo che l’uomo acquisti un organismo ancora più denso e più materiale del suo corpo fisico; in tal caso il nostro processo respiratorio, ad esempio, diverrebbe a poco a poco un’esperienza molto più tenue, e alla fine l’uomo verrebbe a perdere del tutto la conoscenza di ciò che è il nostro attuale corpo fisico, come oggi non si sa più nulla del proprio corpo eterico.

In quelle condizioni il respirare diventerebbe una teoria, una somma di idee, e bisognerebbe cominciare col «dimostrarne» la realtà, come oggi bisogna dimostrare che la filosofia ha radici in una realtà.

 

Il dubbio sulla realtà di ciò che bisogna amare nella filosofia

cominciò in seguito alla perdita della conoscenza del corpo eterico umano.

• La realtà della filosofia viene infatti sperimentata nel corpo eterico e non nel corpo fisico.

• Perché la filosofia torni ad essere vissuta come una realtà, occorre che prima nasca la conoscenza dell’uomo eterico;

dalla conoscenza dell’uomo eterico potrà poi scaturire di nuovo una giusta esperienza filosofica.

 

Il primo passo dell’antroposofia consiste appunto nel trasmettere una tale conoscenza dell’uomo eterico.

Nella filosofia l’uomo fa, in un primo momento, un’esperienza interiore di se stesso,

l’esperienza del proprio corpo eterico.

Senonché da quando l’umanità ha cominciato a pensare,

essa sentì anche il bisogno di inserire l’uomo singolo nell’universo intero.

 

L’uomo non ha bisogno solamente di una filosofia, ma anche di una cosmologia.

Egli vuol comprendere in che modo lui stesso,

come singolo individuo che sta nel proprio organismo, in un punto determinato della Terra, del mondo,

appartenga all’universo e in che modo si sia sviluppato dal mondo intero.

 

Nei tempi più antichi dell’evoluzione dell’umanità, l’uomo si sentiva come una parte organica del cosmo intero.

Solo in quanto uomini fisici non ci si può sentire come membri del cosmo.

 

• Ciò che si porta in sé come uomini fisici, nell’esperienza fatta tra la nascita e la morte,

appartiene direttamente alla vita del circostante ambiente fisico-sensibile.

• Oltre a questo, l’uomo ha la vita interiore della sua anima,

che però è qualcosa di completamente diverso da quanto porta nel suo corpo fisico e che deriva dall’ambiente fisico.

• Se l’uomo vuole sentirsi e conoscersi come parte del cosmo intero, dell’universo,

deve sentire e conoscere come parte integrante dell’universo anche la sua vita animica interiore.

 

Nei tempi più antichi gli uomini erano veramente in grado di scorgere nell’universo una vita interiore, di tipo animico, e non per effetto di ciò che oggi viene spesso equivocato come antropomorfismo, ma per una veggenza interiore.

Gli uomini sapevano allora considerare la loro vita animica interiore come parte della vita animica e spirituale dell’universo, in modo analogo a come si può considerare la vita fisica, corporea dell’uomo parte dell’esistenza materiale, sensibile.

 

Nei tempi recenti gli uomini hanno però sviluppato in modo esatto solamente la conoscenza scientifica naturalistica, fondata sull’osservazione dei sensi e sull’esperimento, nonché quella forma del pensare che si basa solo sull’osservazione sensibile e sull’esperimento.

 

Sommando e collegando i risultati scientifici conseguiti in questo modo, si è costruito un sapere universale.

Dai singoli risultati delle scienze naturali si è costruita una cosmologia;

essa contiene però soltanto l’immagine di una somma di fenomeni materiali, riassunta nel pensiero.

Ci si costruisce l’immagine di un universo, ma le singole parti di quell’immagine

sono soltanto le leggi riconosciute nei fenomeni sensibili, materiali.

 

In questo quadro cosmologico delineato dalla scienza moderna non è presente anche la vita animica, la vita spirituale, come invece era presente nella cosmologia degli antichi; è presente solamente ciò che può venir preso in considerazione dalle scienze naturali, cioè il mondo percepibile ai sensi.

Nel quadro offerto dalla cosmologia moderna l’uomo può ritrovarsi quanto al suo corpo fisico, non per quanto concerne la sua vita interiore, la vita della sua anima.

Nei tempi antichi era possibile ricavare la vita interiore dell’anima dal quadro della cosmologia; non si può invece ricavarlo dal quadro cosmologico edificato sulla scienza naturale.

 

Ciò è a sua volta in rapporto col fatto che la conoscenza moderna non è capace di guardare alla vita interiore, animico-spirituale, nello stesso modo in cui sapeva farlo una conoscenza antica, primitiva.

Come procede infatti la conoscenza moderna quando parla della vita animica nel corpo? Essa parla dei fenomeni, delle esperienze interiori del pensare, del sentire e del volere, e considera poi la vita interiore come un risultato di quanto si manifesta singolarmente o complessivamente come pensieri, sentimenti o volizioni. Ci si crea, cioè un quadro nel quale il pensare, il sentire e il volere, presi come dati di fatto, giuocano la loro parte nella vita animica.

 

Se si considera a questo modo la vita interiore animico-spirituale, questa sua immagine non si può mai sottrarre alla seguente obiezione: ciò che viene descritto come una miscela di pensare, di sentire e di volere ha origine con la nascita, con la vita embrionale, e finisce con la morte. Non esiste la possibilità di una conoscenza scientifica che possa impedire di considerare questa immagine della vita dell’anima come destinata a scomparire con la morte.

Di fatto, questo pensare, questo sentire e questo volere si mostra, fra nascita e morte, strettamente congiunto con la vita fisica del corpo. Come vediamo crescere le membra del corpo, così vediamo evolversi il pensare e il sentire. Come vediamo il corpo sclerotizzarsi e andare incontro al declino fisico, così assistiamo al progressivo atrofizzarsi dei fenomeni del pensare, del sentire e del volere.

 

Delle concezioni antiche era propria una conoscenza della vita interiore dell’anima, conoscenza

che si estendeva al di là di ciò che vive soltanto nel pensiero, nel sentimento e nella volontà.

Si guardava a un fondamento della vita animica interiore,

del quale il pensare, il sentire e il volere sono soltanto dei riflessi.

 

Queste qualità dell’anima nascono e si sviluppano fra la nascita e la morte,

ma un’antica conoscenza chiaroveggente primitiva scorgeva quello che ne sta alla base, cioè l’uomo astrale.

 

• Come per prima cosa è dato riconoscere l’uomo eterico

quale costituente soprasensibile nell’uomo fisico,

• così si può imparare a conoscere entro l’uomo fisico-eterico

l’uomo astrale come un suo componente superiore.

 

L’uomo astrale non consiste nel pensare, nel sentire e nel volere, ma si trova a fondamento di queste attività.

Esso penetra vitalmente da mondi animico-spirituali nell’esistenza che noi conduciamo fra nascita e morte.

 

L’uomo astrale è ciò che fra la nascita e la morte si riveste del corpo fisico e del corpo eterico,

e dopo la morte esce nuovamente in un mondo animico-spirituale.

• L’uomo astrale è la parte dell’uomo nei confronti della quale nascita e morte sono solamente forme dell’esistenza.

Solo entro l’organizzazione fisica umana si possono comprendere il pensare, il sentire e il volere,

e solo fra la nascita e la morte si possono trovare.

 

Tutto questo si sviluppa fra quei due limiti ed entro gli stessi limiti poi va scomparendo.

L’uomo astrale, che sta a fondamento del pensare, del sentire e del volere,

va invece oltre l’uomo fisico e quello eterico: è possibile inserirlo nell’universo, nel cosmo;

non è rinchiuso entro l’organizzazione fisica dell’uomo.

 

Per giungere a una cosmologia veramente totale,

ci è necessaria la conoscenza dell’uomo eterico e di quello astrale,

di cui il pensare, il sentire e il volere sono un riflesso.

Ma il pensare, il sentire e il volere si presentano nella singola individualità umana,

e non si può inserirli sul piano cosmico.

 

Si lascia invece inserire in un cosmo spirituale, del quale l’universo fisico è solo un riflesso, ciò che sta a fondamento di quelle attività dell’anima, ciò che fra nascita e morte rimane in esse nascosto, ciò che è accessibile solo a una chiaroveggenza primitiva oppure esatta.

La cosmologia moderna non è altro che una sovrastruttura dei risultati dell’indagine scientifica, un riassunto dei dati ricavati dall’esistenza fisica-sensibile.

La vita interiore dell’uomo non trova posto in tale cosmologia; questa però esiste solo in quanto la conoscenza moderna non offre per nulla un’immagine dell’uomo astrale.

 

Se si concepisce la vita psichica soltanto come una combinazione di pensare, sentire e volere, non è possibile concepirla come persistente al di là della nascita e della morte. Solo se si procede dal pensare, sentire e volere a ciò che in essi si occulta, solo così si perviene a quell’aspetto dell’essere umano che non è più legato al corpo fisico, e che si può concepire come inserito nel cosmo spirituale.

Non si potrà però mai ritrovare un tale cosmo spirituale, dopo averlo abbandonato, perché si è perduta la conoscenza dell’uomo astrale; non si potrà mai ricostruire l’immagine di un tale cosmo spirituale, di un tale cosmo animico, senza avere prima riconquistata l’immagine dell’uomo astrale.

 

La possibilità di una cosmologia che contenga di nuovo l’elemento animico-spirituale

dipende dalla realizzazione di una conoscenza dell’uomo astrale.

 

Se disponiamo di una cosmologia che comprende solo quanto è fisico, l’uomo non sarà presente in essa. La cosmologia esclusivamente fisico-sensibile è stata concepita perché era andata perduta la conoscenza dell’uomo astrale. Se si riacquista quest’ultima, allora esiste anche la possibilità di una cosmologia che offra un’immagine del cosmo comprendente anche l’uomo.

 

Si tratta dunque di pervenire a sviluppare una conoscenza dell’uomo astrale.

In questo modo sarà possibile riconquistare anche una cosmologia che comprenda l’essere umano.

Questo dev’essere il secondo passo dell’antroposofia; vedremo ora quale dovrà essere il terzo.

 

Abbiamo accennato che l’uomo può sperimentarsi

concentrato in se stesso, come nell’esperienza filosofica,

• e che può sperimentarsi come parte del cosmo, secondo l’impostazione di una cosmologia completa.

 

Oltre a ciò, l’uomo si sperimenta anche come un’entità autonoma

• sia nei confronti della propria corporeità fisica,

• sia nei confronti dell’universo di cui pure fa parte.

 

L’uomo si sente indipendente dalla propria corporeità e al tempo stesso indipendente dalla sua appartenenza al cosmo, quando rivolge l’attenzione al vero uomo spirituale: a questo, però, attualmente si può soltanto accennare, quando si enuncia la parola «io».

• Quando pronunciamo la parola «io», intendiamo qualcosa della nostra entità che non coincide né col nostro corpo fisico, né col nostro corpo eterico, né col nostro corpo astrale (in quanto per mezzo di questo siamo parte del cosmo): intendiamo invece un’entità interiore, che poggia su se stessa.

• Possiamo sentire tale entità come appartenente a un mondo particolare, al mondo divino, del quale il cosmo non è che il riflesso esteriore, l’immagine esteriore.

 

Quando noi uomini diciamo «io» a noi stessi, sentiamo che questa entità, cioè l’uomo spirituale al quale con quella parolina si accenna, è in realtà solo rivestito di tutto quanto è contenuto nel cosmo, e che anche la sua corporeità fisica percepibile ai sensi è una veste dell’essere suo vero e proprio.

• Nel fare l’esperienza, mediante una veggenza sia pure primitiva, di questa entità umana indipendente tanto dalla propria corporeità, quanto dal cosmo, l’uomo antico si riconosceva come appartenente a un mondo divino.

• Sapeva però anche che fra la nascita e la morte si trovava estromesso da quel mondo divino: sapeva di essere rivestito di un corpo fisico, e di trovarsi inserito in un mondo fisico-animico.

• Si può dire che egli sapeva che il suo io, il suo vero nucleo essenziale, era nascosto dall’elemento corporeo fisico, e che ricercava l’unione del suo io col mondo divino al quale l’io di, fatto appartiene.

 

In tal modo, proprio nei tempi più antichi e primitivi grazie all’esperienza interiore veggente dell’io,

l’uomo guardava oltre al corpo fisico e all’eterico, oltre alla propria entità astrale,

giungendo a un collegamento (questo è il senso della parola latina «religio») col mondo divino.

La conoscenza filosofica e quella cosmologica sfociavano nella vita religiosa.

 

L’uomo si trovava in certo modo ricongiunto con ciò da cui lo separava il proprio corpo fisico

e con ciò da cui lo separava il cosmo psichico-sensibile.

Nell’esperienza religiosa egli si ritrovava unito col mondo divino,

e questa esperienza costituiva la più alta fioritura della vita di conoscenza.

 

Ma da che cosa dipendeva tale esperienza religiosa, nei gradini primitivi dell’evoluzione dell’umanità?

Dipendeva da una reale esperienza interiore della egoità, del vero uomo spirituale.

Solo quando l’io viene sperimentato si può aspirare per esso al ricongiungimento col mondo divino

e anche sperimentare questa riunione: ecco il senso religioso.

 

Che cosa è diventato però l’io, il vero uomo spirituale, per la conoscenza moderna?

Per essa l’io è diventato l’idea astratta in cui si riassumono i fatti del pensare, del sentire e del volere.

L’io è divenuto una specie di formula riassuntiva del pensare, del sentire e del volere,

e ad ogni modo qualcosa di molto astratto.

 

Perfino i filosofi pervengono a una descrizione, a una caratterizzazione dell’io, riassumendo come in un’astrazione le esperienze del pensare, del sentire e del volere.

Una tale formula riassuntiva delle funzioni del pensiero, del sentimento e della volontà, per caratterizzare l’io, viene però smentita ogni notte, quando l’uomo dorme.

 

Prendiamo come esempio le formulazioni dell’io date da un filosofo moderno, il Bergson. Vi si troverà sempre solo qualcosa che viene confutato da ogni sonno: infatti durante il sonno si estingue tutto ciò che l’io accoglie da tali concetti, da tali idee. La realtà confuta queste definizioni dell’io.

E quanto sto dicendo in questo momento non si può controbattere con l’affermazione che dopo il sonno ci si riallaccia all’io con la memoria. Non si tratta di interpretazioni, ma di fatti. Ciò significa che la conoscenza moderna, anche nei suoi aspetti filosofici più sottili, ha perduto la conoscenza dell’io, del vero uomo spirituale, e con ciò ha perduto pure la via di conoscenza della sfera religiosa.

 

Si è così giunti al punto che, nei tempi moderni, alla conoscenza limitata al mondo dell’osservazione e dell’esperimento si affiancano le tradizioni provenienti da tempi più antichi nei quali fioriva una vita religiosa vera e reale:

le tradizioni vengono conservate, ma si è perduta la via della conoscenza, perciò si crede soltanto.

Così il sapere e la fede stanno l’uno di fianco all’altra, per l’uomo moderno

che non vuole estendere la conoscenza fino alla sfera dell’esperienza religiosa.

Ogni contenuto di fede esistente oggi, in passato fu un contenuto di conoscenza

che oggi viene rievocato come reminiscenza, in quanto si è conservato nella tradizione.

 

Non esiste alcun contenuto di fede che non sia reminiscenza di un antico contenuto di conoscenza.

Oggi non si possiede la visione viva, trasmessa da una chiaroveggenza esatta, del vero io:

di quell’io che non viene spento dal sonno, ma che sta a base tanto del sonno, quanto della veglia.

 

E siccome non si possiede la chiaroveggenza esatta dell’io,

si è perduta anche la prosecuzione della via della conoscenza entro la sfera religiosa,

e si pone a fianco del sapere la fede

che in fondo non è altro che la riesumazione di antiche tradizioni sotto forma di reminiscenze.

• Quello che un tempo costituiva un’unità, cioè la conoscenza del mondo fisico e la conoscenza del mondo divino,

si è spezzato in due sfere affiancate esteriormente l’una all’altra: il sapere e la fede.

 

Ciò dipende dal fatto che l’antica conoscenza chiaroveggente primitiva del vero io (non considerato estinto durante il sonno, ma come fondamento dell’uomo, anche quando pensare, sentire e volere sono momentaneamente spenti dal sonno), che l’antica chiaroveggenza è andata perduta e che la chiaroveggenza esatta non è ancora progredita fino alla percezione del vero nucleo individuale dell’uomo: fino all’uomo spirituale.

Una prosecuzione diretta dalla conoscenza del mondo esterno alla conoscenza del mondo spirituale si avvererà solamente quando una chiaroveggenza esatta vorrà progredire fino ad osservare il vero io dell’uomo: come d’altra parte deve progredire verso la percezione della natura eterica e di quella astrale dell’uomo. In quel momento la scienza tornerà a sfociare entro la vita religiosa.

 

La scissione fra il sapere e la fede esiste

perché abbiamo perduto la viva conoscenza chiaroveggente del vero io,

del quarto elemento costitutivo dell’entità umana.

Ecco perché è compito della nuova vita dello spirito

il riconquistare la conoscenza del vero io mediante la chiaroveggenza esatta.

 

Si riaprirà allora la via per progredire dalla conoscenza del mondo alla conoscenza di Dio, dalla concezione del mondo alla vita religiosa; la fede non sarà più qualcosa di specificamente diverso dal sapere, ma sarà solo una particolare e più alta forma del sapere stesso.

Quello di cui abbiamo dunque bisogno è la possibilità di una reale conoscenza dell’io;

da questa risulterà poi anche una nuova esperienza religiosa.

 

Il terzo passo dell’antroposofia dovrà dunque essere: stabilire questa conoscenza dell’io

in modo che essa prenda il suo posto entro la scienza spirituale,

analogamente alla già menzionata conoscenza dell’uomo eterico (che non è percepibile nel corpo umano)

e alla conoscenza dell’uomo astrale che si estende oltre la nascita e la morte:

così deve essere la conoscenza dell’io, il quale è superiore al sonno e alla veglia,

ma del sonno e della veglia rappresenta lo sfondo.

 

Procedendo in tal modo, dal punto di vista dell’indagine antroposofìca dovranno risultare:

una moderna filosofia

mediante la conoscenza chiaroveggente esatta del corpo eterico;

una cosmologia che abbracci anche l’uomo,

mediante una chiara comprensione della entità astrale dell’uomo;

un rinnovamento della vita religiosa,

mediante un’esatta comprensione del vero io umano che si estende oltre sonno e veglia.

 

Nei prossimi giorni mi permetterò dunque di continuare a prendere in considerazione da questo punto di vista la filosofia, la cosmologia e la religione.